Tutto chiaro? Sì. Anzi, forse. Tra le pagine più oscure della storia italiana recente ci sono quelle che appartengono alla cosiddetta Banda della Uno bianca, che prese il nome dal modello e dal colore dell’auto utilizzata per compiere alcune delle innumerevoli e sanguinarie scorribande che hanno turbato l’Emilia Romagna e un Paese intero tra il 1987 e il 1994.
Sette anni di terrore e di violenza praticata oltre i confini della logica, sette anni che si sono chiusi con un bilancio spaventoso: 24 morti ammazzati, più di cento feriti. Oltre a questa carneficina ci sono decine e decine di rapine a caselli autostradali, uffici postali, banche, distributori di benzina, tabaccai.
Domanda d’obbligo: ma era proprio necessario uccidere 24 persone e ferirne un centinaio? No che non lo era, ed è proprio questo uno degli angoli bui che non si è mai riusciti a illuminare completamente. Nonostante tutti i colpevoli siano stati inchiodati da prove inoppugnabili, non è mai stato spazzato via il dubbio che dietro la ricostruzione dei fatti (che ha retto in tutti i processi) ci possa essere stato qualcos’altro, qualcosa di così inconfessabile da essere custodito gelosamente insieme ai tanti (troppi) misteri italiani.
A onor del vero, è il caso di sottolinearlo, non è mai saltato fuori un elemento inequivocabilmente concreto per poter sostenere che le azioni della Uno bianca fossero in qualche modo orientate da entità rimaste prudentemente dietro le quinte. Tuttavia la facilità con la quale i fratelli Savi hanno premuto il grilletto, come se godessero dell’impunità assoluta, è sempre sembrata piuttosto inspiegabile.
Detto questo, è il caso di concentrare l’attenzione soprattutto sui fatti, perché dietro il muro invalicabile degli interrogativi senza risposta, restano i dati nudi e crudi delle imprese che la Banda ha realizzato in sette anni di delirante attività criminale.
Un bagno di sangue impressionante, una mattanza apparentemente inutile che ha lasciato sull’asfalto tutta gente innocua: molti giovani, padri di famiglia e lavoratori la cui unica colpa è stata quella di incappare nella follia omicida di personaggi dei quali nessuno avrebbe mai dubitato.
E qui veniamo al punto più inquietante dell’intera vicenda. I sospetti relativi all’eccessivo ricorso alle armi e ai numerosi e scongiurabili omicidi, sono direttamente collegati a un elemento che rende la Banda della Uno bianca assolutamente unica: due dei principali componenti erano poliziotti, ed erano poliziotti anche tre complici arruolati nel corso degli anni per compiere delle rapine.
Indossare una divisa o poter esibire un tesserino ha inevitabilmente rappresentato uno stratosferico vantaggio; ma se le manette sono arrivate tardi è anche perché le indagini si sono smarrite in mezzo a una fitta boscaglia di ipotesi e supposizioni che hanno avuto solo l’effetto di ostacolare l’accertamento della verità. In almeno due occasioni sono stati arrestati soggetti che non c’entravano assolutamente nulla con i raid della Uno bianca. Oltre ad accusare persone estranee ai fatti, gli svarioni investigativi hanno avuto l’effetto di accrescere il senso di onnipotenza e di impunità della gang.
Questa orrenda storia rossa come il sangue e nera come la coscienza dei protagonisti, è stata raccontata da giornalisti e scrittori, ha animato dozzine di trasmissioni televisive, è diventata anche un film per la televisione. È una storia che ha avuto un suo epilogo perché tutti i componenti dell’organizzazione sono stati arrestati e condannati. Merito, in particolare, della tenacia di due poliziotti – l’ispettore capo Luciano Baglioni e il vice sovrintendente Pietro Costanza – che non hanno mai smesso di indagare neppure quando sembrava che la verità interessasse solo a pochi.
Torniamo per un attimo alla domanda: perché? Si, perché giustiziare 24 persone e ferirne almeno 100 per portare a casa una cifra complessiva vicina ai 2 miliardi di lire? Intendiamoci, 2 miliardi di lire rappresentano una somma notevolissima, ma dei rapinatori seriali non avrebbero mai sparato così tanto, ammazzando inutilmente un sacco di persone.
A ogni modo, il movente ufficiale che ha cementato il rapporto tra i componenti dell’organizzazione è stato il denaro: in molti casi serviva per fare la bella vita, in altri per integrare lo stipendio, in altri ancora (almeno all’inizio) per non farsi risucchiare nel gorgo dei debiti. Poi c’erano il mutuo o i vizi dell’amante.
La Banda della Uno bianca può essere considerata in parte un’azienda del crimine a conduzione familiare perché i fondatori sono tre fratelli: Roberto, Fabio e Alberto Savi. Il legame di parentela non è l’unico elemento singolare. Ancora più singolare, infatti, è che due dei tre fratelli – Roberto e Alberto – sono dei poliziotti: il primo è in servizio alla questura di Bologna, il secondo a Rimini. Fabio, invece, ha una carrozzeria; pure lui ha tentato di arruolarsi in polizia, però lo hanno scartato per un difetto alla vista. Roberto è da considerarsi il leader del gruppo, e non solo perché è il più “anziano”. Lo chiamano “il monaco” per un atteggiamento mite e silenzioso, da ragazzo ha frequentato gli ambienti del Fronte della Gioventù; qualche volta ha usato le maniere spicce con piccoli criminali, ma sul lavoro i colleghi lo considerano piuttosto scrupoloso. Un carattere incline alla riservatezza non lo rende particolarmente simpatico.
Fabio, invece, non ha mai smaltito la delusione per non essere diventato pure lui un servitore dello Stato. Ma forse è meglio così, perché ha un temperamento aggressivo e una smodata passione per le armi; la sua ex moglie dirà che Fabio con le pistole e i fucili ci parlava. Eva Mikula, la sua compagna ungherese, lo descriverà come un soggetto violento e dai gusti sessuali perversi.
Alberto è il meno aggressivo dei fratelli, nei confronti dei quali ha un atteggiamento di sudditanza. Non è particolarmente coraggioso, e che non sia un cuor di leone lo si evince dalla descrizione che di lui faranno gli altri della Banda. Cercherà di giustificarsi sostenendo di non aver compiuto omicidi, ma le testimonianze dei fratelli lo smentiranno. Per la sua personalità non particolarmente forte Roberto e Fabio non lo coinvolgeranno nelle azioni più cruente.
L’esordio della Banda avviene il 19 giugno del 1987. Il primo obiettivo è il casello autostradale di Pesaro: il blitz frutta quasi 1 milione e 300.000 lire. Vanno lisce come l’olio altre 12 rapine compiute nel giro di 2 mesi ad altri caselli sparsi tra Riccione, Cesena, Rimini, San Lazzaro (Bologna), Ancona, Forlì. I guadagni più consistenti arrivano però solo il 24 luglio con una rapina all’Ufficio postale di Coriano (Forlì): 54 milioni tondi tondi. Nei primi 90 giorni di “attività” il gruppo di fratelli porta a casa 90 milioni.
Nell’ottobre del 1987 la Banda cambia bersaglio e decide di praticare un’estorsione da 30.000 euro a un importante concessionario d’auto di Rimini, Savino Grossi, colpevole di non aver saldato un debito con Fabio Savi. Il commerciante subisce un attentato (gli sparano sulle vetrine della concessionaria poi alle finestre di casa), finge di cedere al ricatto ma si rivolge alla polizia che organizza una trappola per arrestare i delinquenti. Ma quando gli agenti si presentano nel punto in cui Grossi deve consegnare il denaro, si scatena un conflitto a fuoco nel quale viene gravemente ferito il sovrintendente Antonio Mosca, originario di Castellammare di Stabia (Napoli):
Gli agenti, a bordo della Fiat Panda dell’imprenditore e di una Alfa 33, giunti sotto il cavalcavia vennero però accolti con decine di colpi di fucile a pompa esplosi dai banditi appostati sul cavalcavia e nel fossato costeggiante l’autostrada. Mosca e altri due agenti rimasero feriti gravemente mentre uno degli agenti rimasto illeso rispose al fuoco trapassando il giubbotto di uno dei banditi il quale però riuscì a fuggire insieme ai complici. Il sovrintendente Antonio Mosca venne raggiunto da cinque pallettoni nel torace ed uno alla testa. Iniziò per lui un lento calvario ospedaliero, nel corso del quale gli vennero asportati due lobi del polmone destro.
(Marco Melega, Baglioni e Costanza, Mandragora, 1996)
Mosca morirà il 29 luglio del 1989. Tra gli agenti coinvolti nella sparatoria c’è anche Luciano Baglioni: è rimasto scioccato, era un amico – oltre che collega – di Mosca. Lo scoramento è tale che gli viene persino la tentazione di abbandonare la polizia. Ma resiste e promette a sé stesso di arrestare chi ha fatto fuoco sul sovrintendente: impiegherà molti anni, ma manterrà la promessa.
Il primo morto ammazzato della gang si chiama Giampiero Picello, è una guardia giurata che il 30 gennaio del 1988 è in servizio nel supermercato Coop del quartiere Celle, a Rimini. La rapina va male, c’è una sparatoria e a rimetterci la vita è Picello; restano ferite altre 6 persone.
Tre settimane dopo, è il 20 febbraio, un altro raid in un supermercato di Casalecchio di Reno (Bologna) si trasforma in tragedia. A morire è Carlo Beccari, ventisei anni, pure lui guardia giurata: l’obiettivo è un furgone portavalori, ma i vigilantes reagiscono all’assalto e la Banda spara uccidendo Beccari e ferendo il suo collega Francesco Cataldi.
Due mesi dopo, è il 20 aprile, a morire sono 2 giovani carabinieri, il ventiduenne Cataldo Stasi e il ventiquattrenne Umberto Erriu. Stanno effettuando un controllo in un parcheggio a Castel Maggiore (Bologna), si avvicinano a una Fiat Uno nella quale ci sono alcuni componenti della Banda. Stasi ed Erriu chiedono i documenti, ma dall’auto partono dei colpi di arma da fuoco: i due militari restano a terra, cadaveri.
Le indagini, intanto, indirettamente danno una mano non trascurabile ai Savi: in carcere, con l’accusa di aver rapinato i furgoni portavalori, finisce un gruppo di persone che non c’entra assolutamente niente. Un’altra mano gliela dà l’ipotesi secondo la quale l’omicidio dei due carabinieri ha una matrice terroristica. Gli inquirenti dimostrano di non aver capito granché e ciò convince i Savi di essere al sicuro e quindi di poter agire con maggiore tranquillità.
Il 25 giugno del 1989 c’è una nuova vittima, Adolfino Alessandri, allenatore di una squadra di calcio giovanile di Corticella (Bologna). Sta passeggiando in bici quando viene attirato dal rumore dei colpi di pistola che provengono dal supermercato Coop: c’è appena stata una sparatoria, 4 guardie giurate sono rimaste ferite. Alessandri incrocia per un attimo i banditi e gli urla: «Cosa fate, delinquenti!». La risposta è una pistolettata che lo lascia a terra, morto.
Nel 1990 le vittime sono complessivamente 6. Il 15 gennaio la Banda organizza un colpo all’Ufficio postale di via Mazzini, a Bologna. Nella mattinata le forze dell’ordine ricevono dozzine di telefonate che segnalano inesistenti rapine in diversi punti della città; è un trucco per allontanare il più possibile carabinieri e poliziotti da quella zona. Pur di portare a casa il malloppo i banditi non badano affatto alle conseguenze: infatti viene fatta esplodere una bomba che per poco non provoca una strage. I feriti saranno più di una quarantina, tra questi c’è anche il pensionato Giancarlo Armorati che morirà alcuni mesi dopo.
Il 6 ottobre a Bologna viene assassinato Primo Zecchi, pensionato. È in via Zanardi, sta aspettando la moglie e la figlia di ritorno da una gita, quando nota due soggetti che hanno appena rapinato una tabaccheria e stanno scappando a bordo di un’auto guidata da un complice. Con un foglietto e una penna segna il numero della targa e urla ad alcune persone affacciate al balcone di chiamare subito la polizia. I due delinquenti si accorgono dello zelo del pensionato e prima di dileguarsi gli sparano e lo uccidono.
Il 10 dicembre non ci sono rapine in programma ma per appagare i loro istinti razzisti organizzano una spedizione punitiva contro gli odiati zingari. A Bologna un commando si presenta davanti a un campo Rom, scende dall’auto e fa fuoco a ripetizione con fucili e pistole: è una pioggia di piombo notevole che solo per fortuna non uccide nessuno; i feriti però saranno una decina.
La sanguinaria attività della Banda della Uno bianca non si placa neppure durante le feste di Natale. Il 23 dicembre 1990 si registra una irruzione in un campo nomadi di via Gobetti, a Bologna. Gli autori del raid sparano come fossero al Luna Park e uccidono Rodolfo Bellinati (trent’anni) e Patrizia Della Santina (trentaquattro), due sinti italiani; i feriti sono diversi, ci sono anche una bambina e una ragazza.
Quattro giorni più tardi due innocenti vanno al creatore nel giro di poche ore. Luigi Pasqui, cinquant’anni, commerciante di vernici, viene freddato mentre tenta di dare l’allarme dopo aver assistito a una rapina a un distributore di benzina a Castelmaggiore (Bologna); si trovava lì perché era andato a lavare la macchina. Resta ferito Andrea Farati, trentacinque anni, uno dei gestori dell’impianto.
Il 4 gennaio del 1991 i componenti della Banda della Uno bianca compiono uno degli atti più vigliacchi e sanguinari. Accade al Pilastro, uno dei quartieri periferici di Bologna: incrociano una pattuglia dei carabinieri, la inseguono e sparano addosso a tre giovanissimi militari. In quell’agguato di inspiegabile stile terroristico-mafioso moriranno Andrea Moneta, Otello Stefanini e Mauro Mitilini. Moneta aveva ventitré anni, gli altri ventidue. È un triplice omicidio che lascia il Paese sconvolto, non si capisce chi e perché abbia massacrato tre carabinieri senza alcun motivo. Si fa strada la tesi che sia un agguato terroristico.
Il 20 aprile del 1991 una rapina finisce male: muore il benzinaio Claudio Bonfiglioli, uccidono anche il suo cane Tom. Il 2 maggio dello stesso anno i morti sono 2: Licia Ansaloni e Pietro Capolupi, titolari dell’armeria Volturno, nel pieno centro di Bologna.
Graziano Mirri viene invece ammazzato con nove colpi di pistola durante una rapina al suo distributore, a Cesena: gli sparano inutilmente, perché si danno alla fuga senza portar via il denaro.
Il 18 agosto del 1991 a San Mauro a Mare (Forlì), la gang uccide due senegalesi dopo un inseguimento in macchina: le vittime si chiamano Babon Cheka e Malik Ndiay; un loro amico resta solo ferito. Dirà il sostituto procuratore della Repubblica Roberto Sapio:
«Troppo sicuri ed esperti di cose militari. Potrebbero essere schegge impazzite di apparati dello Stato. E noi non abbiamo uomini e strumenti per contrastarli».
(«la Repubblica», 20 agosto 1991)
Nel 1992 non ci sono morti ammazzati, il gruppo si limita a cinque rapine tra Bologna e Cesena. Il 24 febbraio 1993 riprende la mattanza: in un canale di Zola Predosa (Bologna) viene trovato il cadavere di Massimiliano Valenti, ventuno anni. Aveva visto i rapinatori effettuare un cambio di macchina, e per questo era stato sequestrato, portato in una zona isolata, ucciso e poi gettato in un fosso.
Il 7 ottobre del 1993 va male una rapina in una banca di Reale (Bologna). La cassiera riesce a scappare e si dirige verso l’officina di Carlo Poli; i banditi sparano contro la donna ma uccidono Poli. L’ultima vittima si chiama Ubaldo Paci ed è il direttore di una filiale della Cassa di Risparmio, a Pesaro. Lo abbattono senza portar via neppure i soldi.
Fino all’ottobre del 1994 realizzano diverse rapine, alcune molto fruttuose. In qualche caso ci scappano anche dei feriti. L’Emilia Romagna è terrorizzata, da 7 anni c’è un gruppo di criminali che ha reso insicure le strade della regione e trasformato tutte le banche, gli uffici postali e i supermercati in luoghi in cui si rischia la vita. La paura deriva pure dalla sgradevole sensazione di impotenza dello Stato, incapace di fermare la carneficina nonostante siano state messe in campo squadre di investigatori con il preciso compito di arrestare i colpevoli.
Per fortuna ci sono due poliziotti della questura di Rimini – l’ispettore capo Luciano Baglioni e il vice sovrintendente Pietro Costanza – che non hanno ancora mollato nonostante la rassegnazione che li circonda. In totale solitudine hanno fatto appostamenti e pedinamenti, incrociando centinaia di nomi, controllando in maniera ossessiva date, indirizzi, targhe di auto. Un lavoro incredibile.
È grazie a loro due se nel novembre del 1994 la Banda della Uno bianca va incontro alla sua fine. Al termine di una infinita serie di riscontri, e confrontando le immagini registrate in una delle banche rapinate, Baglioni e Costanza riescono a dare un nome e un volto a uno dei componenti dell’organizzazione: è Fabio Savi. Andando a ritroso ricostruiscono la rete dei sui complici: scoprono, con raccapriccio, che uno dei rapinatori-assassini è un insospettabile collega, Roberto Savi. Poi, come in un inarrestabile effetto domino, finiscono in galera anche gli altri componenti dell’organizzazione, e il risultato dell’indagine è sconcertante. Della Banda facevano parte altri quattro poliziotti: un altro fratello dei Savi, Alberto, e poi Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli; la posizione di Vallicelli è però da considerare assolutamente marginale. Se Alberto Savi è stato tirato dentro per comprensibili azioni familiari, desta stupore il coinvolgimento degli altri, tutti insospettabili.
Gugliotta aveva lavorato insieme a Roberto Savi, i colleghi lo consideravano “scrupoloso e generoso”; sembrava un ragazzo tranquillo, con l’hobby della pesca. Nessuno avrebbe mai sospettato neppure di Occhipinti, in servizio alla sezione Narcotici della Squadra mobile di Bologna, apprezzato da colleghi e superiori e anche dai magistrati. Era stato anche un esponente del SAP, il sindacato della polizia di destra. Sul perché si sia fatto trascinare, lo spiegherà lui stesso dopo l’arresto:
Roberto Savi se ne andava in giro mostrando delle mazzette di denaro di piccolo taglio, voleva vedere come reagivamo. Cominciammo a parlare di rapine così, per scherzo, poi passammo a compierle davvero. Io stavo per sposarmi, avevo bisogno di soldi.
(www.misteriditalia.it/unobianca/chi-sono/AlbertoSavi.pdf)
Occhipinti confessa di aver fatto parte della Banda, ma fino al 1988. Nei sei anni successivi però resterà in silenzio mentre i suoi colleghi fanno i macellai in giro per l’Emilia Romagna.
Il processo si chiuderà con una sentenza durissima. I tre fratelli Savi saranno condannati all’ergastolo; stessa sorte per Occhipinti, che pur essendo un componente di secondo piano della Banda verrà riconosciuto colpevole di aver preso parte all’assalto di un furgone porta-valori nel quale era stata assassinata la guardia giurata Carlo Beccari; è tornato in libertà nel luglio del 2018. Gugliotta (che non è stato mai coinvolto negli omicidi) avrà 18 anni; mentre Vallicelli (coinvolto solamente in una rapina) sarà condannato a 3 anni e 8 mesi.