Totò Riina, la belva di Corleone

Chi lo conosceva bene lo chiamava “Attila” o “la Belva”, due soprannomi più che sufficienti a inquadrare il personaggio. Chi non lo ha mai conosciuto, per svariati decenni lo ha visto soltanto in una foto scattata nel 1974 in piazza San Marco, a Venezia, durante il viaggio di nozze: era sorridente e i piccioni erano appollaiati sulle sue non lunghissime braccia. Poi, molti anni più tardi, dozzine di collaboratori di giustizia hanno arricchito con particolari inediti e inquietanti quella immagine in bianco e nero, dipingendo quell’uomo come un soggetto senza pietà, assetato di sangue e interessato solo all’accumulazione dei “piccioli”, dei soldi.

Lo abbiamo rivisto in foto e in video il 15 gennaio del 1993, pochi minuti dopo l’arresto e al termine di una latitanza durata 24 anni: abiti dimessi e un broncio da contadino innocente finito in un ingranaggio più grande di lui. Niente di più ingannevole, in quell’occasione recitava solo la parte del lupo goffamente travestito da agnello.

Se nell’immaginario collettivo c’è un uomo che ha incarnato il male, quest’uomo è Totò Riina (nato nel 1930): una vita da mafioso sanguinario, il volto sinistro associato alle azioni più atroci compiute da Cosa Nostra.“’U curtu” – come lo chiamavano a causa di una statura non certo da giocatore di basket (era alto 1,58) – si è macchiato di delitti orribili ed è sicuramente da iscrivere nella lista degli assassini più feroci del nostro Paese. Dirà di lui il collaboratore di giustizia catanese Antonino Calderone:

È potente come Gesù Cristo perché ha il potere supremo. Dispone della vita dell’uomo. Con un cenno può togliere o risparmiare la vita di chiunque. È al di sopra di tutti.

(Pino Arlacchi-Antonino Calderone, Gli uomini del disonore,

Mondadori, 2010)

Il boss pentito Tommaso Buscetta sarà ancora più esplicito paragonandolo al terribile sovrano degli Unni:

Le belve non ragionano, vivono di istinti. Lui no, lui ragiona, eccome. Totò Riina è semplicemente la reincarnazione di Attila, dove è passato lui ha portato la distruzione nella mafia, nella politica, fra la gente perbene.

(Bruno De Stefano, I boss che hanno cambiato la storia della malavita, Newton Compton, 2018)

Che non si trattasse di esagerazioni dettate da rancori mai sopiti lo conferma un dato eloquente e incontrovertibile: Riina ha collezionato 26 ergastoli e il suo nome è una presenza costante in tutti i processi per gli omicidi più efferati firmati da Cosa Nostra, in particolare dagli anni Settanta in poi.

Nato in una famiglia contadina, fin da giovanissimo s’era messo in testa di affrancarsi dalla fame e alla fine c’è riuscito. Ma il percorso che dal lavoro nei campi lo ha condotto alla ricchezza è disseminato di morti ammazzati; del resto l’eliminazione fisica del nemico per lui è sempre stata l’unica opzione. Si potrà obiettare che tutti i capimafia si sono fatti largo lasciando sul selciato un discreto numero di cadaveri, è vero, ma Riina è l’unico che ha trascinato Cosa Nostra in una guerra aperta allo Stato utilizzando massicce quantità di tritolo. Uno scontro che diventerà anche il suo peggiore investimento.

La sua violenta esuberanza emerge abbastanza presto: a diciannove anni commette il suo primo omicidio sparando a un coetaneo durante una rissa. Poi si lega a Luciano Leggio, il boss del suo paese, un altro abituato a ricorrere a soluzioni drastiche con estrema disinvoltura. Per conto di Leggio fa di tutto, soprattutto sbriga con dedizione tutto il lavoro sporco, spalleggiato da un ragazzo più grande di lui e destinato a fare carriera, Bernardo Provenzano.

Quando Leggio si eclissa trasferendosi a Milano, Riina prende il suo posto e dalla periferica Corleone comincia una scalata che lo porterà sulla cima dell’organizzazione mafiosa. L’allergia per ogni tipo di mediazione gli ha sempre suggerito di risolvere qualsiasi conflitto accoppando gli avversari. Spesso non elimina solo i rivali ma pure quelli che ingenuamente si fidano ciecamente di lui e delle sue melliflue buone maniere. L’abitudine a sbarazzarsi di chiunque ostacoli i suoi piani si manifesta all’inizio degli anni Ottanta, quando alla guida dei Corleonesi dichiara guerra alle cosche di Palermo. Un braccio di ferro armato (passato alla storia come la seconda guerra di mafia) condotto su due fronti: uno interno all’organizzazione, che prevede la soppressione di pezzi da novanta; l’altro esterno all’organizzazione e che prevede l’eliminazione di giudici, poliziotti e giornalisti che con il loro lavoro rischiano di compromettere affari e alleanze:

La mattanza comincia il 9 marzo del ’79 con l’assassinio di Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia cristiana; il 21 luglio muore Boris Giuliano, il capo della Squadra mobile; il 25 settembre un commando uccide il giudice Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso; il 6 gennaio del 1980 la stessa sorte tocca a Piersanti Mattarella, presidente della Regione; il 5 maggio tocca ad Emanuele Basile, capitano dei carabinieri della compagnia di Monreale.

(De Stefano, op. cit.)

Tra i vecchi compari diventati troppo ingombranti a lasciarci la pelle è il potentissimo Stefano Bontate (assassinato il 23 aprile del 1981). Poi è la volta di Totuccio Inzerillo (11 maggio) e della sua famiglia: moriranno il figlio Giuseppe (aveva diciassette anni, fu mutilato e ucciso perché voleva vendicare il padre) e i fratelli Santo e Pietro. Il regolamento di conti coinvolge anche gli amici di Bontate: da Totuccio Contorno, che però riesce a salvarsi, a Tommaso Buscetta. Buscetta è in Brasile quando gli uomini di Riina gli ammazzano due figli, un cognato, un fratello e un nipote. Il 16 giugno del 1982 la scure di “’u curtu” falcia pure il catanese Alfio Ferlito: lo massacrano mentre viene trasferito nel carcere di Trapani; insieme a lui moriranno a colpi di fucili e pistole anche i tre carabinieri che lo stanno scortando e l’autista del furgone blindato. Due mesi e mezzo dopo, a Palermo, viene teso un agguato al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa; insieme a lui perde la vita la moglie Emanuela Setti Carraro.

È una strategia del terrore che capovolge la filosofia della mafia siciliana: prima si colpivano gli obiettivi in maniera chirurgica, ma con l’avvento di Riina si spara senza mai fare troppo caso alle conseguenze. La furia distruttrice è tale che molte famiglie per salvare la pelle sono costrette a fuggire all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Riina è oramai un leader di cui tutti hanno paura ed è virtualmente il capo dei capi, sebbene alla guida della Cupola (il governo di Cosa Nostra) ci sia Michele Greco detto “il Papa”, un uomo di indubbia caratura ma facilmente influenzabile dall’arrembante ex contadino di Corleone. Nel 1986 il sogno di “’u curtu” si materializza: il 20 febbraio Greco finisce in manette e il suo arresto gli spiana la strada verso il dorato trono di Re della mafia siciliana.

La scalata al potere non è priva di pesanti amarezze. La più devastante è la sentenza del maxiprocesso di Palermo: grazie ai pentiti – in particolare a Buscetta e Contorno – centinaia di mafiosi sono alla sbarra. In primo e secondo grado il dibattimento si chiude malissimo: una pioggia di ergastoli e pene pesantissime per capi e gregari. Una disfatta inattesa e dalle proporzioni gigantesche che nel 1992 diventa definitiva perché la Cassazione conferma tutte le condanne. Per “’u curtu” è uno smacco colossale che non deve restare impunito.

Riina decide di alzare il livello dello scontro con lo Stato. Molti suoi sodali sono contrari al conflitto, pensano che sia un pessimo investimento, ma evitano di manifestare apertamente il dissenso perché opporsi significa mettere in pericolo le loro vite. Il capo dei capi punta ai bersagli grossi, il primo dei quali è Salvo Lima, eurodeputato della Democrazia cristiana sospettato di essere contiguo alla mafia. Lima viene ammazzato il 12 marzo del 1992: Riina e gli altri componenti della Cupola gli fanno pagare con la vita la scarsa dedizione che avrebbe profuso per ottenere in Cassazione l’annullamento della durissima sentenza del maxiprocesso.

Quel che accade dopo è ancora più angosciante. Portano la firma di Totò Riina due delle stragi più orribili del secolo scorso. Alle 17:58 del 23 maggio del 1992, all’altezza dello svincolo di Capaci, il tritolo fa saltare in aria il corteo di auto che scorta il giudice Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo; perdono la vita pure i poliziotti Vito Schifani, Rocco Di Cielo e Antonio Montinaro. Falcone era un nemico storico di Cosa Nostra, le sue inchieste si sono trasformate in processi che hanno portato a centinaia di condanne. Secondo Riina, Falcone doveva pagare con la vita il suo impegno contro le cosche. L’Italia è sconvolta dalla strage, ma “’u curtu” non ha ancora concluso la sua strategia del terrore. Cinquantasette giorni dopo la mattanza di Capaci, un’autobomba parcheggiata davanti al palazzo in cui abita la madre, in via D’Amelio, uccide il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina). La fretta con la quale si è decisa l’eliminazione di un altro magistrato in prima linea è sospetta: non è da escludere che, pur essendo da sempre odiato dai mafiosi, Borsellino sia stato eliminato perché era diventato pericoloso anche per quel grumo di potere che con Cosa Nostra ha sempre fatto affari. Il 17 settembre c’è un altro omicidio “eccellente”: la vittima è l’esattore Ignazio Salvo, che insieme al cugino Nino (morto di tumore nel 1986) era considerato una sorta di anello di collegamento tra la mafia e l’universo politico-imprenditoriale. Pure lui come Lima non avrebbe fatto abbastanza per disinnescare la sentenza del maxiprocesso.

A ogni modo, così come avevano previsto i più “moderati”, le stragi di Capaci e via D’Amelio provocano effetti devastanti per l’organizzazione. Dopo decenni di ritardi, impunità e connivenze, lo Stato reagisce con la cattura di numerosi latitanti e un’azione complessivamente più efficace nei confronti delle mafie. La legge sui collaboratori di giustizia incoraggia diversi padrini e gregari a voltare le spalle ai vecchi compari e a rivelare ciò che sanno. Più d’uno riferirà di aver abbandonato Cosa Nostra proprio per la folle gestione di “’u curtu”. Secondo quest’ultimo, infatti, i pentiti vanno eliminati e se non ci si riesce bisogna colpire i loro familiari, anche i bambini se necessario, come racconterà il pentito Salvatore Cancemi:

Ero sconcertato di appartenere a Cosa Nostra, Riina era diventato Lucifero, un demonio. Io gli ho sentito dire che si potevano ammazzare, sino al ventesimo grado di parentela, tutti i parenti dei pentiti, a cominciare dai bambini di sei anni. In quell’occasione mi si sono rizzati i capelli, sentendo quelle parole: bambini di sei anni.

(«la Repubblica», 24 aprile 1994)

Mentre la mafia uccide, Totò Riina continua a essere imprendibile. Ma lui è particolarmente bravo a nascondersi, o forse non si è fatto proprio di tutto per catturarlo? La domanda può sembrare retorica, ma qualche sospetto è legittimo. Altrimenti – per dirne una – qualcuno si sarebbe accorto che nel frattempo la moglie Ninetta Bagarella dava alla luce, in una clinica palermitana dov’era ricoverata col suo nome, gli eredi del boss: nel 1974 è nata Maria Concetta, alla quale sono seguiti Giovanni (nel 1976), Giuseppe (1977) e Lucia (1980).

“La Belva” smette di essere un pericolo solo la mattina del 15 gennaio del 1993, quando gli uomini dell’Arma lo arrestano a Palermo mettendo fine a una fuga durata 24 anni. L’indagine che ha portato alla cattura è stata condotta da una squadra di giovani carabinieri che ha lavorato per mesi in rigoroso silenzio, e al vertice della quale c’è il capitano Sergio De Caprio, noto col soprannome di “Ultimo”:

Qualche ora dopo viene diffusa la nuova foto del capo dei capi, quella che prende il posto dell’immagine scattata a Venezia nell’aprile del 1974 che lo ritrae sorridente in piazza San Marco, con i piccioni appollaiati sulle braccia allargate. Stavolta non solo non ci sono i piccioni ma non c’è neppure il sorriso, sostituito da un’espressione cupa come il suo pedigree criminale. I carabinieri lo ritraggono mentre alle spalle campeggia la foto dell’ex prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nel borsello che aveva tra le mani al momento della cattura ci sono 6 milioni e 183.000 lire in contanti, dei sigari Tiparillo e una carta d’identità falsa intestata a un certo Giuseppe Bellomo, di professione pastore, rilasciata dal Comune di Mazara del Vallo tre anni prima. Nel portafogli, invece, sono custodite foto della moglie e dei figli, oltre a un’immaginetta di san Giuseppe.

(De Stefano, op. cit.)

Un contributo decisivo alla cattura lo fornisce Baldassarre Di Maggio, l’ex autista del padrino diventato collaboratore di giustizia. Nonostante il “corteggiamento” – breve, per la verità – di due magistrati del calibro di Pierluigi Vigna e Giancarlo Caselli, l’ex capo dei capi rifiuta categoricamente ogni ipotesi di collaborare e accetta di trascorrere gli anni che gli restano al 41 bis, il cosiddetto “carcere duro”. Di Maggio, intanto, agli inquirenti rivela pure un episodio sconvolgente: Riina e Giulio Andreotti si sono incontrati a Palermo nel settembre del 1987, a casa dell’esattore Ignazio Salvo. E in quell’occasione si sono salutati con un bacio. L’affermazione del pentito sembra confermare le amicizie spericolate e tutt’altro che disinteressate di Andreotti, già sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa. Ecco cosa Di Maggio mette a verbale circa l’insolito rendez-vous tra un notissimo politico e un famigerato criminale:

Riina mi fece sapere tramite Angelo La Barbera di farmi trovare, alle 14:30 di un certo giorno che non ricordo, nel magazzino vicino al “pollaio” dietro la Casa del Sole. Riina mi fece sapere pure di presentarmi vestito in modo elegante. Io mi recai all’appuntamento con la Golf Turbo bianca, che era intestata a mio fratello Salvatore Di Maggio… Riina giunse, accompagnato a Pino Sansone con un’utilitaria, e prese posto con me sulla mia Golf. Mi disse che dovevamo andare da Ignazio Salvo. […] Giunti davanti al cancello del garage dell’edificio in cui abitava Salvo, come la volta precedente trovammo sul marciapiede ad aspettarci… (omissis)…, un uomo d’onore della famiglia di Salemi, il quale ci aprì il cancello e ci fece posteggiare la macchina nel garage. Con l’ascensore io, il Riina e… (omissis)… salimmo nella casa di Salvo. […] Al nostro arrivare, le persone presenti, che io riconobbi senza ombra di dubbio essere Giulio Andreotti e Salvo Lima, si alzarono e ci salutarono. In particolare, io strinsi la mano ai due deputati e baciai Ignazio Salvo, che pure avevo già salutato al mio arrivo. Il Riina, invece, salutò con un bacio tutte e tre le persone (Andreotti, Lima e Salvo). […] Io non assistetti all’incontro tra il Riina e le altre persone che ho indicato, ma rimasi ad aspettare con… (omissis)… per un tempo che, credo, sia stato di circa tre ore e mezza. Dopo tale periodo di tempo, venne a chiamarmi Ignazio Salvo, cosicché io ritornai nel salone-studio, salutai le persone che erano lì presenti, e cioè Andreotti, Lima, stringendo loro la mano, e me ne andai con il Riina. […] Neanche lungo il viaggio di ritorno, Riina mi disse nulla sul contenuto del colloquio che aveva avuto, ma parlammo del più e del meno.

(«la Repubblica», 21 aprile 1993)

Nonostante la dettagliata ricostruzione, l’incontro tra il sette volte presidente del Consiglio (e più volte ministro in svariati governi) e il capo della mafia siciliana non verrà mai provato. Andreotti, dal canto suo, negherà con tutte le sue forze il presunto faccia a faccia con il capomafia. Anche Riina sosterrà la stessa cosa:

Io non mi sono mai incontrato con ’stu Andreotti. La prego di capirmi, signor procuratore. Non mi ha chiamato mai manco Caselli, ma a lei ci sembra giusto signor procuratore? Non mi chiama per dirmi: «Ma Riina, ti sei incontrato ccù Andreotti? L’hai visto Andreotti? L’hai baciato Andreotti?». Mai interrogato. Mai citato. Signor procuratore, questo se lo vuole scrivere? Che poi sarà sicuramente copiato e registrato. E quindi è storia. Mai interrogato. Io solo dovevo dire sì o no. Però non me l’hanno mai domandato. Si è fatto un processo, si è fatto un appello, si è fatto tutto… non esiste. Lei signor procuratore l’ammiro, l’accetto, questa mattina è stato brillante, però non si fanno queste cose. Ma Andreotti si baciava con me? Ma che era, lo scemo d’Italia?

(«la Repubblica», 13 gennaio 2013)

Per Riina inizia un lungo tour in diversi processi che si tengono davanti a diverse Corti sparse per l’Italia. Dà la sensazione di essere un buon incassatore, ma in ogni caso il fisico non regge allo stress della detenzione. Nel 2003 per due volte è costretto a subire degli interventi chirurgici per dei problemi cardiaci. Durante i processi prende raramente la parola, ma quando esce dal suo mutismo lo fa sempre a ragion veduta. In un’occasione in particolare non esita a definirsi un parafulmine per tutte le malefatte che sono accadute in Italia, incastrato da un’anonima congiura. Durante una udienza del maggio del 2009, l’ex capo dei capi dichiara nel suo italiano zoppicante (la trascrizione è letterale):

Signor Presidente le voleva dire che io in questo processo mi domando che cosa ci sto a fare. Perché praticamente io… quando è successo di queste stragi di Firenze, di Roma, di Milano io sono stato arrestato il 15 gennaio del ’93… e quando sono stato arrestato mi hanno portato in isolamento a Roma. Quindi non avevo contatti con nessuno… telecamere dietro la porta, dietro le feritoie. Mi hanno messo le guardie penitenziarie quindi 5 anni e mezzo ho avuto sempre questa situazione per i primi mesi, sette, otto mesi fino al mese di luglio io non sentiva televisione, telegiornali, non sapeva se era vivo o se era morto cioè ero isolato da tutti. […] Ecco perché io mi domando «io perché sono imputato in questo processo?». Allora mi si dice in un primo tempo mandante, poi mi si dice in un’altra maniera, ora all’ultimo nella sentenza mi si dice “ideatore”. Quindi io sono ideatore, condannato per ideatore, però signor Presidente la verità è che forse allo Stato servo per parafulmine perché tutto quello che succede in Italia e che è successo in Italia all’ultimo si imputa a Riina. Riina è parafulmine e Riina sta bene per tutte le pietanze per tutte le processe che si vengono fatte a Riina o ai compagni di Riina. Quindi che cosa succede che in questa situazione qua, di Firenze, ma se io sono lì che non ho contatti con nessuno a chi lo mandai a dire? come lo mandai a dire? come sono ideatore? Come lo ideai?

(http://archivio.antimafiaduemila.com/notizie-20072011/51-inchieste/16326-riscontri-incrociati-brusca-riina-e-cianciminosanno-

chi-e-il-terminale-della-trattativa.html?start=4)

Riina colleziona ergastoli a raffica e un po’ alla volta esce fuori dal radar dei mezzi d’informazione. La salute è sempre più traballante e nel 2017 i suoi legali chiedono di fargli scontare la pena in regime di detenzione domiciliare, ma il tribunale di Sorveglianza di Bologna esprime parere negativo sostenendo che le strutture sanitarie possono garantirgli tutte le cure di cui ha bisogno. Contro la concessione degli arresti in clinica o addirittura i domiciliari, si schiera il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, a suo parere “’u curtu”, anche se anziano e malandato, è sempre da considerare un soggetto pericoloso:

Abbiamo elementi per ribadire che Totò Riina è il capo di Cosa Nostra. Le indagini sono in corso e non ho nulla da dire, né potrei farlo. Ma vorrei ricordare che il pubblico ministero Nino Di Matteo vive blindato proprio a causa delle minacce che Totò Riina ha lanciato dal carcere. Se non è un pericolo attuale questo, mi chiedo che altro dovrebbe esserci. […] Non abbiamo mai negato che sia affetto da una patologia pesante. Sappiamo che ha due neoplasie e numerosi disturbi collegati, ma si tratta di uno stato di salute che può essere adeguatamente trattato nell’ambiente carcerario o con ricoveri mirati in strutture cliniche. Abbiamo la documentazione per dimostrare che viene curato in maniera idonea. La forza di uno Stato di diritto si misura sulla capacità di far valere anche i diritti dei peggiori criminali, ma quando davvero vengono messi in discussione. E io posso assicurare che in questo caso non è così.

(«Corriere della Sera», 5 giugno 2017)

Il boia mafioso resiste solo ancora pochi mesi. Il suo conto con la giustizia lo paga fino al 17 novembre del 2017, quando spira nel reparto detenuti dell’ospedale Maggiore di Parma. Il giorno prima aveva compiuto ottantasette anni.