Lee Oswald, il fan di Fidel Castro che uccise John F. Kennedy

Il suo nome resterà scolpito nella Storia. Ma non perché sia stato un eroe o perché abbia trovato una cura a una grave malattia. Lee Harvey Oswald non è stato né un uomo valoroso né uno scienziato. È stato, invece, il criminale che ha firmato l’omicidio che più di tutti ha segnato il Ventesimo secolo: quello di John Fitzgerald Kennedy, da molti chiamato semplicemente JFK, 35esimo presidente degli Stati Uniti, assassinato il 22 novembre del 1963 a Dallas.

Oswald non sarà mai processato perché un altro folle, Jack Ruby, lo ammazzerà due giorni dopo l’arresto, mentre i poliziotti lo stanno trasferendo in carcere. Un evento che contribuirà ad alimentare decine e decine di teorie del complotto.

Quando Lee viene al mondo, a New Orleans nel 1939, il padre è morto da poco e la madre Marguerite è in affanno perché si trova a dover accudire il neonato, il fratellastro John Pic e il fratello maggiore Robert. La donna non riesce a provvedere ai suoi pargoli e così mentre gli altri finiscono in un istituto, Lee viene affidato prima ai vicini di casa e poi ai parenti. La situazione sembra migliorare nel momento in cui la madre si risposa, ma il secondo matrimonio è un disastro e ha breve durata. Il futuro assassino di Kennedy è spaesato, sballottato qua e là e avverte la mancanza dell’amore di una famiglia vera. La mamma gli dedica un po’ più di tempo quando si trasferisce a New York, dove vivono insieme; i due fratelli più grandi nel frattempo sono partiti per il servizio militare.

Il carattere di Lee però è già guastato da un’infanzia sventurata che lo ha reso aggressivo e talvolta anche violento. A scuola i compagni di classe e gli insegnanti ne hanno paura, e lo psichiatra che lo visita ne accerta i disturbi provocati dall’assenza totale di affetto.

Avrebbe bisogno di cure farmacologiche che però non gli vengono somministrate. La mamma lo riporta New Orleans convinta che un ambiente familiare possa restituirgli un minimo di tranquillità, ma ciò non accade. Dopo aver lasciato la scuola prova ad arruolarsi nella Marina come il fratello Robert: la prima volta gli va male, al secondo tentativo ci riesce.

La vita in divisa non riempie i vuoti che si porta dentro e il temperamento chiuso e spesso ostile non lo aiuta affatto. Non gli attira simpatie neppure il suo dichiararsi orgogliosamente comunista e ammiratore di Fidel Castro, il dittatore di Cuba.

Nel frattempo coltiva una delle sue poche passioni, quella per le armi. Compra un fucile calibro 22 con il quale si esercita ma evidentemente non abbastanza. Tant’è che prima si ferisce accidentalmente a un braccio e poi spara alla cieca da una torre di guardia. Le sue intemperanze gli costano care: per punizione lo spediscono in Giappone, e l’esperienza forzata in Asia lo convince che la ferrea disciplina militare lo renderà un uomo infelice. Nel 1959 decide che l’esperienza nei Marines è finita. Tuttavia non sembra mentalmente a posto, tutt’altro. Infatti se ne va in Unione Sovietica e chiede la cittadinanza, che però non gli viene concessa. La delusione è così forte che tenta il suicidio, tagliandosi le vene nella stanza d’hotel nel quale soggiorna, ma viene soccorso in tempo e si salva. Poco dopo riesce a trovare una occupazione a Minsk in una fabbrica che produce radio: ottiene il permesso di soggiorno e s’innamora di una collega, Marina Nikolaevna Prusakova, che poi diventerà sua moglie e gli darà una figlia. Ha trovato, dunque, l’amore e il lavoro, ma il resto non gli garba per niente: l’Unione Sovietica non è il luogo dei sogni che aveva immaginato, il comunismo non è proprio sinonimo di benessere e di uguaglianza, per cui (complici pure le temperature gelide) dopo qualche tempo torna negli Stati Uniti con la moglie Marina e la figlia June Lee. In quel periodo non ha denaro a sufficienza, al punto che deve chiedere al governo americano di anticipargli i soldi per il viaggio, che poi potrà restituire a rate.

Il rientro negli USA lo deprime ancora di più: si aspettava un’accoglienza trionfale, di quelle destinate a chi ha avuto il coraggio di lasciare la madre patria, invece si accorge che il suo ritorno non suscita particolari entusiasmi; amici e conoscenti affrontano l’evento con indifferenza, come se non si fosse mai mosso dagli Stati Uniti.

Col conto in banca prosciugato e senza un impiego, è costretto a trovare ospitalità prima a casa del fratello e poi dalla madre. Gli spazi angusti e i compromessi quotidiani lo convincono a cercare un posto dove stare con la moglie e la figlia, ma le sue possibilità finanziarie gli permettono solo di fittare una sorta di stamberga di legno, una sistemazione umiliante che indebolisce ancora di più l’autostima.

È sempre più chiuso e turbato, mentre la moglie Marina lo ignora perché troppo occupata a solidarizzare con un gruppo di esuli russi. A proposito di Unione Sovietica: Lee è ancora convinto che sia necessaria una rivoluzione armata che consenta al popolo di governare il Paese.

Le fantasie da rivoltoso le accantona quando nel 1962 si trasferisce a Dallas dove ha trovato lavoro in una tipografia. Il cervello, però, comincia a perdere colpi e a strapparlo dalla realtà che lo circonda:

Usa il tempo libero per coltivare la sua “vita parallela”: si fabbrica una carta d’identità falsa col nome di Alek James Hidell (Alek era il suo nomignolo a Minsk, Hidell è la storpiatura di Fidel, il suo idolo rivoluzionario) e si dedica ai libri di spionaggio e intrighi internazionali. È convinto che l’FBI, che lo ha interrogato un paio di volte dopo il suo ritorno dalla Russia, lo controlli e usa il nome falso per procurarsi riviste militanti tramite una casella postale.

(www.johnkennedy.it/?p=24)

Lo stipendio da tipografo se non altro lo aiuta a uscire dal pantano dell’indigenza; prende casa nella periferia di Dallas, però nel nuovo appartamento la vita coniugale è minacciata dalle frequenti zuffe con Marina. Lui ha perso la brocca e non appena riesce a mettere dei soldi da parte li investe nell’acquisto di una pistola Smith&Wesson e va al poligono a sfogare le sue frustrazioni. Nella mente non hanno mai smesso di frullargli le simpatie comuniste:

Si appassiona alla guerriglia cubana e decide di aprire un ufficio del Fair Play for Cuba Committee (Comitato per la lealtà verso Cuba), un’organizzazione pro-Castro con sede a New York. Anche quest’iniziativa si rivela l’ennesimo fallimento: nessuno si iscrive all’organizzazione nonostante Oswald mandi rapporti pieni di entusiastici (e fantasiosi) racconti sulla propria attività a favore di Fidel Castro agli ignari fondatori del comitato. Licenziato ancora una volta, Oswald entra in depressione. Di questi mesi è una lite con anticastristi cubani, che lo sorprendono a distribuire volantini a favore di Fidel pochi giorni dopo una visita dello stesso Oswald al loro gruppo. Oswald viene trattenuto per una notte in prigione e successivamente invitato a una trasmissione radio per spiegare la propria attività.

(Ibidem)

Quella per la politica non è l’unica passione. Ne coltiva un’altra, più pericolosa, per le armi: infatti dopo il fucile calibro 22 e la pistola Smith&Wesson, compra pure (per posta) un fucile modello Mannlicher-Carcano, costruito in Italia – a Terni – nel 1940.

È sempre più solo e inappagato, l’unica compagnia sono le armi. Nell’estate 1963 è ossessionato dall’idea di andare a vivere a Cuba. Così bussa alla porta dell’ambasciata russa in Messico per chiedere un visto con cui recarsi in Unione Sovietica: da Mosca, secondo i suoi piani, sarà più facile ottenere il via libera per sbarcare a L’Avana. È un piano tortuoso e alla fine non funziona nemmeno: i suoi desideri si schiantano contro le pastoie della burocrazia ed è costretto a rinunciare al trasferimento a Cuba. La sua vita è finita in un vicolo cieco, fallisce in tutte le cose che fa o pensa.

L’unica buona notizia arriva nell’ottobre del 1963, quando trova un lavoro presso il Texas Book School Depository (TBSD) di Dallas, un deposito di libri. Un evento positivo, uno dei pochi, ma non riesce a goderselo perché grazie alla nuova occupazione la sua fragile mente partorisce un’idea decisamente agghiacciante: uccidere il presidente John Fitzgerald Kennedy, che sarà a Dallas la mattina del 22 novembre, per partecipare a un’iniziativa in suo onore presso l’International Trade Mart. Per raggiungere il luogo della cerimonia, il presidente dovrà transitare proprio davanti al TBSD. Assassinare Kennedy è un progetto folle, ma oramai l’ex marine filocomunista è capace di questo e altro.

Secondo la ricostruzione ufficiale, il 22 novembre 1963 Oswald si presenta regolarmente al lavoro e nasconde il suo fucile al sesto piano dell’edificio che ospita il Texas Book School Depository. Trascorre la mattinata senza mostrare alcun segno di nervosismo, come se fosse uguale alle precedenti. Ma dopo mezzogiorno sale al sesto piano e si piazza alla finestra che dà sulla strada che percorrerà il corteo presidenziale, lungo la quale ci sono centinaia di persone in attesa.

Alle 12:30 le auto del presidente transitano davanti al deposito di libri, e quando il corteo rallenta all’angolo tra Houston ed Elm Street, Lee Oswald preme il grilletto almeno tre volte: un colpo centra il presidente alla schiena, il secondo alla testa, il terzo ferisce gravemente il governatore del Texas John Connally. Illese le mogli dei due politici, la first lady Jaqueline e Nellie Connally.

Quel che accade dopo è facilmente prevedibile: le urla, i pianti, la fuga. L’auto con a bordo Kennedy si dirige al Parkland Memorial Hospital, ma durante il tragitto ci si rende conto che oramai è troppo tardi. Il presidente muore circa mezz’ora dopo l’imboscata dell’ex marine filocubano.

In tanti alzano lo sguardo verso il palazzo del Texas Book School Depository, perché è da lì che è arrivato il rumore degli spari.

Ma non si vede nessuno. Oswald se l’è squagliata, ovviamente subito. Le tracce della sua presenza sono tuttavia inequivocabili: lì ha lasciato il fucile di fabbricazione italiana, e lì ci sono le sue impronte dappertutto.

Il killer torna nella camera che ha preso in affitto – e dove si è registrato sotto falso nome perché convinto di essere spiato dall’FBI – prende la pistola ed esce.

Nel frattempo la polizia ha perquisito il TBSD e interrogando i dipendenti ha scoperto che l’unico che non risulta sul luogo di lavoro è Lee Oswald. Viene diramato un identikit del presunto assassino e a tutti gli agenti in servizio a Dallas viene detto di tenere gli occhi ben aperti. J.D. Tippit è un poliziotto ligio al dovere e rimane vigile anche lui mentre pattuglia la zona residenziale di Oak Cliff a bordo dell’auto di servizio. Perlustrando l’area di sua competenza, nota un soggetto dall’atteggiamento sospetto e, non dovendo sottovalutare nulla in un giorno simile, si avvicina all’uomo e gli chiede i documenti: la risposta sono tre colpi di pistola, due al petto e uno alla tempia. Tippit morirà in ospedale poco dopo. L’uomo che ha sparato è Lee Oswald. Sono trascorsi poco più di 40 minuti dall’omicidio di Kennedy. Ma stavolta sarà difficile farla franca perché la scena si è svolta davanti ad almeno dieci persone, ovvero ben dieci testimoni oculari.

Il boia di JFK si allontana e si va a rifugiare in un cinema, ma è talmente agitato che commette lo stupido errore di intrufolarsi nella sala senza pagare il biglietto. Il proprietario avverte la polizia e quando gli agenti arrivano sono più che convinti che quello è l’uomo che ha ammazzato il loro collega. La conferma arriva dalla pistola che aveva in tasca, è dello stesso calibro di quella adoperata per giustiziare Tippit. Viene arrestato per l’omicidio dell’agente J.D. Tippit e portato alla centrale, dove scopre che non ha più scampo: lo accusano di aver ucciso il presidente John Fitzgerald Kennedy. E in serata si diffonde la notizia che l’assassino che ha fatto fuoco dal sesto piano del deposito di libri è stato finalmente catturato.

Ma pur in presenza di elementi schiaccianti – il fucile è suo, le impronte sull’arma pure – Lee sostiene di non aver sparato a JFK e che qualcuno vuole incastrarlo a tutti i costi.

Nessuno gli crede, del resto il suo scarso equilibrio mentale, la passione per le armi e le frustrazioni che hanno segnato la sua vita non sono elementi che giocano a favore della sua credibilità. Uccidere un presidente e pensare di uscirne indenni è roba da folli, e secondo gli inquirenti lui rientra ampiamente nella categoria di chi è fuori di testa.

In ogni caso, la polizia confida nel fatto che nelle ore successive Oswald possa cedere e quindi confessare di aver sparato a Kennedy.

Ma la confessione non arriva e non arriverà mai perché l’ex marine incrocia sulla sua strada un altro soggetto dalla mente contorta: si chiama Jack Ruby (ma il suo vero nome è Jacob Rubinstein), è un tipo di origini polacche non proprio raccomandabile che gestisce un locale notturno frequentato da balordi e anche da poliziotti. Ruby è anche un accanito sostenitore di Kennedy, tant’è che si è precipitato al Parkland Hospital non appena ha saputo dell’attentato. Le sorelle racconteranno che Jack si è disperato tantissimo quando ha appreso della dipartita del presidente.

Due giorni dopo, il 24 novembre, Ruby passa davanti alla Centrale di polizia e nota uno strano assembramento. Si avvicina e scopre che ci sono dozzine di giornalisti e fotografi in attesa che esca Lee Oswald, destinato a essere trasferito in una prigione della Contea. I poliziotti conoscono Ruby molto bene e quando lo vedono in mezzo a fotoreporter e cronisti non ci fanno caso più di tanto. Ma il titolare del night club malfamato non si è fermato lì solo per curiosità, vuole approfittare di un’occasione irripetibile. Alle 11:21 Oswald gli passa davanti in manette, Ruby tira fuori la pistola e gli spara un colpo in pancia urlando: «Hai ucciso il mio presidente, topo di fogna!».

L’uomo sospettato di aver ammazzato Kennedy muore prima che possa confessare o essere processato. Ruby viene arrestato, morirà 3 anni più tardi per un tumore ai polmoni. La faccenda, già di per sé gravissima, diventa incredibilmente ingarbugliata. Non tutti credono alla versione ufficiale, e la sensazione diffusa è che Ruby abbia agito su mandato di qualcuno che appartiene ai piani alti di potere. Una settimana dopo l’omicidio a Dallas, Lyndon Johnson – il vicepresidente che ha preso il posto di Kennedy – istituisce una Commissione d’inchiesta affidandola a Earl Warren, presidente della Corte Suprema. L’obiettivo è stabilire cosa sia davvero accaduto il 22 novembre e sgombrare il campo dalle voci secondo le quali Oswald, Ruby e chissà quanti altri siano solo delle pedine di un complotto finalizzato a togliere dalla scena JFK.

Dopo dieci mesi Warren consegna il suo rapporto. Contiene durissime critiche alla polizia e ai sistemi di sicurezza adottati per la tutela di Kennedy, ma sostiene che quel giorno a sparare dalla finestra del sesto piano è stata una sola persona: Lee Oswald.

Nonostante la Commissione d’inchiesta sia arrivata a una conclusione inequivocabile, i dubbi su chi e perché abbia compiuto l’assassinio non si sono mai diradati. Le teorie cospiratorie sono tantissime e non è questa la sede per affrontarle, altrimenti ne verrebbe fuori una enciclopedia.

Ma tra le tante tesi, ce n’è una che non ha a che fare con le cospirazioni: Oswald forse non voleva uccidere Kennedy ma il governatore del Texas, John Connally. Un’ipotesi avanzata dal giornalista James Reston:

ebbene, Reston ricorda che un agente dei Servizi segreti, Mike Howard, andò a casa di Oswald (la stanzetta che affittava a Oak Cliff dalla signora Roberts) e perquisì il locale. Trovò un’agenda telefonica dalla copertina verde, la consultò e, a pagina 17, trovò la seguente dicitura: “Ucciderò James Hosty, Ed Walker, il vicepresidente Nixon”. Ma in cima alla lista c’era un quarto nome, che non era JFK ma John Connally, il governatore del Texas.

Perché Connally? Perché Oswald, quando decise di lasciare la Russia e di tornare negli States, scoprì che il suo congedo dai marines era stato declassato, in sua assenza, da “normale” a “con disonore”. La Marina aveva preso quel provvedimento perché aveva saputo della fuga di Oswald in Russia; Oswald scrisse al comandante del dipartimento della Marina chiedendo la cortesia di rivedere quel provvedimento, che lo penalizzava moltissimo nelle domande di lavoro. La richiesta fu respinta, e gli pervenì in carta bollata dell’ufficio di Connally, che si stava candidando al governo del Texas e, in quella stessa busta, aveva accluso la sua candidatura elettorale.

Howard consegnò la prova all’FBI, che la girò alla commissione Warren. Che, tuttavia, incredibilmente se la lasciò sfuggire, o decise di non considerarla. Ciò, nonostante il fatto che la vedova di Oswald avesse chiaramente detto che l’obiettivo del marito non era Kennedy ma Connally, e che Oswald non nutriva odio nei confronti di JFK, anzi: lo riteneva meritevole di stima per aver tentato di distendere i rapporti tra gli USA e la Russia.

(www.johnkennedy.it/?p=1047)

In ogni caso, anche senza che sia mai stato celebrato un processo, Lee Oswald è passato alla Storia come il criminale che assassinò John Fitzgerald Kennedy, 35esimo presidente degli Stati Uniti.