Ha collezionato 20 ergastoli ed è stato condannato a un isolamento diurno per complessivi 33 anni e 6 mesi. Uno col pedigree di Bernardo Provenzano in questo libro non poteva mancare. «Spara come un Dio, ma ha il cervello di una gallina», dicevano di lui i suoi compari. Ma lo avevano sottovalutato. Perché questo campagnolo nato nel 1933 a Corleone, nell’entroterra palermitano, con le armi ci sapeva fare, eccome, ma sapeva adoperare benissimo pure il cervello.
È probabile che un giudizio così sferzante fosse stato espresso quando era ancora molto giovane e partecipava a omicidi e agguati mostrando una particolare foga che talvolta risultava eccessiva pure agli occhi degli altri macellai delle cosche. Proprio per questa incontenibile esuberanza lo avevano ribattezzato “Binnu ’u tratturi”: pur essendo sgraziato come un trattore, non si fermava davanti a nessun ostacolo. Con gli anni la sua personalità subirà una sorta di mutazione e l’intrepido boia degli anni giovanili si trasformerà nel placido capo dei capi incline alla mediazione. Provenzano, che pure non ha mai apertamente contrastato il suo amico Totò Riina, imprimerà una svolta a Cosa Nostra dopo le stragi del 1992 e del 1993: nessuno scontro con lo Stato, nessun omicidio “eccellente” ma una sorta di inabissamento per uscire dai radar delle forze dell’ordine e della magistratura. Una strategia intelligente per fare gli affari più di prima e meglio di prima.
La carriera di Binnu comincia molto presto, quando a Corleone si mette sotto l’ala protettiva dello spietato Luciano Liggio; insieme a lui c’è pure un altro giovanotto piuttosto motivato, Totò Riina, meglio noto col soprannome di “’u curtu”. Binnu e Totò rappresentano il braccio armato di Liggio, per conto del quale compiono ogni tipo di razzia fino al giorno in cui tutti e tre spodestano Michele Navarra, il boss del paese ammazzato a fucilate.
Ha trent’anni quando è già ricercato per omicidio, e da allora sarà un fantasma fino al 2006. Mentre lo Stato gli dà la caccia, o perlomeno dovrebbe farlo, Binnu un po’ alla volta scala tutti i gradini della piramide mafiosa. Una carriera costruita sul sangue, ovviamente: nel dicembre del 1969 partecipa alla sua prima strage, 5 morti e 2 feriti in Viale Lazio, a Palermo. Quando Liggio si trasferisce a Milano, lui lo sostituisce nelle riunioni della Commissione (il “governo” di Cosa Nostra) ma in quelle occasioni non si dimostra particolarmente brillante né veloce nel prendere delle decisioni.
La latitanza, intanto, non gli impedisce di vivere come si conviene a un uomo oramai ricco e affermato: veste in maniera ricercata e vive in un elegante appartamento. Negli anni ’80 è tra le menti che gestiscono la guerra di mafia che si concluderà con l’affermazione dei Corleonesi i quali spazzano via i palermitani, costringendoli alla fuga all’estero. I pentiti, intanto, descrivono agli inquirenti il suo inquietante e ancora sconosciuto profilo. Nell’estate del 1978 il capitano dei carabinieri Alfio Pettinato, dopo aver raccolto le confidenze del boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, scrive in un rapporto:
Riina Salvatore e Provenzano Bernardo, soprannominati per la loro ferocia “le belve”, sono gli elementi più pericolosi di cui dispone Luciano Leggio. Essi, responsabili ciascuno di non meno di 40 omicidi, sono stati gli assassini del vice pretore onorario di Prizzi.
(Bruno De Stefano, I boss che hanno cambiato la storia della malavita, Newton Compton, 2018)
Qualche anno dopo è il pentito Tommaso Buscetta a spiegare al giudice Giovanni Falcone chi sono i nuovi leader di Cosa Nostra:
Il capo è Luciano Liggio tuttora, nonostante detenuto. In sua assenza i reggenti sono Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, con pari poteri, solo che il Riina è molto più intelligente di Provenzano e, pertanto, ha maggior peso.
(Vincenzo Ceruso, Provenzano, l’ultimo padrino,
Newton Compton, 2016)
Probabilmente anche la valutazione di Buscetta è ingenerosa. Dentro Cosa Nostra, però, “’u tratturi” resta una figura piuttosto anomala. Agisce lontano dai riflettori, non ha mai avuto un clan tutto suo, non dispone di uomini che rispondono solo a lui. Però ha un grosso seguito anche perché nel frattempo si ritaglia un ruolo di cerniera con ambienti dell’imprenditoria e soprattutto della politica. È un buon amico di Vito Ciancimino, ex assessore democristiano colluso con le cosche, al quale fa spesso visita a casa presentandosi come l’“ingegner Lo Verde”. Tra i due c’è feeling, rappresentano la saldatura di interessi tra il mondo delle istituzioni e quello criminale, come spiega il pentito Nino Giuffrè:
diciamo che il Provenzano… […] posso dire che nell’ambito politico il consigliere per eccellenza sarà Vito Ciancimino. Quindi senza ombra di dubbio posso definire Ciancimino Vito come la persona con cui il Provenzano si incontrava per discutere di affari e politica. Quando parlo di affari in modo particolare intendo riferirmi al discorso degli appalti.
(Alessandra Dino, Gli ultimi padrini. Indagine sul governo di Cosa Nostra, Laterza, 2011)
Le entrature nei palazzi del potere gli consentono di puntare a diversi appalti pubblici, in particolare riesce a fare man bassa di forniture di attrezzature scientifiche per gli ospedali con la relativa manutenzione, oltre allo smaltimento dei rifiuti speciali e alla fornitura di prodotti farmaceutici.
Che Provenzano non sia più un trattore lo si capisce quando Totò Riina decide di colpire il cuore dello Stato uccidendo prima Giovanni Falcone e poi Paolo Borsellino. “Binnu” non si metterebbe mai di traverso in maniera palese – non è proprio nel suo carattere – ma non condivide l’aggressività del suo compare. Non perché sia un tenerone, ovviamente, ma perché è convinto che l’uso delle bombe si ritorcerà contro Cosa Nostra. E infatti va proprio così. Totò Riina viene arrestato nel gennaio del 1993, e si fa largo il sospetto che dietro la cattura possa esserci lo zampino di Provenzano. Il pentito Antonino Giuffrè dirà in proposito:
Tutti pensavamo che l’arresto di Riina fosse stato pilotato da Provenzano. Era parte di una strategia portata avanti nell’interesse di Cosa Nostra. Lo stesso Provenzano diceva che Riina era diventato ingombrante, e noi ritenemmo che la sua cattura fosse un sacrificio alle divinità, frutto di un accordo fra lui e altre parti che hanno avuto un ruolo in quella vicenda.
(«Corriere della Sera», 8 ottobre 2009)
L’uscita di scena di “’u curtu” proietta Bernardo Provenzano al vertice dell’organizzazione: Cosa Nostra mette da parte la faccia feroce di Riina e indossa la maschera dell’assai meno guerrafondaio “Binnu”, il quale inaugura una nuova stagione nella quale prevale il passo felpato di chi non vuole assolutamente fare rumore. Perché lui è convinto, e non è difficile dargli torto, che il silenzio consente di fare più affari oltre a evitare le spiacevoli attenzioni di magistratura e forze dell’ordine. Sotto la sua guida Cosa Nostra funziona come un orologio di precisione. Ma solo un ristrettissimo gruppo di persone ha il privilegio di incontrarlo. La comunicazione avviene attraverso i cosiddetti “pizzini”, dei fogli di carta sui quali – spesso utilizzando la macchina per scrivere – “Binnu” impartisce ordini per le cosche sparpagliate in ogni angolo della Sicilia. I “pizzini” contengono molte frasi in codice, per cui anche se dovessero finire nelle mani sbagliate nessuno ne capirebbe il senso. Il fisico però gli dà qualche noia e i malanni lo costringono a dispiegare uomini e mezzi per viaggiare fino in Francia – sotto il falso nome di Gaspare Troia – per farsi curare un tumore alla prostata. A Palermo cominciano a circolare voci che lo danno per morto ma in realtà, al netto degli acciacchi dovuti all’età, il capo dei capi se la cava discretamente. Al punto che riesce a prolungare la latitanza senza correre rischi particolari. Ma qualsiasi boss sa che la fuga non può durare in eterno. L’11 aprile del 2006 i poliziotti della Squadra mobile di Palermo guidata da Renato Cortese e dieci agenti del Servizio centrale operativo fanno irruzione in un casolare a Montagna dei Cavalli, alla periferia di Corleone, di proprietà di un pastore. Lì dentro c’è sicuramente qualcuno, altrimenti non si spiegherebbero i consumi di energia elettrica, soprattutto in inverno. I momenti della cattura sono concitati:
«Chi sei?», urla il caposquadra quando se lo trova davanti. «Voi non sapete quello che fate», risponde il capomafia. Ma a quel punto i suoi cacciatori sono più che sicuri: «Io l’ho capito al primo sguardo, dagli occhi e dagli zigomi. Provenzano ha gli stessi occhi blu del figlio Angelo e i tratti somatici di suo fratello Simone», rivela uno dei primi a entrare.
(espresso.repubblica.it/attualita/2016/07/13/news/mafia-ecco-come-
fu-catturato-bernando-provenzano-1.277224)
Il fantasma di Corleone, come lo avevano ribattezzato, si materializza in una tarda mattina di primavera: sembra più anziano dei suoi settantatré anni, indossa un foulard che copre una cicatrice e al collo ha tre crocifissi. Pur avendo ordinato la morte di molte persone, pur avendone uccise diverse e pur essendo il capo di una delle organizzazioni criminali più violente, Binnu è molto religioso: nelle decine di pizzini rinvenuti nel suo ultimo covo cita continuamente passi della Bibbia e spesso si lancia in singolari benedizioni impartite come se fosse un uomo buono e impegnato in nobili cause.
L’arresto del capo dei capi non significa affatto la fine della mafia, la cui guida nel frattempo è passata nelle mani del più giovane Matteo Messina Denaro. Provenzano, invece, si avvia al tramonto mentre colleziona ergastoli a raffica. Le sue condizioni di salute precipitano vertiginosamente, sino a trasformarlo in un vegetale. Il figlio Angelo chiede clemenza lanciando un appello nel corso di una puntata della trasmissione Servizio pubblico andata in onda il 15 marzo 2012:
Fisicamente, bene o male, anzi si mantiene abbastanza bene. Non posso dire bugie. Ma neurologicamente è diventato un dramma. Un dramma perché mentre stiamo parlando avviene un calo dell’attenzione, oppure un discorso viene lasciato a metà e non riesce più a riprenderlo, quindi perde il filo e lo perde in maniera anche consistente. Cioè, ci possono essere lapsus che capitano a chiunque, ma nel suo caso è proprio forte. Tanto è vero che poi si stizzisce lui stesso per non poter continuare il discorso. Perché è come se avesse una sorta di consapevolezza di non esserci.
Il nome di Bernardo Provenzano finisce anche nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia: Binnu, si sostiene, avrebbe favorito la cattura di Totò Riina. I giudici lo mandano a processo, ma in aula non ci andrà mai perché le sue condizioni di salute peggiorano a grande velocità. Il 13 luglio del 2016 “’u tratturi” muore nell’ospedale San Paolo di Milano. Aveva ottantatré anni.