I tre neonazisti che terrorizzarono la Germania

Con un pizzico di spocchiosa sottovalutazione, giornali e televisioni li avevano ribattezzati “I delitti del kebab”: più che la sintesi di una strage spalmata nel tempo, sembra il titolo di una commedia a tinte noir.

Non è stato un film, invece, ma il nero è comunque il colore dominante di questa storia. Il nero è il colore dei dieci lutti che si sono lasciati alle spalle; il nero è il colore del nazismo; il nero è il colore dell’oscurità di un passato che non deve mai più tornare. E il nero è anche il colore del buio che ha inspiegabilmente rallentato il percorso verso la verità (perlomeno quella giudiziaria) consentendo agli assassini di proseguire indisturbati nelle loro azioni criminali.

“I delitti del kebab” non sono altro che una sequela di omicidi a sfondo razziale che ha insanguinato la Germania tra il 2000 e il 2007. Tutte le vittime (tranne una poliziotta) erano immigrati (otto dalla Turchia, una dalla Grecia), gli assassini invece erano i componenti della NSU, la Nationalsozialistischer Untergrund (ovvero “Clandestinità nazionalsocialista”), un gruppo terroristico di ispirazione neonazista. La polizia impiegherà troppo tempo per capire che gli omicidi sono figli di una folle ideologia. Per un periodo si seguirà una inesistente pista che conduce a un regolamento di conti nell’ambito della mafia turca. Una tesi piuttosto fantasiosa, considerando la storia personale dei morti ammazzati. Un buco nell’acqua si rivelerà pure un’inchiesta che attribuisce i fatti di sangue a un’improbabile guerra per il controllo del racket delle estorsioni. Addirittura si ipotizzeranno improbabili faide familiari o inspiegabili conflitti tra trafficanti di droga.

La macchina investigativa girerà clamorosamente a vuoto suscitando la rabbia dei familiari delle vittime che denunceranno l’esistenza di una rete di connivenze finalizzate a coprire gli autori della catena di delitti dalla chiara matrice razziale. Da questo punto di vista anche i media dimostreranno di non aver afferrato la gravità di ciò che è accaduto, tant’è che l’ondata di omicidi verrà bollata come “I delitti del kebab”, come se fosse una questione interna alla comunità turca.

La stratega dell’organizzazione era Beate Zschäpe, una ragazza dal temperamento gelido; il braccio esecutivo era invece composto da Uwe Mundlos e Uwe Böhnhardt, che però non potranno mai essere processati perché si suicideranno insieme, nello stesso istante.

Durante i processi la Zschäpe si è sempre difesa sostenendo di aver saputo degli omicidi a cose fatte, e di aver fatto solo da “cassiera” del gruppo. Ha sempre mantenuto un atteggiamento distaccato e non ha mai reagito alle urla strazianti dei parenti delle vittime. I giudici non le hanno mai creduto, ritenendola pienamente colpevole della mattanza durata sette anni. La Zschäpe è stata arrestata solo nel 2011.

Tutto comincia a Jena, in Turingia, nell’ex Germania Est, quando Beate Zschäpe (nata nel 1975) conosce Uwe Mundlos (1973). Lei ha avuto un’adolescenza non proprio gioiosa a causa di una situazione familiare complessa; lui, al contrario, è un ragazzo di estrazione borghese, figlio di un professore universitario. Ai due si aggrega poi il muratore disoccupato Uwe Böhnhardt (1977), un soggetto dal passato tormentato come testimoniano i precedenti per aggressione, furto ed estorsione.

La sintonia tra i tre è fortissima, ma l’intesa è solida soprattutto tra Beate e Böhnhardt, tant’è che i due si legano sentimentalmente. L’amore è importante, l’amicizia pure, ma è il credo politico a cementare il gruppo:

I ragazzi iniziarono a frequentare sempre più spesso la scena locale di estrema destra. Mundlos e Böhnhardt presero a passeggiare occasionalmente per il quartiere di Winzerla indossando delle imitazioni di uniformi delle SS. Intanto, tra il 1994 e il 1998, l’estremismo di destra in Turingia vide raddoppiare i suoi esponenti fino a raggiungere una rete di 1200 persone. In questo brodo di coltura nacque, nel 1996, la Thuringian Homeland Security (THS), che a Jena aveva una sezione chiamata La Fratellanza di Jena (Kameradschaft Jena), a cui si unirono anche Böhnhardt, Zschäpe e Mudlos.

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che-ha-insanguinato-la-germania/)

L’adesione all’ideologia nazista si manifesta pure nell’estate del 1995 quando Böhnhardt e Zschäpe – insieme ad altri – bruciano alcune croci vicino a Jena e fanno il saluto a Hitler. L’escalation è inarrestabile e l’anno dopo Böhnhardt si fa notare per due macabre iniziative: prima appende lungo l’autostrada un manichino con appuntata sul petto una stella di Davide, e poi – insieme a Mundlos – si presenta vestito da ufficiale delle SS al Memoriale del campo di concentramento di Buchenwald. Poi il terzetto passa dalle carnevalate alle finte bombe: ne fabbrica diverse, e le lascia davanti a un teatro e nei pressi di sedi istituzionali della Turingia al solo scopo di diffondere il terrore.

Zschäpe, Mundlos, Böhnhardt vanno a vivere assieme a Zwickau, in Sassonia, dove preparano degli ordigni per cominciare a fare dei veri attentati: dopo tanta teoria e qualche pagliacciata, oramai la Nationalsozialistischer Untergrund è pronta per essere operativa. Un vicino di casa nota però qualcosa di strano, lo segnala alla polizia e nel gennaio del 1998 gli agenti perquisiscono l’appartamento: trovano quattro tubi-bomba, quasi un chilo e mezzo di tritolo e materiale propagandistico che inneggia all’estrema destra. Fiutando l’aria, Mundlos, Böhnhardt e la Zschäpe scappano prima che arrivi la polizia.

Per mettere su una banda di terroristi ci vogliono soldi. E infatti la prima azione della NSU è finalizzata a raccogliere del denaro. Il gruppo nel dicembre del 1998 compie una rapina in un supermercato in Sassonia, il bottino è di 30.000 marchi. Pochi mesi dopo la cassa viene rimpolpata con altri due raid armati a Norimberga. E sempre a Norimberga c’è il primo attentato firmato dalla Nationalsozialistischer Untergrund:

Una torcia riempita di esplosivo e trasformata in una bomba tubo fu lasciata nel bagno degli uomini di un ristorante frequentato prevalentemente da turchi. A trovarla fu il proprietario, che rimase vittima di un’esplosione fortunatamente solo parziale, ma anche dell’incompetenza di chi condusse le indagini di rito. Sia il proprietario che il suo staff furono resi oggetto di indagine e persino accusati di non collaborare. Non fu minimamente presa in considerazione la menzione del fatto che per due sere di seguito fosse stato notato nel ristorante “un tedesco completamente estraneo al contesto”.

(Ibidem)

L’attentato è poca roba se confrontato all’esplosione di violenza successiva. L’11 settembre del 2000 c’è il primo omicidio: a Norimberga la NSU spara in faccia a Enver Şimşek, un fioraio di origine turca; morirà dopo due giorni di agonia. Con due colpi di pistola alla testa, il 13 giugno del 2001 viene assassinato Abdurrahim Ozudogr, titolare – insieme alla moglie – di una sartoria a Norimberga. Era arrivato dalla Turchia nel 1972.

Due settimane dopo la NSU stronca la vita di Süleyman Taşköprü, fruttivendolo ad Amburgo: è il 27 giugno quando gli sparano alla testa; con la sua famiglia aveva lasciato la Turchia nel 1981. Il 29 agosto tocca a Habil Kılıç, freddato a Monaco di Baviera mentre è all’interno del negozio di specialità gastronomiche della sua famiglia. Le modalità di esecuzione sono sempre le stesse: due colpi di pistola alla testa. La polizia bavarese commette un gigantesco errore: attribuisce l’assassinio di Kılıç a una inesistente guerra tra bande che si contendono la gestione del mercato degli stupefacenti.

Tra un omicidio e l’altro, ci sono anche le bombe. Alla NSU è attribuito un attentato avvenuto nel 2001 in un negozio di generi alimentari a Colonia: una esplosione ferisce gravemente una ragazza di origini iraniane, figlia del proprietario. Pure in questa circostanza gli inquirenti ipotizzano che l’accaduto sia da mettere in relazione a rivalità tra immigrati dell’Iran. I neonazisti tornano a uccidere nel 2004. Il 25 febbraio Mehmet Turgut, un immigrato curdo, viene colpito a morte mentre sta preparando il kebab nel suo negozio di Rostock, nella Germania settentrionale. Gli investigatori prendono fischi per fiaschi escludendo che il delitto possa avere una matrice razzista.

Il 9 giugno a Norimberga la NSU fa fuoco su Ismail Yaşar, proprietario di uno snack bar: era arrivato dalla Turchia nel 1978. Nel 2004 si registra un altro attentato a Colonia, in una zona dove vivono gli immigrati: i feriti saranno 22, 4 gravi. Neppure in questo caso si insegue la pista dell’odio razziale.

Un anno dopo, il 15 giugno del 2005, a Monaco di Baviera Theodoros Boulgarides stramazza a terra dopo che un assassino gli ha sparato tre volte alla testa. Boulgarides era di origine greca; il delitto viene attribuito alla mafia turca e secondo i giornali i mandanti devono essere cercati a Istanbul. Dieci mesi più tardi, il 4 aprile del 2006, i boia della Nationalsozialistischer Untergrund ammazzano il curdo Mehmet Kubasik, titolare di un chiosco di frutta e verdura a Dortmund. Gli inquirenti indagano sulla famiglia del morto, sospettano che l’agguato rientri in un regolamento di conti della mafia turca.

Neppure 40 ore dopo la NSU torna a sparare: la vittima è Halit Yozgat, figlio di un immigrato turco. Lo uccidono all’interno del suo Internet Cafè a Kessel, nell’Assia settentrionale.

L’ultimo assassinio, il decimo, non ha a che vedere con la xenofobia ma è un modo per procurarsi delle armi: il 25 aprile del 2007, a Heilbronn, una pistolettata alla testa mette fine alla vita della poliziotta Michèle Kiesewetter, ferma in auto con un suo collega. Lei muore all’istante, il collega riporterà ferite gravissime. La NSU ruba la pistola dell’agente, una Heckler & Koch P2000, che sarà ritrovata qualche anno dopo. Pure in questo caso la polizia prende un abbaglio, l’ennesimo: l’agguato agli agenti, infatti, viene attribuito al cosiddetto “fantasma di Heilbronn”, un serial killer che aveva commesso almeno sei omicidi tra Francia, Austria e Germania.

Negli anni successivi l’attività del gruppo neonazista è in prevalenza finalizzato a racimolare denaro attraverso rapine. L’ultima, però, coincide con la fine dell’organizzazione. Il 4 novembre del 2011 Uwe Mundlos e Uwe Böhnhardt portano via dalla filiale della Sparkasse di Eisenach, in Turingia, un malloppo di 71.915 euro. Ma il raid si complica quando la polizia riesce a individuarli: i due vengono inseguiti e intercettati mentre si nascondono in una roulotte. Secondo la ricostruzione ufficiale, quando si rendono conto di essere oramai in trappola, danno fuoco al camper e muoiono tra le fiamme. Gli inquirenti sosteranno di aver udito degli spari pochi istanti dopo che il mezzo aveva preso fuoco; dunque, Mundlos e Böhnhardt si sarebbero suicidati, hanno preferito ammazzarsi e far divorare i loro cadaveri dalle fiamme piuttosto che farsi ammanettare.

Quattro giorni dopo c’è un altro incendio: Beate Zschäpe appicca il fuoco in un appartamento di Zwickau che era la base operativa della Nationalsozialistischer Untergrund. Quando il rogo viene spento, la polizia trova una Česká CZ 83, una pistola semiautomatica ceca, calibro 9x17, utilizzata per compiere i dieci omicidi. A quel punto anche il meno attento degli investigatori capisce che la mafia turca, il racket e il narcotraffico non c’entravano assolutamente nulla con la catena di omicidi:

La loro complice, Beate Zschäpe, viene catturata quattro giorni dopo, non prima di essere anch’essa riuscita a incendiare l’ultima casa nascondiglio della NSU a Zwickau, in Sassonia. La cura con cui il trio, anche in punto di morte o poco prima della cattura, prova a distruggere prove e documenti sulla loro cellula terroristica continua a suggerire e confermare quanto il network della NSU fosse radicato. Al tempo stesso, sempre poche ore dopo la morte di Mundlos e Böhnhardt, sono la stessa Zschäpe e forse un altro complice a spedire ad almeno 15 indirizzi di media e associazioni un video di rivendicazione della NSU. Il video, di cui vengono ritrovate anche decine di esemplari nei nascondigli del trio, è un orripilante montaggio in cui la NSU si presenta come servitore della patria e la Pantera Rosa – il cartone animato – si muove tra le foto delle vittime degli attentati del gruppo.

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La Zschäpe finisce davanti ai giudici per rispondere di un grappolo di accuse: creazione di un gruppo terroristico, complicità in 10 omicidi, 15 rapine (che hanno fruttato 600.000 euro) e diversi attentati dinamitardi. Insieme a lei alla sbarra ci sono quattro fiancheggiatori che però hanno avuto ruoli decisamente marginali. La donna rivendica l’appartenenza alla NSU, ma nega di essere un’assassina, come scrive il giornalista e scrittore Ugo Maria Tassinari:

Di tutti questi omicidi Beate Zschäpe dirà di essere stata messa al corrente a fatto compiuto. Per l’accusa, non è credibile. Per la difesa, non ci sono prove né di partecipazione né di complicità. La donna gestiva la cassa, aveva contatti con i fornitori di armi, disponeva di varie identità per affittare i covi ma non è mai stata vista in azione. L’unica volta in cui ha preso la parola al processo, il 27 giugno 2018, ha parlato di sé come di una persona succube e plagiata dai due uomini che aveva amato.

(www.fascinazione.info/2021/08/la-sua-microbanda-nazista-

uccise-9.html?)

La Zschäpe sarà condannata all’ergastolo, in maniera definitiva, nell’estate del 2021.

Nonostante la Nationalsozialistischer Untergrund sia stata annientata, resta il dubbio sul perché le indagini non siano riuscite a cavare un ragno dal buco per diversi anni, perdendosi dietro piste fantasiose. Il quotidiano “Berliner Zeitung” sosterrà che si è trattato del «più grande disastro commesso dai servizi segreti tedeschi dai tempi dell’unificazione della Germania»:

Man mano che si rivelava il quadro completo della vicenda, tuttavia, sempre più persone cominciarono a sospettare che in qualche modo l’intelligence avesse coperto la cellula neonazista. Le sviste investigative, i ritardi e gli errori marchiani e reiterati erano troppi, per non ingenerare sospetti. La cancelliera Angela Merkel si scusò pubblicamente con le famiglie delle vittime per gli errori commessi dall’intelligence durante le indagini, mentre il governo si scusò inoltre con le Nazioni Unite, perché gli omicidi dell’NSU avevano rappresentato «senza il minimo dubbio una delle minacce più gravi ai diritti dell’uomo in questi ultimi anni, in Germania».

(Ibidem)