LA maggior parte degli adulti, nel mondo occidentale, non supera mai di molto il livello artistico raggiunto verso i nove o dieci anni. Per lo più le attività mentali e fisiche dell’uomo subiscono un cambiamento e uno sviluppo notevole con l’avvicinarsi dell’età adulta: ad esempio, il linguaggio e la scrittura. Invece, nella maggioranza degli individui la capacità di disegnare subisce un inesplicabile arresto ancora in età infantile. Nella nostra società i bambini, com’è ovvio, disegnano da bambini, ma il fatto è che anche molti adulti disegnano come i bambini, indipendentemente dal livello raggiunto in altri campi. Ce lo dimostrano le figure 5-1 e 5-2, in cui vediamo il persistere di forme infantili in due disegni eseguiti da un giovane e brillante professionista, impegnato nei suoi studi di dottorato presso un’importante università americana.
«Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato.»
1 Cor., 13, 11
Ho osservato questa persona mentre disegnava, mentre guardava il suo modello, tracciava un segno, cancellava, poi tracciava un altro segno, e così via per circa venti minuti. In quel lasso di tempo, l’ho visto diventare irrequieto, appariva teso e frustrato. Più tardi mi disse che odiava quei disegni, anzi, che odiava disegnare.
Se dovessimo etichettare questa incapacità e attribuirle un nome, come gli esperti hanno chiamato dislessia l’incapacità di leggere, dovremo escogitare un termine come dispittoricità o disartisticità; ma nessuno lo ha mai fatto, perché la capacità di disegnare non è indispensabile nella nostra cultura, come lo è invece la capacità di parlare e di leggere. Così, quasi nessuno sembra accorgersi del fatto che molti adulti disegnano come i bambini, e che molti bambini smettono di disegnare all’età di nove o dieci anni. Questi bambini, crescendo, saranno poi gli adulti che dicono di non essere mai stati capaci di disegnare e di non saper neppure tracciare una linea dritta. Eppure questi stessi adulti, se andiamo a vedere, avrebbero desiderato imparare a disegnare bene, se non altro per avere la soddisfazione di risolvere i problemi di disegno che li assillavano da bambini, ma dichiarano di aver dovuto rinunciare per la propria incapacità di imparare quell’arte.
A causa di questa precoce interruzione della crescita artistica, molti adulti competenti e sicuri di sé vengono colti dalla timidezza, dall’imbarazzo e dall’ansia se si chiede loro di disegnare un volto o una figura umana. Chi si trova in questa situazione spesso dice: «No, non sono capace! Qualsiasi cosa io disegni è orribile. Sembra il disegno di un bambino». Oppure: «Non mi piace disegnare: mi fa sentire così stupido». Forse anche voi avete provato qualcosa di simile quando avete dovuto eseguire i disegni preliminari richiesti all’inizio del corso.
Per la maggioranza degli adulti la prima adolescenza sembra coincidere con un brusco arresto dello sviluppo artistico, inteso come capacità di disegnare. Già nell’infanzia queste persone avevano dovuto affrontare una crisi, un conflitto tra una sempre più complessa percezione del mondo che li circondava e il livello delle proprie capacità artistiche.
Tra i nove e gli undici anni la maggior parte dei bambini sviluppa una predilezione per il disegno realistico; il ragazzo diventa critico nei confronti dei disegni che faceva «da piccolo» e si dedica ripetutamente a certi soggetti prediletti, cercando di perfezionarli sempre di più. Qualsiasi disegno che non sia perfettamente realistico è considerato mal riuscito.
Forse anche voi ricordate gli sforzi fatti a quell’età per far sì che le cose che disegnavate sembrassero «vere» e il conseguente disappunto per i risultati ottenuti. Certi disegni di cui sareste andati fieri qualche anno prima vi sembravano del tutto sbagliati e vi causavano imbarazzo. Forse anche voi, come molti altri adolescenti, guardando i vostri disegni avete detto:
«Sono orribili! Non sono capace di disegnare. Non mi è mai piaciuto, quindi credo che non disegnerò più».
Purtroppo vi è un altro motivo, altrettanto frequente, per cui i ragazzi rinunciano a disegnare. A volte, con molta superficialità, gli adulti fanno dell’ironia o dei commenti negativi sui disegni dei bambini. A compiere questo atto di leggerezza può essere un insegnante, la madre o il padre, un altro bambino, oppure il fratello o la sorella maggiore tanto ammirati. Molti adulti mi hanno detto di ricordare in modo preciso e penoso come i loro tentativi fossero stati messi in ridicolo. È triste, ma quasi sempre il bambino ferito dà la colpa al proprio disegno anziché al critico superficiale. Per proteggersi da altre esperienze dolorose egli reagisce in maniera difensiva, come è comprensibile, e nella maggior parte dei casi non tenta mai più.
Un’esperta d’arte infantile, Miriam Lindstrom del San Francisco Art Museum, ha così descritto la situazione dell’adolescente:
«Insoddisfatto dei propri risultati e molto desideroso che i suoi disegni piacciano agli altri, tende a rinunciare alla creazione originale e all’espressione personale...
L’ulteriore sviluppo delle sue capacità di visualizzazione, e anche della sua capacità di elaborare pensieri originali nonché di rapportarsi, attraverso emozioni personali, al suo ambiente, può arrestarsi in questa fase. Si tratta di una fase critica che molti adulti non hanno superato».
MIRIAM LINDSTROM
Children’s Art, 1957
Anche gli insegnanti d’arte più comprensivi, che magari si sentono amareggiati dalle critiche ingiuste rivolte ai bambini e che vogliono in tutti i modi aiutarli, spesso si lasciano scoraggiare da quello che è lo stile preferito dagli adolescenti: immagini complesse e piene di dettagli, disegni a tutti i costi realistici, ripetizione quasi ossessiva di temi prediletti come macchine da corsa ecc. Ricordando l’ingenua libertà e il fascino dei disegni precedenti dei loro allievi, essi si domandano che cosa sia avvenuto. Deplorano negli ultimi disegni degli studenti ciò che a loro pare «limitatezza» e «mancanza di creatività». I ragazzi stessi diventano spesso i critici più inesorabili delle proprie opere. Di conseguenza gli insegnanti ricorrono frequentemente a lavori di creatività manuale (collage, pittura con lo spago, pittura a sgocciolatura e così via), che sembrano più sicuri in quanto creano meno angoscia.
Il risultato di tutto questo è che nelle scuole inferiori quasi nessuno impara a disegnare; l’autocritica diventa un tratto permanente e solo in casi molto rari si decide di imparare a disegnare più avanti nella vita. Come il giovane professionista cui ho accennato, la maggior parte delle persone può diventare molto competente in diversi campi, ma dovendo ritrarre un volto o una figura umana esegue la stessa immagine infantile che disegnava a dieci anni.
Per molti miei allievi è stato utile tornare indietro nel tempo e cercare di comprendere lo sviluppo dei simboli da loro utilizzati nel disegno dall’infanzia all’adolescenza. Una buona conoscenza del processo di evoluzione del loro sistema di simboli infantile li ha aiutati a sbloccare più facilmente il proprio sviluppo artistico e a progredire verso uno stadio adulto.
«I disegni ‘a scarabocchio’ di ogni bambino indicano chiaramente come i loro autori siano totalmente presi dalla sensazione che la mano e la matita percorrano la superficie senza alcuna meta, lasciandosi dietro una linea. Già in questo deve esserci qualcosa di magico.»
EDWARD HILL
The Language of Drawing, 1966
La vostra esperienza nel tracciare segni sulla carta è cominciata all’età di un anno e mezzo circa, quando per la prima volta vi hanno messo in mano una matita o un pastello e da soli avete tracciato il primo segno. È difficile per noi immaginare la meraviglia che suscita nel bambino il vedere una linea scaturire dalla cima di un bastoncino, una linea che il bambino stesso controlla. È un’esperienza che voi e io, come tutti, abbiamo fatto.
Dopo il primo timido avvio, anche voi probabilmente avete scarabocchiato beatamente su ogni superficie disponibile, compresi i libri più preziosi dei vostri genitori e le pareti di qualche stanza. Dapprima gli scarabocchi erano casuali, disordinati, come nella figura 5-3, ma assai presto avrebbero assunto forme ben definite. Uno dei movimenti principali che si compiono scarabocchiando è quello circolare, che forse deriva semplicemente dal modo in cui la spalla, il braccio, il polso, la mano e le dita operano in connessione tra loro. Si tratta di un movimento naturale, più naturale per esempio del movimento richiesto al braccio per disegnare una forma quadrangolare. (Sperimentatelo voi stessi su un foglio e vi renderete conto di ciò che intendo.)
Dopo qualche giorno o settimana di scarabocchi il bambino scopre la cosa più importante del disegno: un simbolo tracciato sulla carta può rappresentare un oggetto che sta là fuori, nel mondo esterno. Egli traccia un cerchio, lo guarda, aggiunge due segni per gli occhi, osserva il disegno e dice: «La mamma», oppure «Il papà», o «Questo sono io», o ancora «È il mio cane». Noi tutti abbiamo sperimentato questo salto cognitivo che è soltanto dell’uomo e che a partire dalle pitture rupestri della preistoria, lungo tutto il corso dei secoli, fino a Leonardo, a Rembrandt, a Picasso, ha costituito il fondamento dell’arte figurativa.
Con grande diletto i bambini disegnano cerchi con occhi, bocca, braccia e gambe, come nella figura 5-4. Il cerchio è un simbolo universale: ogni bambino lo usa e può rappresentare, con varianti minime, pressoché tutto: una persona, un gatto, il sole, una medusa, un elefante, un coccodrillo, un fiore o un microbo. Quando eravate bambini il vostro cerchio rappresentava ciò che di volta in volta dicevate che fosse, anche se probabilmente alla forma base apportavate modifiche sottili e divertenti per rendere meglio l’idea.
Verso i tre anni e mezzo il bagaglio di immagini del bambino si fa più complesso e riflette una maggiore consapevolezza e una più ampia percezione del mondo esterno. Alla testa viene aggiunto un corpo, magari più piccolo della testa stessa; le braccia possono ancora uscire direttamente dal capo, ma più spesso sono attaccate al corpo, magari sotto la vita; inoltre, compaiono le gambe.
A quattro anni il bambino mostra grande interesse per i particolari degli abiti, e nei suoi disegni compaiono bottoni e cerniere. Fanno la loro apparizione anche le dita (alle estremità di braccia o mani), e le dita dei piedi in fondo agli arti inferiori. Il numero delle dita varia molto ed è affidato alla fantasia; mi è capitato di contare fino a trentuno dita su un’unica mano e un minimo di un solo dito per un piede (fig. 5-4).
Le immagini ripetute dei bambini diventano famose tra compagni e insegnanti, come mostra questa vignetta di Brenda Burbank.
Sebbene tutte le figure umane disegnate da bambini presentino molte somiglianze, ogni bambino elabora, attraverso continui tentativi, una propria immagine preferita che, ripetuta all’infinito, diventa sempre più raffinata. Infatti, nell’infanzia si tende alla ripetizione continua delle stesse immagini, che man mano vanno arricchendosi di dettagli. Quei modi prediletti di disegnare varie parti della figura finiscono per fissarsi nella memoria e per rimanervi con una tenacia insospettata (fig. 5-5).
Attorno ai quattro-cinque anni di età i bambini cominciano a usare il disegno per raccontare storie o per risolvere problemi, usando una certa gamma di variazioni (minute o molto evidenti) delle forme basilari per esprimere il significato desiderato. Per esempio, nella figura 5-6 il piccolo artista ha disegnato un braccio enormemente più grande dell’altro, perché questo braccio che regge l’ombrello rappresenta il punto centrale del disegno.
Utilizzando il suo simbolo-base per la figura umana, il bambino ha disegnato anzitutto se stesso.
Poi ha disegnato la mamma, usando la stessa configurazione di base, con l’aggiunta di particolari come i capelli lunghi e l’abito femminile.
Quindi ha aggiunto il babbo, calvo e con gli occhiali.
Infine ha disegnato la sorella, con l’aggiunta dei denti.
In un altro esempio possiamo vedere l’uso del disegno per esprimere sentimenti. Si tratta di un ritratto di famiglia eseguito da un bambino di cinque anni, piuttosto timido, la cui vita quotidiana era evidentemente dominata dalla sorellina maggiore.
Nemmeno Picasso avrebbe potuto esprimere i suoi sentimenti con maggiore efficacia. Una volta eseguito il disegno e dato forma a emozioni che forma non hanno, non è escluso che il bambino abbia potuto affrontare meglio la situazione con la prepotente sorellina.
Giunto all’età di cinque o sei anni il bambino ha ormai elaborato i simboli necessari per la raffigurazione del paesaggio. Come già per la figura umana, egli esegue un’unica versione di un paesaggio simbolico, che ripete continuamente. Forse ricordate ancora il paesaggio che disegnavate a quell’età.
Quali erano gli elementi che lo componevano? Anzitutto il terreno e il cielo. Pensando in termini simbolici, il bambino sa che il terreno sta in basso e il cielo sta in alto. Quindi, il terreno è il bordo inferiore del foglio e il cielo è il bordo superiore, come nella figura 5-7. Se usa i colori, il bambino sottolinea questo fatto tracciando una linea o fascia verde lungo il bordo inferiore e una azzurra lungo il bordo superiore.
Spesso il paesaggio comprende anche una casa. Cercate di rivedere con gli occhi della mente la casa che disegnavate voi. Aveva le finestre? E alle finestre c’erano le tendine? Cos’altro c’era? Forse una porta? E che cosa c’era sulla porta? Una maniglia, naturalmente, perché la maniglia serviva per entrare. Non mi è mai capitato di vedere un disegno spontaneo di un bambino in cui mancasse la maniglia alla porta.
Forse ora cominciate a ricordare gli altri elementi del vostro paesaggio. Il sole, per esempio: lo disegnavate in un angolo o facevate un cerchio con i raggi attorno? Poi le nuvole, il comignolo, i fiori, gli alberi (anche i vostri avevano un ramo sporgente per l’altalena?), le montagne (somigliavano a coni di gelato capovolti?). E poi cos’altro? Forse una strada che conduceva alla casa? Uno steccato? Degli uccelli?
A questo punto, prima di proseguire nella lettura, prendete un foglio di carta e disegnate il paesaggio che facevate da bambini, sul quale poi scriverete: «Paesaggio infantile ricordato». Forse l’immagine vi è tornata alla mente tutta intera con sorprendente nitidezza o forse le varie parti riemergeranno dalla memoria a una a una, man mano che eseguite il disegno.
Mentre disegnate, cercate di ricordare anche il piacere che provavate da bambini, il senso di soddisfazione che vi dava il disegnare i vari simboli, e la sensazione che ciascuno di essi andasse a collocarsi nel punto giusto. Ricordate la vostra preoccupazione infantile di non tralasciare nulla e, una volta sistemati tutti i simboli, l’impressione che il disegno fosse completo. Se non ricordate ora il paesaggio che disegnavate da bambini, non preoccupatevi. Forse lo ricorderete più avanti, altrimenti vorrà dire semplicemente che per qualche motivo lo avete cancellato dalla memoria. In genere, circa il 10 per cento dei miei allievi adulti non ricorda i propri disegni infantili.
Prima di continuare, dedichiamo un minuto all’osservazione di alcuni paesaggi infantili ricordati in età adulta. Anzitutto noterete che si tratta di immagini personalizzate e che ciascuna è diversa dalle altre. Osservate anche come in ciascun disegno la composizione – cioè il modo in cui i vari elementi sono accostati tra loro e distribuiti all’interno del foglio – è perfetta, nel senso che non un solo elemento potrebbe essere aggiunto o tolto senza disturbare l’armonia dell’insieme (fig. 5-9). Ne avete la dimostrazione nella figura 5-10, dove è stata eliminata una delle forme (l’albero). Fate lo stesso esperimento con il vostro paesaggio infantile, coprendo di volta in volta uno degli elementi: vi renderete conto di come, eliminando anche un solo elemento, l’equilibrio generale ne risenta in modo radicale. Le figure 5-9 e 5-10 illustrano altre caratteristiche dei paesaggi infantili.
Dopo aver guardato questi esempi, rivolgetevi di nuovo al vostro paesaggio. Osservate la sua composizione (il modo in cui le forme sono collocate, con equilibrio, all’interno del foglio). Osservate inoltre le distanze come fattori della composizione stessa. Cercate di interpretare l’«espressione» che caratterizza la casa, dapprima in modo non verbale, poi usando le parole. Coprite uno degli elementi e osservate come la sua eliminazione influisca sulla composizione. Ripensate al modo in cui avete eseguito il disegno. Lo avete fatto con un senso di sicurezza, sapendo dove dovesse essere collocato ogni elemento? Avevate la sensazione che per ogni parte del disegno disponevate di un simbolo preciso, perfetto in se stesso e in rapporto agli altri simboli? Dopo aver disegnato i vari elementi e completato il disegno, vi accorgerete di provare lo stesso senso di soddisfazione che provavate da bambini.
I bambini rivelano inizialmente un senso perfetto della composizione, che spesso perdono nell’adolescenza e riconquistano soltanto con uno studio faticoso. Credo che questo possa essere spiegato con il fatto che dopo una certa età il bambino concentra la propria attenzione su singoli oggetti inseriti in uno spazio indifferenziato, mentre i bambini più piccoli tendono a costruire un mondo concettuale completo in se stesso all’interno del foglio di carta. Per i bambini più grandi, invece, i bordi che delimitano il foglio sembrano quasi non esistere, così come non esistono margini che racchiudano lo spazio reale.
Ora vi riporterò, in questo viaggio a ritroso nel tempo, al periodo in cui avevate nove o dieci anni. Forse ricorderete alcuni dei disegni di quell’età, fatti in terza, quarta o quinta elementare.
Questa è la fase in cui ci si sforza di disegnare in modo dettagliato, sperando così di ottenere un maggiore realismo, un risultato molto ambito. L’interesse per la composizione diminuisce e spesso le forme hanno una collocazione casuale nella pagina. A quanto sembra, il bambino, che finora si era preoccupato di vedere come stavano le cose all’interno del suo disegno, ora si preoccupa invece di come sono le cose, con particolare attenzione per i dettagli delle varie forme. Nell’insieme, i disegni dei ragazzi di questa età presentano una maggiore complessità e al tempo stesso una minore sicurezza in confronto ai paesaggi della prima infanzia.
Sempre in questo periodo comincia a delinearsi una differenza tra i disegni dei bambini e quelli delle bambine, differenza dovuta probabilmente a fattori culturali. I ragazzi cominciano a disegnare automobili, come auto truccate e macchine da corsa; scene di guerra con bombardieri, sottomarini, carri armati e razzi; figure leggendarie ed eroi, pirati barbuti, navigatori vichinghi sulle loro imbarcazioni, divi televisivi, rocciatori e sommozzatori. Sono affascinati da lettere a stampatello, soprattutto sigle, e da immagini inconsuete, come l’occhio trafitto da un pugnale, completo di pozze di sangue, che vedete qui riprodotto (e che a me piace molto).
Le ragazze si dedicano invece a soggetti più miti: vasi di fiori, cascate, montagne che si riflettono in laghetti dalle acque calme, graziose ragazzine che corrono o riposano sull’erba, modelle con ciglia incredibili, pettinature elaborate, piedi minuscoli e vitini di vespa e con le mani dietro la schiena perché le mani sono «difficili da disegnare».
Le figure dalla 5-11 alla 5-14 mostrano alcuni esempi di disegni eseguiti da bambini e bambine alle soglie dell’adolescenza. Tra questi noterete una vignetta da fumetto: questo tipo di disegno, eseguito da entrambi i sessi, è in genere molto apprezzato. Credo che a questa età sia una delle forme preferite di disegno in quanto richiede l’uso di forme simboliche familiari, ma i ragazzi (e le ragazze) tendono a farne un uso più sofisticato, per dimostrare che i propri disegni non sono «bambineschi».
Verso i dieci-undici anni i ragazzi sviluppano al massimo la loro passione per il disegno realistico (figg. 5-15 e 5-16). Quando ritengono che i loro disegni non siano «ben riusciti» – il che significa che non sono abbastanza realistici –, spesso tendono a scoraggiarsi. A questo punto chiedono aiuto all’insegnante, il quale magari dice loro: «Dovete guardare meglio»; ma non serve, perché i ragazzi non sanno che cosa devono cercare «guardando meglio». Vorrei illustrarvi questo problema con un esempio.
Supponiamo che un bambino o una bambina di dieci anni voglia disegnare un cubo, usando come modello un blocchetto di legno. Dato che vuole che il suo disegno sembri «vero», si metterà in una posizione da cui si vedono due o anche tre facce del cubo; eviterà cioè la visione frontale che, mostrando una sola faccia del cubo, non evidenzierebbe la forma reale del solido.
Per ottenere un disegno realistico, il bambino dovrebbe copiare le forme così come le vede, con i loro angoli strani, cioè le immagini esattamente come esse colpiscono la retina dell’occhio. Quelle forme non sono quadrate. In effetti il bambino deve cessare di sapere che le facce del cubo sono quadrate e deve disegnare delle forme «stravaganti». Il cubo del disegno sembrerà vero soltanto se sarà composto di forme sbilenche. Detto in altre parole: per disegnare un cubo a facce quadrate egli dovrà disegnare forme non quadrate. Il bambino deve accettare questo paradosso, questo processo illogico che si scontra con le nozioni verbali e concettuali. (Forse era in parte questo che Picasso intendeva quando disse: «La pittura è una bugia che dice la verità».)
Se la nozione concettuale della vera forma del cubo prende il sopravvento sulla percezione puramente visiva del ragazzo, ne risulterà un disegno «sbagliato»: il tipo di disegno che getta l’adolescente nello sconforto (vedi fig. 5-17). Sapendo che i suoi angoli sono retti, il principiante di solito comincia a disegnare un cubo tracciando un angolo retto. Sapendo che il cubo poggia su una superficie piatta, egli traccia una linea orizzontale alla base. Aggiungendo errori a errori via via che il disegno procede, l’allievo finirà per sentirsi sempre più confuso.
L’osservatore sofisticato che conosce la pittura cubista e astratta potrà forse trovare i disegni «sbagliati» della figura 5-17 più interessanti dei disegni «corretti» della figura 5-18, ma per i ragazzi è incomprensibile che le loro forme sbagliate possano piacere. Ciò che essi desiderano è che il loro cubo sembri «vero». Se così non è, quel disegno sarà mal riuscito. Affermare il contrario è per loro assurdo, come sostenere che «due più due fa cinque» sia una soluzione creativa e quindi da apprezzare.
A causa di disegni «sbagliati» come quello del cubo che abbiamo mostrato, il ragazzo può concludere di «non essere capace» di disegnare. Ma questo non è vero: le sue forme indicano che manualmente è perfettamente capace di disegnare. Il problema nasce dal fatto che le nozioni accumulate in precedenza, utili in altri contesti, gli impediscono di vedere la cosa così com’è, cioè come si presenta davanti ai suoi occhi.
A volte l’insegnante può risolvere il problema mostrando ai ragazzi «come si fa». La tecnica della dimostrazione nell’insegnamento artistico è molto antica e, se l’insegnante sa disegnare e può contare sulle proprie capacità abbastanza da eseguire disegni realistici davanti agli allievi, è senza dubbio efficace. Purtroppo, la maggior parte degli insegnanti che seguono i bambini in questo periodo così cruciale non ha a sua volta imparato a disegnare, perciò non ha fiducia nelle proprie capacità, proprio come non l’hanno i suoi allievi.
Molti insegnanti vorrebbero che i ragazzi a questa età fossero più liberi e si preoccupassero meno di far sembrare «vere» le cose che disegnano. Ma per quanto i maestri deplorino l’insistente ricerca di realismo degli alunni, questi dal canto loro sono inflessibili. I loro disegni devono essere fedeli, altrimenti rinunceranno per sempre a farne altri; le immagini che creano devono corrispondere esattamente alle immagini che vedono, ed essi vogliono imparare come si fa a ottenerlo.
Io credo che i giovani a questa età amino tanto il realismo perché stanno cercando di imparare a vedere. Sono disposti a dedicarvi molte energie e un grande impegno, a patto che i risultati siano confortanti. Qualcuno ha la fortuna di scoprire per caso il segreto: come vedere le cose in modo diverso (funzione D). Credo di avere avuto io stessa questa fortuna. Ma la maggior parte dei bambini deve imparare a compiere quel passaggio. Fortunatamente noi oggi stiamo elaborando un nuovo metodo didattico, basato sulle ultime ricerche sul cervello umano, che metterà gli insegnanti in condizione di aiutare i ragazzi a soddisfare le loro aspirazioni nel campo del disegno.
«Il pittore che si sforzi di rappresentare la realtà deve trascendere la propria percezione. Deve ignorare o reprimere gli stessi meccanismi della sua mente che creano oggetti dalle immagini... L’artista, come l’occhio, deve fornire immagini vere e dare l’idea della distanza, per raccontare le sue magiche bugie.»
COLIN BLAKEMORE
I meccanismi della mente, 1977
Dall’adolescenza in poi, abbiamo imparato a vedere le cose attraverso le parole: diamo un nome alle cose, e ne conosciamo le caratteristiche. Il sistema verbale dominante, il sinistro, non ha necessità di avere troppe informazioni su ciò che percepisce: gli basta soltanto quel che gli serve per riconoscere l’oggetto e catalogarlo. Sembra che una delle sue funzioni sia di «scremare» molte delle percezioni contestuali. Questo è un processo necessario e che ci è di grande aiuto per la maggior parte delle volte, perché ci permette di concentrare la nostra attenzione. L’emisfero sinistro, in questo senso, impara a dare una rapida occhiata e a dire: «Bene, quella è una sedia (o un ombrello, un uccello, un albero, un cane ecc.)». Ma disegnare richiede un’attenta e lunga osservazione, per percepire i dettagli, per capire come essi si amalgamano e per registrare il maggior numero di informazioni possibile: idealmente, tutto, come, a quanto sembra, ha cercato di fare Albrecht Dürer nella figura 5-19.
Ci stiamo avvicinando sempre di più al problema e alla sua soluzione. Anzitutto, che cosa impedisce a una persona di vedere gli oggetti abbastanza chiaramente da poterli disegnare?
«Quando il bambino comincia a disegnare qualcosa di più che semplici scarabocchi, cioè all’età di tre o quattro anni, la sua memoria e il suo procedimento grafico sono già dominati da un insieme consolidato di conoscenze concettuali formulate in termini linguistici... Un disegno è così un resoconto grafico di un processo essenzialmente verbale. Man mano che la sua formazione verbale diventa dominante, il bambino abbandona i suoi tentativi grafici per affidarsi quasi totalmente alle parole. Il linguaggio, dopo aver contaminato il disegno, finisce per sopraffarlo completamente.»
Scritto nel 1930 dallo psicologo KARL BUHLER
All’emisfero sinistro manca la pazienza necessaria a un tipo di percezione così dettagliata. In pratica esso dice: «È una sedia e basta: non c’è altro da sapere. Anzi, non darti la pena di guardarla, perché io ho da offrirti un simbolo bell’e fatto. Eccolo; puoi aggiungere qualche dettaglio, se vuoi, ma non seccarmi con questa faccenda del vedere».
Ma i simboli da dove vengono? Dagli anni dei disegni infantili, durante i quali ciascuno elabora un sistema di simboli che rimane registrato nella memoria, per cui quei simboli sono lì, pronti a essere evocati, proprio come quando da bambini disegnavamo il nostro paesaggio.
Anche quando si vuole disegnare un volto, ecco che saltano fuori dei simboli. L’efficiente emisfero sinistro dice: «Ah, sì: occhi. Ecco un simbolo per gli occhi, quello che hai sempre usato. E un naso? Sì: il naso è così». Bocca? Capelli? Ciglia? Per ognuna di queste parti c’è un simbolo. Come c’è per la sedia, il tavolo, le mani.
«Devo partire, non da ipotesi, ma da casi specifici, per minuti che siano.»
PAUL KLEE
Per concludere, gli adulti che cominciano a imparare a disegnare non vedono veramente ciò che hanno davanti agli occhi, cioè non percepiscono gli oggetti in quel modo particolare necessario per disegnare. Prendono nota dell’oggetto e rapidamente traducono la percezione in parole e simboli, questi ultimi tratti soprattutto dal bagaglio costituitosi nell’infanzia e basati su ciò che essi sanno dell’oggetto percepito.
Come risolvere questo problema? Secondo lo psicologo Robert Ornstein, l’artista deve riprodurre l’immagine come la riflette uno specchio, ovvero deve vederla esattamente com’è. Ecco quindi che bisogna «disattivare» le funzioni dominanti della classificazione verbale (funzione S) e «attivare» le funzioni della parte destra del cervello (funzione D) per poter vedere come vede l’artista.
Di nuovo, il problema fondamentale che si pone è come compiere il passaggio cognitivo dalla funzione S alla funzione D. Come ho già spiegato nel capitolo 4, il sistema più efficace sembra essere quello di proporre al cervello compiti che l’emisfero sinistro non possa o non voglia assolvere. Voi avete già messo in pratica questo sistema con i disegni del vaso e dei profili e con quello dell’immagine capovolta. In certa misura avete già cominciato a sperimentare e a riconoscere quel diverso stato mentale soggettivo provocato dall’attivarsi della funzione D e pian piano vi rendete conto che siete in grado di vedere meglio.
Ripensate alle esperienze di disegno che avete fatto dall’inizio di questo libro e ai diversi stati di coscienza che avete probabilmente sperimentato in determinate occasioni (per esempio, guidando in autostrada o leggendo, come abbiamo detto nel capitolo 1) e cercate di ricostruire le caratteristiche di quello stato leggermente alterato. È importante che continuiate a coltivare la vostra consapevolezza e la capacità di riconoscere la condizione connessa alla funzione D.
«L’arte è una forma di consapevolezza sommamente fine... un’unione totale; è la condizione in cui si è tutt’uno con l’oggetto... Il quadro deve venire totalmente da dentro l’artista... È l’immagine che vive nella coscienza: viva come una visione, ma sconosciuta.»
D.H. LAWRENCE
(a proposito della sua pittura)
Dietro istruzioni precise, anche i bambini possono imparare a disegnare. Questi sono alcuni esempi di disegni di bambini di otto anni.
Riassumiamo ancora una volta le caratteristiche della funzione D. Anzitutto, si ha l’impressione che il tempo si fermi: non si ha cioè coscienza del tempo, nel senso che non si avverte il suo trascorrere. In secondo luogo, non si presta attenzione al discorso: si può sentire qualcuno che parla, ma i suoni non vengono decodificati in parole con un significato. Se qualcuno ci rivolge la parola, sembra di dover compiere uno sforzo enorme per tornare indietro, cioè tornare a pensare in modo verbale ed elaborare la risposta. Inoltre, ciò che stiamo facendo, qualsiasi cosa sia, suscita in noi il massimo interesse e coinvolgimento: siamo concentrati su una cosa al punto da sentirci «tutt’uno» con essa. Ci sentiamo pieni di energia ma calmi; attivi ma privi di ansia. Siamo sicuri di noi stessi e sappiamo di poter svolgere bene il compito in questione. Non pensiamo con parole ma con immagini e, soprattutto se stiamo disegnando, il nostro pensiero è concentrato esclusivamente sul soggetto da ritrarre. Quando abbandoniamo lo stato della funzione D, anziché sentirci stanchi ci sentiamo rigenerati.
Lewis Carroll descrive un passaggio, simile a quello trattato in questo libro, nelle avventure di Alice in Attraverso lo specchio:
«Oh, Kitty, come sarebbe bello poter entrare nella Casa dello Specchio! Sono sicura che ci sono delle cose meravigliose! Facciamo finta che ci sia un modo per entrare, Kitty. Facciamo finta che il vetro sia diventato morbido come nebbia, e che possiamo passare dall’altra parte. Ecco, guarda: sta diventando una specie di brina, proprio in questo momento, te lo dico io! Andare di là sarà facilissimo...»
Ora il nostro compito è di mettere meglio a fuoco questa condizione e assumerne un maggiore controllo cosciente, in modo da sfruttare le straordinarie facoltà dell’emisfero destro in termini di elaborazione delle informazioni visive e potenziare la nostra capacità di passare alla funzione D ogni volta che lo vogliamo.
«Coltivando il suo Osservatore l’individuo può riuscire in misura notevole a osservare in sé i diversi stati di identità, che un osservatore esterno spesso coglie assai distintamente; ma chi non ha sviluppato questa facoltà, questo Osservatore, può non accorgersi mai dei numerosi passaggi da uno stato di identità all’altro.»
CHARLES T. TART
Alternate States of Consciousness, 1977