L’erede di Cesare aveva finalmente Roma in pugno, dopo il secondo tentativo in dieci mesi. La prima volta aveva cercato l’appoggio di statisti anziani e della fazione costituzionalista. Adesso era console e l’unico pericolo per lui era rappresentato dai comandanti dell’esercito rivali.

Per il momento, si provvide ad alcune rapide formalità. Con una legge del console Pedio venne istituito un tribunale speciale per sottoporre a processo e punire gli uccisori di Cesare. Con un opportuno espediente fu annoverato assieme a questi criminali politici anche Sesto Pompeo, ammiraglio della repubblica. Gli ambiziosi o piuttosto gli impudenti fecero mostra di grande lealtà e si disputarono il diritto dell’accusa. Agrippa incriminò Cassio1 e un certo Lucio Cornificio scelse a propria vittima Bruto2. Dei giurati, benché accuratamente scelti, uno diede il proprio voto per l’assoluzione e non fu molestato fintanto che non furono debitamente organizzate le proscrizioni. Ottaviano poteva permettersi di aspettare a vendicarsi dei nemici minori assieme a quelli piú grandi.

Roma ebbe subito modo di assistere a un saggio di assassinio legalizzato. Uno dei pretori, Quinto Gallio, fu accusato di aver tentato di uccidere il console Ottaviano. I colleghi indignati deposero dalla carica quel criminale e la folla saccheggiò la sua casa. Il Senato, con una violenta usurpazione di poteri, lo condannò a morte3. Una versione mitigata della morte di Quinto Gallio è che fosse morto in un viaggio per mare e che la colpa fosse stata dei pirati o di un naufragio4.

Ottaviano aveva speso il proprio patrimonio per lo Stato, e ora lo Stato lo risarciva. S’impadroní del tesoro che, pur impoverito, poté fornire a ciascuno dei suoi soldati la somma di duemilacinquecento denarii – piú di dieci volte la paga di un anno5. E dovevano ancora ricevere altrettanto. Cosí, con un esercito devoto, salito a undici legioni, il console lasciò Roma per fare i conti con Antonio, che poteva ora fronteggiare da pari a pari. Antonio era stato fermato e sconfitto a Modena. Era già abbastanza. Non rientrava né nei piani né nelle possibilità dell’erede di Cesare portare a compimento la distruzione del piú potente tra i generali cesariani. Cosí si spiega il suo improvviso voltafaccia dopo la battaglia di Modena: allora aveva trattato onorevolmente i prigionieri antoniani, e, si diceva, aveva mandato ad Antonio uno degli ufficiali con un messaggio amichevole6. L’unione di Antonio e Lepido risolveva la situazione. Tutto lascia pensare che allora possano essere stati scambiati messaggi. Se ne ebbe presto un indizio palese: Ottaviano, mettendosi in marcia per risalire la Flaminia, diede istruzione all’altro console di revocare i decreti di messa al bando contro Antonio e Lepido – perché anche Lepido era stato dichiarato nemico pubblico.

Durante i sei ultimi mesi del consolato di Antonio, la coalizione del 17 marzo si era sfasciata definitivamente e per un certo tempo si verificò una scissione nelle fila della fazione cesariana. Con il risollevarsi della fazione pompeiana a Roma e con l’accrescersi della potenza di Bruto e Cassio in Oriente, i capi cesariani furono spinti irresistibilmente l’uno verso l’altro. Ma erano piú oggetti che soggetti. Dietro di loro stavano le legioni e le forze della rivoluzione.

Ottaviano dunque valicò gli Appennini e rientrò nella Gallia Cisalpina, coraggiosamente. Stando alle armi, Lepido e Antonio avrebbero potuto sopraffare il giovane console. Ma il suo nome e la sua fortuna gli fecero nuovamente da scudo e nelle trattative assunse una posizione alla pari. Tuttavia la spartizione dei poteri doveva rivelare le proporzioni reali dei tre capi.

Dopo laboriose ma evidentemente necessarie precauzioni per la sicurezza personale, i potentati si riunirono su una piccola isola del Reno, nelle vicinanze di Bologna. Due sole giornate dense di discussioni decisero della sorte del mondo romano. Antonio, durante il consolato, aveva abolito per sempre la dittatura, ma ora la carica tirannica veniva riesumata sotto altro nome: per un periodo di cinque anni tre uomini avrebbero detenuto un potere sommo e arbitrario con il solito pretesto di riorganizzare lo Stato (tresviri rei publicae constituendae). A Roma, quando una coalizione conquistava il potere utilizzava come strumenti di dominio la magistratura suprema dell’Urbe e gli eserciti delle province. Anche se ridotto dalla risorta dittatura a poco piú di un nome, il consolato non recuperò mai piú la sua autorità ma conferiva ancora prestigio e soprattutto faceva giungere alla nobilitas. I potentati si accordarono preventivamente per alcuni anni avvenire, e questi accordi ci dànno un’idea delle reali rispettive proporzioni di potenza e d’influenza.

Antonio obbligò il giovane Cesare a rinunciare alla carica che aveva conquistato e per la restante parte dell’anno furono nominati Publio Ventidio e Gaio Carrinate, coppia di consoli che simbolicamente ricordava il bellum Italicum e la fazione di Mario. Lepido sembra aver avuto pochi sostenitori di merito o di chiara fama, cosa che non sorprende. Tra i suoi luogotenenti, Laterense si tolse la vita per la vergogna, mentre Publio Canidio Crasso e Rufreno erano ferventi antoniani7. Marco Silano, colui che aveva recato i suoi messaggi ad Antonio, lo avrebbe presto abbandonato per passare alla causa della repubblica8. Gli altri non avevano alcuna importanza. Lepido, comunque, avrebbe avuto un secondo consolato l’anno seguente, con Planco come collega. Per il 41 a.C. furono designati Publio Servilio Isaurico e Lucio Antonio; per il 40 a.C:, Pollione e Gneo Domizio Calvino. I cesariani Servilio e Calvino erano già consolari, e quindi nobiles. Ma gli accordi politici fra nobiles non erano completi senza un’alleanza matrimoniale. Questa volta i soldati insistettero perché ci fosse una solida garanzia per evitare dissensi all’interno della fazione cesariana. Ottaviano perciò lasciò la fidanzata, figlia di Servilio, e prese in sua vece Claudia, figlia di Clodio e di Fulvia, e quindi figliastra di Antonio9.

Delle province d’Occidente, Antonio per il momento assumeva il controllo dei territori che pretendeva in base al voto dell’assemblea popolare, e cioè della Gallia Cisalpina e della Gallia Comata, dominanti per posizione geografica e per forze militari. Sembra che abbia lasciato come proconsole della Cisalpina il suo partigiano Pollione, che forse doveva tenerla per due anni fino al suo previsto consolato (40 a.C.) 10. Lepido conservò il vecchio comando (la Gallia Narbonense e la Spagna Citeriore) accresciuto della Spagna Ulteriore, dato che Pollione abbandonava quella provincia. A Ottaviano toccò una porzione modesta: l’Africa e le isole di Sicilia, Sardegna e Corsica. A quell’epoca il possesso dell’Africa era incerto, e per diversi anni fu oggetto di una guerra civile locale11. Quanto alle isole, forse già si sospettava, e presto si sarebbe saputo con certezza, che alcune di esse erano state conquistate dall’avventuriero Sesto Pompeo, agente in virtú del comando marittimo assegnatogli precedentemente, quello stesso anno, dal Senato, per condurre la guerra contro Antonio.

Il regime del dinasta Pompeo nel 60 a.C. e negli anni successivi era fondato sul controllo, palese o segreto, degli organi di governo. Pompeo e i suoi amici non pretendevano di essere il governo, né lo Stato: a loro era sufficiente che i rivali fossero messi in condizione di non nuocere. Cesare dittatore perdonò i suoi avversari e ne favorí il rientro nella vita pubblica. I triumviri invece decisero di eliminare subito tutti i loro oppositori, adducendo la scusa della spregevole ingratitudine con cui i pompeiani avevano ricambiato la clemenza di Cesare12. I capi cesariani avevano rischiato violando il diritto pubblico: ora loro abolivano i diritti privati del cittadino – vendetta non sproporzionata, per uomini che erano stati dichiarati nemici pubblici.

Roma tremava, e i presagi accrescevano la paura. Si fecero venire indovini dall’Etruria. Il piú venerabile di questi maestri, dopo aver esclamato che stava per ritornare l’antica monarchia, morí sul colpo, di sua volontà13. La scena sarà stata impressionante, ma la profezia era superflua. I tre capi marciarono su Roma ed entrarono in città con gran pompa, in giorni diversi. Una lex Titia, votata il 27 novembre, costituí il triumvirato previsto dal trattato di Bologna. C’erano ancora molte persone che si ricordavano di Silla e piú volte prima d’ora le proscrizioni erano state motivo di intima apprensione, pretesto di una propaganda ostile, sostanza di aperte minacce: «Sulla potuit, ego non potero?»14. Ma i fatti superarono ogni precedente e ogni timore. Quasi a dare la misura della loro spietatezza, i triumviri inaugurarono le proscrizioni con l’arresto e l’esecuzione capitale di un tribuno del popolo romano15.

La cittadinanza romana, durante il terrore, fu testimone del trionfo delle cupe passioni della crudeltà e della vendetta, degli ignobili delitti della cupidigia e del tradimento. Le leggi e la costituzione romana erano ormai sovvertite. Con loro morivano anche l’onore e la sicurezza, la famiglia e l’amicizia. Ma non fu tutto un continuo orrore: la storia avrebbe avuto modo di celebrare splendidi esempi di coraggio e di sfida, mogli leali, schiavi fedeli16 e la narrazione di strane peripezie e di miracolosi salvataggi poté adornare i molti volumi alimentati da un’abbondanza di materiali che non aveva precedenti17.

Per Ottaviano, per la sua giovinezza esposta al sinistro influsso di una rude scuola, costretta a spargere il piú nobile sangue di Roma sotto lo schermo della legalità e non nell’ardore della battaglia, le generazioni successive ebbero un atteggiamento comprensivo e seppero anche trovargli piú di un’attenuante. Egli stesso scrisse la sua autobiografia e altri apologisti sostennero, abilmente, che la pietosa riluttanza di Ottaviano era stata travolta dalla feroce insistenza dei suoi piú anziani e piú induriti colleghi. E si raccontarono terribili storie sul temperamento avido e sanguinario di Fulvia. È lecito dubitare che i contemporanei fossero della stessa opinione. Se avessero avuto il tempo e la voglia di fare sottili distinzioni fra i tre uomini del terrore, è difficile che avrebbero chiesto indulgenza o fatto concessioni proprio a Ottaviano. Se ci fu del rammarico, fu forse nel vedere un buon soldato e nobile romano come Antonio ridursi a una tale compagnia e a tali espedienti. Per Antonio c’era qualche scusante, almeno: da console era stato preso di mira dall’odio di parte e dal tradimento, da proconsole era stato posto fuori legge. Ma per Ottaviano non ce n’era alcuna, e tutti i suoi meriti stavano nel nome che portava: «puer qui omnia nomini debet», come aveva detto Antonio, e con lui molti altri. E adesso quel grande nome era disonorato. L’erede di Cesare non era piú un giovane temerario, era un terrorista lucido e cosciente18. Ma condanna e apologia sono fuori luogo alla pari19.

I triumviri furono spietati, coerenti e unanimi nella repressione. Tutti dicevano che avessero messo nelle liste di proscrizione centotrenta senatori e un numero notevole di cavalieri20. La loro vittoria fu la vittoria di una fazione21. Il loro principale intento non era però quello di spazzare via senza eccezioni sia gli avversari politici, sia i neutrali che manifestassero la loro disapprovazione. E il numero totale delle vittime non fu probabilmente mai tanto elevato quanto si credette, con l’orrore di quei giorni, e quanto poco criticamente si continuò a ripetere nel romanzo e nella storia. In giorni piú recenti, ci fu senza dubbio chi inventò del tutto o se non altro ingrandí il pericolo di vita che aveva corso, o le perdite di beni fondiari che aveva subito: astuti individui che magari dovevano la tranquillità, se non addirittura la ricchezza, alla fazione cesariana.

Lo spirito di classe, anzi il normale senso di umanità si ribellò quando Lepido sacrificò suo fratello Paullo e Antonio suo zio Lucio Giulio Cesare, uomo già piuttosto anziano, repubblicano senza macchia. Però né l’uno né l’altro perse effettivamente la vita. Una sola fu la vittima consolare pretesa dagli assassini: Marco Tullio Cicerone. I capi cesariani proscrissero dei loro parenti – e altri personaggi in vista – piú per dare dimostrazione di reciproca solidarietà e per ispirare il terrore nelle fila dei nemici e dei malcontenti che per effettiva sete di sangue. Molti proscritti ebbero via di scampo e trovarono rifugio presso i liberatori in Oriente o presso Sesto Pompeo nei mari occidentali e nelle isole: c’era stato tutto il tempo e non erano mancati gli avvertimenti. Ma era egualmente vantaggioso per i triumviri poter cacciare dal paese i loro avversari politici, impedendo in tal modo qualsiasi moto insurrezionale in Italia mentre erano occupati a regolare i conti con i liberatori. Anche Cicerone avrebbe potuto salvarsi – ma per la sua indecisione, attese finché fu troppo tardi. La sua uccisione mise in cattiva luce i triumviri e arricchí la letteratura di un tema immortale22.

I fuggiaschi però non potevano portare con sé i loro beni; cosí alcuni proscritti rimasero in Italia, grazie ad accordi segreti o a una protezione particolare, oppure vi rientrarono ben presto, avendo salva la vita con qualche sacrificio in denaro23. C’era sempre stato un elemento mitigatore nelle contese politiche a Roma – i piú gravi estremismi si poterono talvolta evitare, almeno fra l’aristocrazia. Silla, ad esempio, aveva molti nemici fra i nobiles, ma alcuni dei piú eminenti, grazie alle parentele e all’influenza sociale, erano riusciti a sfuggire alla proscrizione, come il padre di Bruto e altri. La decadenza dell’autorità legale e la sempre incombente minaccia di guerra civile facevano aumentare il valore dei legami personali e inducevano a cercare in anticipo potenti protezioni. Il banchiere Attico non fu messo nella lista, neppure per salvare le apparenze o per ammonimento ad altri: di recente aveva dimostrato grande gentilezza verso la moglie e la famiglia di Antonio, nemico pubblico, incorrendo con ciò nel biasimo di certi circoli24, ma fiducioso nel proprio giudizio. D’altra parte si era già messo al sicuro dando protezione alla madre di Bruto nell’eventualità di una vittoria repubblicana25. Attico riuscí anche a salvare il cavaliere Lucio Giulio Calido, che godeva fama di poeta, almeno presso i contemporanei26; l’ormai anziano Marco Terenzio Varrone, un tempo uomo di milizia e governatore di province, ora pacifico studioso di antichità, trovò rifugio in casa di Caleno27.

Lungimiranza e saggi investimenti furono la salvezza per Attico, mentre la sua ricchezza, da sola, ne avrebbe provocato la condanna. La fazione cesariana combatteva i repubblicani a Roma cosí come li avrebbe presto combattuti in Oriente. Ma la lotta non aveva carattere meramente politico. Giunse anzi ad assomigliare a una lotta di classe e appunto in tale processo trasformò e consolidò la stessa fazione cesariana.

Tuttavia, si agiva anche per motivi personali o locali. Sotto la parvenza dello zelo partigiano, si provocava la proscrizione di nemici privati, per trarne profitto o vendetta. Molti annosi conflitti per la ricchezza e per il potere nelle città italiche giunsero ora a una risoluzione. L’antica gens Coponia era originaria di Tivoli28 e la proscrizione di un Coponio può essere benissimo ascritta a Planco29. Anche un fratello e un nipote di Planco erano nelle liste30, cosí come i rivali tra i Marrucini di Pollione31: fu proscritto pure il suo stesso suocero32. Questi autorevoli esempi diedero il la, se mai ce ne fosse stato bisogno, a crimini e omicidî presso le classi benestanti dei municipia, pubblicamente esaltate per la loro professione di antica virtú, ma avide e prive di scrupoli nel loro intimo. La città di Larino sarà certamente stata all’altezza della sua fama33. Altrove accadde che i sopravvissuti a lotte precedenti, già battuti e impoveriti, si risollevarono animati da sentimenti aggressivi e di vendetta. I violenti Marsi e Peligni avevano vecchi e amari ricordi. D’altra parte alcuni proscritti furono salvati per virtú civica, per influenza personale o per patriottismo locale. I cittadini di Cales [Calvi Risorta] guarnirono le mura e si rifiutarono di consegnare Sittio34. Lucilio Irro, grande proprietario terriero, adunò i suoi clienti e fittavoli, armò gli schiavi e combattendo si aprí la strada attraverso l’Italia fino alla costa35.

Arrunzio fece lo stesso36. Gli Arrunzi erano una famiglia facoltosa della città volsca di Atina, anche se forse non di rango senatorio37. Un gran numero degli appartenenti all’aristocrazia locale aveva sostenuto Cesare38 e alcuni saranno certo rimasti fedeli alla fazione cesariana. Famiglie benestanti come gli Aelii Lamiae di Formia o la gens Vinicia di Cales, di cui non si ha notizia che siano state proscritte, o godevano già da prima di alta protezione, o se la procacciarono in quel momento39.

L’ambizione di generali come Pompeo e Cesare aveva provocato una guerra civile, senza però che si fossero proposti di fare una rivoluzione. Cesare, strettamente collegato con potenti interessi finanziari e con esponenti della nobilitas terriera, era contrario a qualsiasi radicale ridistribuzione delle proprietà in Italia. Egli conservò intatti i benefici di Silla e molte delle sue colonie furono dedotte su territori provinciali, risparmiando l’Italia. Vinse una fazione, quando Cesare sconfisse Pompeo – anche se il seguito di Cesare non era affatto omogeneo, anche se il dittatore stava al di sopra delle parti. Egli non sosteneva una classe contro un’altra e pur avendo dato inizio a una rivoluzione il suo primo atto era stato di arrestarne l’avanzata e consolidare l’ordine esistente. E neppure Antonio e i suoi soci si sarebbero comportati come si comportarono, se la sicurezza e il potere avessero potuto conquistarsi per altra via. Si videro bene ora le conseguenze derivate dal costringere un generale a fare appello all’esercito in difesa della propria vita o dell’onore: i generali stessi si trovavano impotenti nelle mani delle legioni. Il proletariato italico, a lungo sfruttato e vessato, si prendeva quella che riteneva essere la sua giusta parte. Si compí stavolta una rivoluzione sociale il cui primo stadio fu inteso a procurare denaro per la guerra, e il secondo a ricompensare le legioni cesariane dopo la vittoria.

Le guerre e la paura di tassazioni o di confische fanno sparire il denaro. Si trattava ora di farlo saltare fuori di nuovo. Il capitale poteva lasciarsi attrarre solo dalla prospettiva di buoni investimenti. Perciò i capi cesariani s’impadronirono di case e di possedimenti per immetterli sul mercato. Aderenti alla fazione stessa, abili neutrali, liberti della classe mercantile valorizzarono il proprio denaro investendolo solidamente in proprietà terriera. I liberti, come sempre, si ingrassarono con il sangue dei cittadini40.

Le proscrizioni possono egregiamente essere considerate, sia negli scopi sia nella loro essenza, come una particolare forma di tributo imposto al capitale. I nobiles e gli avversari politici venivano in testa negli elenchi, come al tempo delle proscrizioni di Silla, ma il grosso è costituito dai nomi di oscuri senatori o cavalieri. Perché i nobiles non erano necessariamente i piú facoltosi fra i cittadini. Ed erano gli uomini ricchi, di qualsiasi strato sociale, i veri nemici dei triumviri. Concordi, senatori e uomini d’affari avevano difeso l’ordine esistente e impedito la ricostituzione dell’antico popolo romano mediante una piú equa distribuzione della proprietà terriera in Italia. Adesso erano compagni di sventura. Alla fine, erano giunti giorni tristi per i beneficiari di Silla. I triumviri proclamarono una vendetta in piena regola contro i ricchi41, anche grigie figure di senatori inefficienti o pacifici cavalieri che si estraniavano con ogni cura dalla politica. Ciò non serví a proteggerli.

Varrone, ad esempio, era un vecchio pompeiano, al momento politicamente innocuo, ma era anche proprietario di grandi tenute42 e cosí pure Lucilio Irro, consanguineo di Pompeo, ricordato per le sue peschiere43. Stazio, l’ottuagenario sannita che era sopravvissuto al bellum Italicum ed era diventato senatore romano, ora perí a causa della sua ricchezza44. Lo stesso fu di Marco Fidustio, che era stato proscritto da Silla, e del famigerato Gaio Verre, esule facoltoso45. Anche il cavaliere Calido aveva delle proprietà, in Africa46. Cicerone, anche se cronicamente in difficoltà con il denaro contante, era notevolmente ricco: le sue ville di campagna e la sua casa di città, quasi un palazzo, che un tempo era stata proprietà di Livio Druso, invitavano, anzi esortavano alla confisca47.

Ma i tributi imposti al capitale spesso falliscono gli scopi che si prefiggono. Si vide subito che gli introiti erano deludenti. Infatti, per onestà o per precauzione, la gente si rifiutava di acquistare le tenute quando venivano immesse sul mercato. Cosí cresceva il valore della moneta. I triumviri allora imposero un tributo ai possedimenti di ricche matrone, suscitando un’indignata protesta48. In seguito alle intimidazioni di una delegazione di signore romane, capeggiate da un’importante personalità repubblicana, la figlia dell’oratore Ortensio, i triumviri ridussero un po’ le loro richieste, ma non abbandonarono il sistema. Furono anzi inventate altre nuove e massacranti tasse – ad esempio si prelevò un’annualità di entrate da tutti coloro che possedevano censo equestre49 e al principio dell’anno nuovo fu compilata una nuova lista soltanto per la confisca di beni immobili50.

Finora, a Roma, il gioco politico era stato finanziato dalle prede ricavate nelle province da senatori e cavalieri, in concorrenza o in società. I senatori le impiegavano in magnificenza per se stessi e in divertimenti per la plebe romana, mentre i cavalieri avevano accumulato i loro utili e acquistato proprietà terriere. Il cittadino romano, in Italia, non era soggetto a tassazione alcuna, diretta o indiretta, ma adesso Roma e l’Italia dovevano pagare le spese della guerra civile, in denaro e in terre. Non c’era altra fonte a cui i cesariani potessero attingere, dato che le province d’Occidente erano esauste e le entrate dell’Oriente erano nelle mani dei repubblicani. In Italia dunque si doveva trovare il denaro necessario per pagare l’esercito permanente dei cesariani, che annoverava qualcosa come quarantatre legioni. Questo quanto ai bisogni immediati. Per il futuro, poi, per ricompensare le legioni che sarebbero state condotte contro i repubblicani, i triumviri misero da parte i territori di diciotto fra le piú ricche città d’Italia51. Già l’accaduto era abbastanza grave, ma dopo la vittoria dei cesariani sarebbe venuto il secondo atto della rivoluzione sociale.

Le fondamenta del nuovo ordine erano cementate con il sangue dei cittadini e l’armatura era costituita da un dispotismo tale al cui confronto la dittatura di Cesare appariva come un’età dell’oro52. Assottigliato dalla guerra e dalle proscrizioni, il Senato fu ora riempito fino a traboccare di creature dei triumviri: in breve tempo fu destinato ad annoverare oltre mille membri53. Se le nomine del dittatore erano state salutate da disprezzo e derisione, non avrebbero però mai potuto competere con l’ignominia dei nuovi senatori del periodo triumvirale. Tra essi si sarebbero potuti scoprire non solo forestieri o persone di bassa origine e di attività infamanti – addirittura schiavi fuggiaschi54. Allo stesso modo che nel reclutamento del Senato, fu ora bandita ogni norma e ogni convenienza nella scelta dei magistrati, che venivano nominati, non piú eletti. Cesare aveva creato sedici pretori: riforma ragionevole, e anzi necessaria. Un solo anno del triumvirato ne vide invece nientemeno che sessantasette55. I triumviri introdussero ben presto l’uso di nominare piú coppie di consoli per un solo anno e di designarli con grande anticipo.

Di consolari e di persone dotate di autorità in Senato c’era un’impressionante penuria, cosa che faceva tornare alla mente i giorni in cui Cinna spadroneggiava a Roma. Nel dicembre del 44 a.C. il Senato arrivava a contare soltanto diciassette ex consoli, e la maggior parte era o assente da Roma, o di salute precaria, o estranea a qualsiasi interesse politico56. Nello spazio di un anno si ebbero tre perdite, Servio Sulpicio Rufo, Trebonio e Cicerone, senza notevoli accessioni: Irzio, Pansa e Dolabella erano caduti in battaglia e il console Quinto Pedio venne a mancare quando da poco era entrato in carica, prostrato dall’onta e dall’orrore, si disse, di fronte a quelle proscrizioni che toccava a lui annunciare57. Se si escludono i tre potentati, i consolari viventi assommavano ora a dodici al massimo, se non ancora meno. Publio Vatinio celebrò un trionfo nel 42 a.C. 58, lo zio di un triumviro, Gaio Antonio, divenne censore lo stesso anno. Poi scompaiono entrambi59. Lucio Pisone e Lucio Cesare, due persone perbene, cadono completamente nell’oblio. Filippo e Marcello, che avevano sostenuto la loro parte a favore dell’erede di Cesare ed erano serviti allo scopo, si trassero ora in disparte per morire in pace. Il fratello di Lepido, il proscritto Paullo, si ritirò a Mileto e visse per un certo tempo indisturbato60.

Della supposta dozzina di consolari sopravvissuti, soltanto tre hanno diritto a essere ricordati nella storia successiva, e soltanto uno per un lungo periodo di tempo. Il rinnegato della fazione catoniana, Publio Servilio, ottenne il premio dell’intrigo e dell’ambizione ed ebbe un secondo consolato dai triumviri (41 a.C.) come aveva avuto il primo da Cesare, dopo di che non si sente piú parlare di lui. Il seguace di Antonio, Quinto Fufio Caleno, ebbe un comando militare e poi morí nel 40 a.C. Solo il nobilis cesariano Gneo Domizio Calvino protrasse la sua attiva carriera oltre tale data, il solitario relitto di un passato non molto lontano.

Meno spettacolari della decadenza dei principes, ma non meno deplorevoli, erano i vuoti all’interno di altre classi e ordini. Molti nobiles, sia ex pompeiani sia seguaci di Cesare, banditi dall’Italia, erano con i liberatori o con Sesto Pompeo. Con Pompeo trovavano una via di scampo, con Bruto e Cassio trovavano una fazione e una causa da difendere, eserciti composti da legioni romane, e la speranza di vendetta.

Quando la guerra civile sembrava soltanto un contrasto di fazioni della nobilitas romana, molti giovani capaci e illustri scelsero Cesare al posto di Pompeo e dell’oligarchia. Ma non avrebbero mai sopportato i sedicenti eredi politici di Cesare, nemici dichiarati della loro stessa classe. Gli anziani erano morti, nel disonore o nell’inazione, e i giovani nobiles andarono in massa al campo di Bruto e Cassio, con l’entusiasmo o con il coraggio della disperazione. Sei anni prima, la causa della repubblica oltremare era rappresentata da Pompeo, da un gruppo di consolari alleati fra loro e dalla fazione catoniana61. Adesso i Metelli, gli Scipioni, i Lentuli e i Marcelli erano in penombra, poiché i capifamiglia erano quasi tutti scomparsi, lasciando pochi eredi62. Non c’era neanche un uomo di rango consolare in tutto il raggruppamento politico che ora faceva capo e si raccoglieva attorno ai giovani della fazione di Catone, quasi tutti imparentati con Marco Bruto.

Quando lasciò l’Italia, Bruto fu accompagnato o seguito da parenti come Gneo Domizio Enobarbo e Marco Licinio Lucullo63, da seguaci politici come l’inseparabile Favonio, da amici personali e agenti di rango equestre come il banchiere Gaio Flavio, che non aveva cuore per la guerra, ma che gli fu fedele sino alla fine64. Ad Atene trovò accoglienza favorevole e appoggio tra la gioventú romana che là compiva gli studi superiori: figli di senatori come Lucio Bibulo (che era anche suo figliastro) e Marco Cicerone65, o anche persone di condizione meno elevata66. In seguito aderirono alla sua causa anche magistrati cesariani, primi fra tutti Ortensio, proconsole della Macedonia, e i questori uscenti d’Asia e di Siria67. Dall’Italia giunsero simpatizzanti, fra cui Marco Valerio Messalla, intelligente e illustre giovane di nobile casata68. Tre generali cesariani si unirono a Cassio in Siria69. Trebonio, proconsole d’Asia, era stato condannato a morte da Dolabella, ma il suo questore Publio Lentulo, figlio di Spintere, agiva con una flotta a favore della repubblica70. Inoltre, la maggior parte degli uccisori di Cesare aveva senza dubbio lasciato l’Italia molto presto, e la fazione fu ulteriormente rafforzata dall’arrivo promiscuo di nobili repubblicani o pompeiani, vecchi e giovani71.

La fazione cesariana, benché fosse ora ricostituita in seguito a singolari vicissitudini, aveva subito gravi perdite di uomini capaci e illustri e rivelava il proprio carattere rivoluzionario tanto nella sua composizione quanto nella sua politica. I triumviri avevano espulso dall’Italia non soltanto i nobiles, loro avversari politici, ma anche le loro vittime, uomini delle città italiche preminenti per censo e considerazione.

I mutamenti e i decessi sono poi massimamente evidenti fra i comandanti di eserciti. Dell’imponente schiera di legati di Cesare al tempo delle guerre galliche72, pochi erano ancora in vita. Dopo l’instaurazione del triumvirato, ne troviamo solo quattro che detengono un alto comando. E, tra questi, Tito Sestio e Quinto Fufio Caleno presto scompaiono: restano soltanto Antonio e Planco. Naturalmente, i governatori di province e i comandanti delle guerre civili di nomina dittatoriale si trovano in una situazione migliore73, ma almeno due di loro, passando ai liberatori, accorciarono la loro vita74.

Pochi davvero sono coloro che, già appartenenti al Senato prima dello scoppio della guerra civile, raggiungono la massima onorificenza durante la dominazione dei triumviri. Il consolato tocca per lo piú ai piú nuovi fra i nuovi, senatori nominati dal dittatore o designati subito dopo la sua morte, quasi tutti ignoti alla storia prima del 44 a.C. Ventidio e Carrinate guidano il gruppo e inaugurano un’epoca che si rivela appieno nei suoi consoli, come prima si era rivelata l’ultima, transitoria, preminenza dell’oligarchia: strani nomi dalle radici o dalle desinenze barbariche invadono e deturpano i Fasti del popolo romano.

Entra in campo una nuova generazione di comandanti militari, per lo piú con nomi non latini. Alcuni avevano avuto un comando autonomo sotto Cesare: se di Allieno e Staio ben presto non si sentí piú parlare, Gaio Calvisio Sabino rimane in costante ascesa75. Altri, facendosi avanti da precedenti posizioni subordinate, diedero segno e garanzia di successo, ma non sopravvissero. Saxa e Fangone erano destinati a essere tagliati fuori sul piú bello, defraudati del consolato; il marso Ottavio, «il maledetto brigante», perí con Dolabella76; un altro marso, Pompedio Silone, ebbe solo breve gloria77. L’andatura era veloce, la competizione feroce. I ranghi dei militari erano colmati da continue nuove accessioni, via via che la guerra, l’insuccesso, il tradimento causavano vittime e aprivano dei vuoti. Emergono anche, ben presto, figure che dovevano resistere piú a lungo, assurgendo a rango consolare: Publio Canidio Crasso, Gaio Norbano Flacco (che apparteneva a una famiglia proscritta) e Gaio Sosio (probabilmente piceno), tutti uomini di cui non si era mai sentito parlare, prima della morte di Cesare78. Altra novità fu la misteriosa famiglia dei Cocceii, che diede ad Antonio generali e diplomatici, e in tal modo si assicurò due consolati79: la famiglia era originaria dell’Umbria80. Tutti costoro furono tra i primissimi ad avere pubblica menzione. Poi vengono alla ribalta altri comandanti e consoli: Lucio Cornificio, al quale ignoti precedenti procurarono le doti indispensabili al successo; Quinto Laronio, ricordato solamente come ammiraglio, e Tito Statilio Tauro, una tempra eccezionale81. Altri nuovi consoli restano misteriosi: Lucio Caninio Gallo, Tito Peduceo, Marco Erennio piceno e Lucio Vinicio, i quali non hanno lasciato memoria alcuna di servigi prestati ai padroni di Roma, bensí la prova unica e sufficiente della presenza del loro nome sui Fasti82.

Fra gli homines novi della rivoluzione, gli antoniani Decidio, Ventidio e Canidio, tutti famosi per vittorie o sconfitte nelle regioni orientali, divennero un trinomio proverbiale83. Il che si spiega, data la rarità e la terminazione non latina dei loro gentilizi. Ma gli antoniani non erano i peggiori. Prospettive inaudite arridevano ora agli avidi, ai violenti, alle persone prive di scrupoli: anche esser giovani costituiva una raccomandazione, quando essere privi di tradizione o di sostanze avrebbe potuto esser un intralcio. Fin da principio la fazione di Ottaviano attrasse coloro che non avevano niente da perdere con la guerra e con il rischio: fra i «membri fondatori» c’erano Agrippa e Salvidieno Rufo. Lo stesso Ottaviano aveva da poco superato la ventina e fra lui e Agrippa c’era solo un anno di differenza. Salvidieno, invece, il primo in ordine di tempo e di valore fra i suoi generali, di origini non molto piú distinte di Agrippa, era piú grande di lui sia di anni sia di esperienza militare. Il suo esempio dimostrava che la carica di senatore non era qualifica indispensabile per comandare eserciti composti da legioni romane. Ma Salvidieno non era un caso isolato: stranieri e liberti potevano competere con i cavalieri per il comando militare nelle guerre della rivoluzione84.

La repubblica era stata abolita. Qualunque fosse il risultato della lotta armata, non poteva piú essere restaurata. Dominava il dispotismo, sostenuto dalla violenza e dalle confische. Gli uomini migliori erano morti o proscritti. Il Senato era ricolmo di gente vile, e il consolato, un tempo riconoscimento di virtú civiche, costituiva ora la ricompensa dell’astuzia e del delitto.

«Non mos, non ius»85: cosí il periodo potrebbe essere descritto. Ma i cesariani protestavano un diritto e un dovere che trascendeva tutto il resto: la vendetta di Cesare. La pietas prevalse e dal sangue di Cesare nacque la monarchia.