Il primo giorno del nuovo anno, Senato e magistrati prestarono solenne giuramento di rispettare gli atti di Cesare dittatore. In piú, Cesare fu annoverato fra gli dèi dello Stato romano1. Nel foro si sarebbe costruito un tempio alla nuova divinità, al divus Iulius, e un’altra legge dava disposizioni per il culto nelle città italiche2. Ora il giovane Cesare poteva presentarsi come divi filius.

All’insegna della vendetta di Cesare, gli eserciti cesariani si approntavano alla guerra. I capi decisero di impiegare ventotto legioni. Otto le spedirono come avanguardia oltre l’Adriatico agli ordini di Gaio Norbano Flacco e Lucio Decidio Saxa: marciarono lungo la via Egnazia attraverso la Macedonia, superarono Filippi e si attestarono in una posizione favorevole. Antonio e Ottaviano intendevano raggiungerli, mentre il collega Lepido veniva lasciato indietro con l’incarico nominale del governo di Roma e dell’Italia. Il controllo di fatto rimaneva ad Antonio, poiché uno dei suoi partigiani, Caleno, sembra essere stato al comando di due legioni stanziate in Italia3, mentre Pollione teneva la Cisalpina con un forte esercito4.

Sul principio vi furono dei ritardi. Ottaviano fece una diversione per affrontare Sesto Pompeo, che si era ormai assicurato il possesso di tutta la Sicilia, mandandogli contro Salvidieno5, ma la carenza di navi rese impossibile un’invasione dell’isola. Quanto ad Antonio, era bloccato a Brindisi da una flotta nemica agli ordini dell’ammiraglio repubblicano Staio Murco. Quando arrivò Ottaviano, la squadra cesariana fu in grado di forzare il passaggio, ma la loro supremazia marittima ebbe vita breve. Pompeo non intervenne, ma Gneo Domizio Enobarbo, sopraggiunto con gran parte della squadra di Bruto e Cassio, portò rinforzi a Murco e conquistò il controllo completo dei mari fra l’Italia e i Balcani. Le comunicazioni dei cesariani erano interrotte: si trovarono costretti ad andare avanti e a sperare in una pronta decisione sulla terraferma. Antonio incalzava, ma il giovane Cesare, prostrato da una malattia, indugiava a Durazzo.

Nel frattempo Bruto e Cassio s’erano dati da fare per raccogliere le ricchezze e gli eserciti d’Oriente. Non molto tempo dopo la battaglia di Modena, Bruto aveva lasciato la costa dell’Albania e aveva marciato verso oriente. Con una campagna in Tracia si era assicurato il denaro e la fedeltà dei capi indigeni. Poi, passato in Asia, si era incontrato con Cassio a Smirne verso la fine del 43 a.C. Cassio intanto aveva un successo di cui dare notizia: si era scontrato con Dolabella, l’aveva sconfitto in battaglia e assediato a Laodicea in Siria. Disperato, Dolabella si era tolto la vita: Trebonio cosí era stato vendicato. A eccezione dell’Egitto, la cui regina aveva aiutato Dolabella, e della resistenza offerta da Rodi e dalle città della Licia, la causa cesariana in Oriente aveva subito un’eclissi totale.

Bruto e Cassio si consultarono ora sulla guerra. Anche quando Antonio si era unito a Lepido e Planco, Bruto forse non aveva abbandonato ogni speranza in un accomodamento: con l’Oriente e l’Occidente cosí equilibratamente distribuiti fra repubblicani e cesariani, la preoccupante prospettiva di una lotta lunga e rovinosa era certo un potente incentivo alla concordia. Bruto e Antonio avrebbero anche potuto farsi reciproche concessioni e venire a un compromesso in favore della pace e di Roma: la vendetta di Cesare e lo sterminio dei liberatori non rientravano nella politica di Antonio al tempo del suo consolato. Ma con l’erede di Cesare non poteva esserci né accordo né pace6. Quando i capi cesariani si unirono per instaurare una dittatura militare e promuovere una guerra di classe, non fu piú il caso di esitare. Sotto quest’impressione anche l’aristocratico, il patriota romano dovette ora prescindere dai vincoli di amicizia, di classe, di carità patria, e indursi a infliggere la pena di morte al fratello di Antonio. E quando Bruto sentí della fine di Cicerone, non provò tanto dolore quanto vergogna per Roma7.

Per buone ragioni Bruto e Cassio decisero di non portare la guerra in Italia durante l’inverno e neanche d’estate, e di impiegare invece il loro tempo a organizzare i mezzi di cui disponevano e a raccogliere altri fondi in denaro: parecchi mesi dell’anno seguente furono trascorsi punendo i Rodiesi e i Lici e rastrellando le ricchezze dell’Asia. Tornarono poi a riunirsi a Efeso. Nella tarda estate del 42 a.C. i loro eserciti attraversavano l’Ellesponto, diciannove legioni e numerose reclute inviate dai principi vassalli d’Oriente.

Con il senno di poi è facile aver ragione: la causa repubblicana, si sostiene, era condannata fin da principio, la sconfitta era inevitabile. Non solo: Bruto, avvertito dello spettro di Cesare, sapeva come sarebbero andate le cose ed era sfiduciato. Al contrario, Cassio era calmo e deciso alla fine. Dopo il trionfo dei generali cesariani e l’instaurazione delle proscrizioni sapeva qual era la sua situazione.

Bruto, personalmente, non aveva fama di soldato, di condottiero, ma ufficiali e soldati conoscevano e rispettavano i comprovati meriti di Cassio. È vero che il meglio delle legioni era formato da veterani di Cesare, tuttavia i soldati avevano ben accolto Cassio quando, piú di diciotto mesi prima, era giunto in Siria, e si erano raccolti subito attorno a lui. Questo era l’unico punto debole delle forze repubblicane: le legioni si sarebbero messe contro il nome e la fortuna di Cesare? Con la sua cassa di guerra Cassio diede agli uomini millecinquecento denarii a testa e promise altro ancora8.

Quanto al resto, le prospettive di Bruto e Cassio non lasciavano certo a desiderare. Il loro piano era semplice: fermare il nemico ed evitare la battaglia. Poiché essi dominavano tanto il mar Ionio quanto l’Egeo, se fossero riusciti a prolungare la campagna fino ai mesi invernali, la mancanza di rifornimenti avrebbe finito per disperdere le legioni cesariane sulle desolate montagne della Macedonia o per costringerle nei ristretti confini di una Grecia impoverita.

Bruto e Cassio mossero verso occidente. Battendo e respingendo le avanguardie dei cesariani agli ordini di Norbano e Saxa, giunsero nelle vicinanze di Filippi, dove si attestarono in una posizione forte a cavallo della via Egnazia, inattaccabile sui fianchi, che verso nord si appoggiavano alle montagne e verso sud a una palude. Bruto si accampò all’ala destra, Cassio all’ala sinistra. E cosí ebbero modo di unificare e rinsaldare le loro linee.

A questo punto arrivò Antonio. Aprendosi una strada attraverso la palude a sud attorno al fianco di Cassio, alla fine lo costrinse al combattimento. Ottaviano intanto si era fatto avanti: per quanto la sua salute fosse precaria e benché non fosse mai stato un soldato, non poteva correre il rischio di lasciare ad Antonio tutto l’onore della vittoria. La battaglia non fu decisiva: Bruto, sul fianco destro, travolse le linee cesariane e conquistò il campo di Ottaviano, che però non si trovava lí. I suoi movimenti sono avvolti da un certo mistero: secondo la sua versione, obbedí a un sogno premonitore che si era presentato al suo medico favorito9. L’altra ala dei cesariani, invece, comandata da Antonio, ruppe il fronte di Cassio e saccheggiò il suo campo. Cassio perse troppo presto la speranza. Senza sapere del brillante successo di Bruto sull’ala destra, ingannato forse, come dice una delle fonti, dalla vista difettosa10 e credendo che tutto fosse perduto, si gettò sulla spada. Questa fu la prima battaglia di Filippi (23 ottobre)11.

Entrambe le parti si ritirarono, malconce e depresse. Seguirono tre settimane di stasi e di caute manovre, durante le quali il vantaggio passò a poco a poco ai cesariani. Altrimenti la loro situazione sarebbe stata disperata, poiché il giorno della prima battaglia di Filippi gli ammiragli repubblicani del mar Ionio avevano intercettato e distrutto la flotta di Domizio Calvino, il quale stava trasportando due legioni a Durazzo12. Non fu lo spettro di Cesare, ma un caso imponderabile, la perdita di Cassio, che portò al declino della repubblica. Bruto avrebbe potuto vincere una battaglia, ma non una campagna. Eccitati dalle provocazioni, dalla propaganda, dalle sfide mosse dai cesariani, insofferenti agli indugi, ufficiali e soldati reclamavano che tentasse nuovamente la sorte in battaglia. Inoltre i principi orientali e i loro reparti stavano disertando: alla fine Bruto cedette.

Dopo un accanito e sanguinoso combattimento, l’esercito cesariano ebbe la meglio. Ancora una volta le terre dei Balcani assistettero a una strage di romani e furono sepoltura degli eserciti della repubblica: «Romani bustum populi»13. Questa volta la decisione era definitiva e irrevocabile: era l’ultima lotta della libera repubblica. D’ora in poi null’altro che contese di despoti sul cadavere della libertà. Gli uomini che caddero a Filippi combatterono per un’idea, una tradizione, una classe: ristrette, imperfette, consunte, ma ciononostante l’anima e la vita di Roma.

Nessuna battaglia di tutte le guerre civili costò tanto sangue all’aristocrazia14. Tra i caduti si annoverarono i piú bei nomi di Roma. Nessun consolare, è vero, perché i migliori dei principes erano già morti, e i pochi sopravvissuti di tale ordine stavano vergognosamente acquattati a Roma, dimenticati da tutti, oppure comandavano gli eserciti che distrussero la repubblica a fianco dei loro nuovi alleati e pari grado, Ventidio e Carrinate. Ma sul campo di Filippi caddero Ortensio il giovane [figlio dell’oratore], ex cesariano, il figlio di Catone, un Lucullo, un Livio Druso15. Bruto, loro capo, si tolse la vita. Virtus aveva dimostrato di essere una parola vuota16.

Antonio, vincitore, si tolse di dosso il mantello di porpora e lo gettò sul cadavere di Bruto17: un tempo erano stati amici. Forse, mentre contemplava tristemente quel cittadino romano morto, si sarà presentata alla sua mente la tragedia della sua stessa vita. Bruto l’aveva predetta: Antonio, aveva detto, avrebbe potuto essere annoverato con Catone, con Bruto, con Cassio, ma si era consegnato nelle mani di Ottaviano e, alla fine, avrebbe pagato questa follia18.

Allorché i principali sopravvissuti della causa repubblicana furono condotti dinanzi ai generali vittoriosi, si dice che essi salutarono Antonio come imperator, ma per Ottaviano ebbero espressioni di disprezzo. Alcuni di loro furono messi a morte19. Un gruppo di nobiles si era rifugiato sull’isola di Taso (fra gli altri Lucio Calpurnio Bibulo e Marco Valerio Messalla20). In seguito a trattative, conclusero un’onorevole capitolazione con Antonio e alcuni di loro entrarono al suo servizio: uno degli amici di Bruto, il fedele Lucilio, rimase con Antonio fino alla fine21. Gli altri, non disposti alla riconciliazione o privi di ogni speranza, riuscirono a fuggire e raggiunsero gli ammiragli della repubblica Murco e Enobarbo sullo Ionio e Sesto Pompeo in Sicilia22.

Era una grande vittoria. I Romani non avevano mai combattuto prima di allora una battaglia come quella23. La gloria andò ad Antonio e a lui restò per dieci anni. Ora i capi cesariani dovevano soddisfare le pretese dei soldati con terre e denaro. Ottaviano sarebbe tornato in Italia per effettuare lo stanziamento dei veterani. Antonio avrebbe sistemato le cose in Oriente e riscosso i fondi indispensabili. Quanto alle province d’Occidente, disposero quanto segue, trattando evidentemente Lepido come un’entità trascurabile. La Gallia Cisalpina, decisero, invocando o inventando una proposta di Cesare dittatore, non doveva essere piú una provincia ma doveva essere sottratta alla competizione politica facendone una parte dell’Italia24. Cosí Antonio promise di cedere la Cisalpina: continuava comunque a detenere la Comata e prese a Lepido la Narbonense. Lepido fu spogliato anche della Spagna, a vantaggio di Ottaviano, dato che la maggior parte della porzione di quest’ultimo era per il momento nelle mani di Pompeo. L’Africa, se Lepido si fosse lamentato, avrebbe potuto costituire la sua parte. Questi reciproci impegni furono debitamente messi per iscritto, precauzione necessaria, anche se non fu certo di ostacolo a disonestà e contese. Antonio partí ora per le province d’Oriente, lasciando al giovane alleato l’arduo e impopolare compito di effettuare le confische in Italia.

Vincitore, ma senza la gloria e l’ottimismo della vittoria, Ottaviano rientrava in Italia. Per strada, si ammalò di nuovo e si fermò a Brindisi, essendo troppo debole per andare avanti25. Correvano voci insistenti che fosse morto, ma rallegrarsi era prematuro. Senato e popolo dovevano invece prepararsi a celebrare la giornata di Filippi. Malandato, depresso e sotto cattivi auspici, Ottaviano mise mano alla confisca delle proprietà italiche e allo stanziamento per i veterani di Filippi, i resti di ventotto legioni. La parte toccata all’erede di Cesare nell’attività di governo e nella politica dei potentati era difficile e sgradita al popolo, e pressoché fatale a lui stesso. Qualunque valutazione dei fatti non avrebbe potuto far prevedere che egli sarebbe uscito rafforzato e trionfante dai multiformi casi di quell’anno carico di eventi.

Le diciotto città italiche destinate a soddisfare le richieste delle truppe non tardarono a protestare apertamente: fecero presente che l’imposta avrebbe dovuto essere estesa ad altri e distribuita in modo uniforme. Subito altre città, allarmate, si unirono alla massa degli scontenti. Proprietari di terre, con le famiglie, sciamarono a Roma per supplicare e far sentire la propria voce26. La plebe urbana si uní volentieri alle manifestazioni contro l’impopolare tirannia dei triumviri. In Senato, Ottaviano propose provvedimenti di sgravio e cercò il compromesso, con scarsi risultati, a parte quello di suscitare i sospetti dei soldati: ne nacquero tumulti ed egli stesso rischiò la vita.

Roma e l’Italia tutta erano in subbuglio, con combattimenti sanguinosi nelle strade fra soldati e civili27. Le città e i magnati locali si armarono a propria difesa. L’opposizione a Ottaviano non era soltanto ribellione dell’opinione pubblica delle classi medie contro il dispotismo militare del triumvirato, o interessata alleanza dei possidenti contro un avido proletariato in armi, ma si fondeva con piú vecchi rancori e diventava espressione di un antico risentimento. Le contese politiche a Roma e le guerre civili in cui degenerarono erano combattute a spese dell’Italia. Vedendosi negate giustizia e libertà, l’Italia insorse contro Roma per l’ultima volta: non erano piú le fiere popolazioni dell’Appennino, come nel bellum Italicum, ma erano le piú prospere e civili regioni dell’Umbria, dell’Etruria, del territorio sabino che allora erano rimaste fedeli a Roma, ma che avevano combattuto per la causa mariana contro Silla. Adesso un nuovo Silla ne frantumò le forze e ne piegò lo spirito.

Da Lepido, collega nel triumvirato, e dal console Publio Servilio, Ottaviano non ricevette alcun aiuto. Fu anzi attivamente osteggiato dall’altro console, Lucio Antonio, che, con l’aiuto dell’animosa e imperiosa Fulvia, moglie di Marco Antonio, e del proprio agente Manio, tentò di sfruttare la situazione confusa a vantaggio del fratello lontano28. Facevano il doppio gioco. Di fronte ai veterani addossavano ogni responsabilità a Ottaviano, insistendo che la decisione definitiva fosse lasciata ad Antonio, in grazia del preponderante prestigio goduto dal vincitore di Filippi. D’altro canto, si atteggiavano a difensori della libertà e dei diritti degli spossessati, non senza riferimenti al nome tanto popolare di Marco Antonio e dichiarazioni di pietas29. Fulvia conosceva meglio di chiunque altro il carattere del marito: egli non avrebbe voluto né potuto rimangiarsi gli impegni di alleanza nei confronti di Ottaviano. Doveva essere lei a costringerlo, screditando e magari distruggendo il condottiero cesariano rivale, conquistando in tal modo per il consorte lontano e ignaro quel potere assoluto che egli sembrava assai poco desiderare.

Ottaviano, nel perseguire la linea politica della fazione cesariana, correva il rischio di soccombere a un’alleanza di cesariani e di repubblicani in tutto analoga a quella che aveva suscitato circa tre anni prima contro Antonio. Allarmato, spedí in missione urgente in Siria il suo fidato agente Cecina di Volterra assieme a Lucio Cocceio Nerva, amico personale di Antonio30. Cecina fece ritorno senza un messaggio preciso, ma Nerva rimase con Antonio.

Via via che l’anno procedeva, la situazione diveniva sempre peggiore. Le simpatie delle truppe tornavano a Ottaviano, con il quale stavano chiaramente i loro interessi. Ottaviano per parte sua divorziò dall’indesiderata e inviolata sposa, la figlia di Fulvia. Ma il console e Fulvia, ben lungi dal cedere, proseguirono, in base a pretese istruzioni ricevute da Marco Antonio, la propaganda repubblicana. Intervennero gli ufficiali e convocarono una conferenza. Si raggiunse un compromesso, ma le clausole piú importanti non furono mai perfezionate. La guerra era nell’aria. Entrambe le parti adunavano truppe e mettevano mano ai tesori dei templi. Il console Lucio Antonio si ritrasse nella piazzaforte di Preneste, nelle vicinanze di Roma. A questo punto furono i militari a fare una mossa: veterani cesariani da Ancona, vecchi soldati di Antonio, inviarono una deputazione e concordarono un incontro degli avversari a Gabii, a metà strada tra Roma e Preneste. L’incontro fallí sia per la reciproca sfiducia sia a causa di uno scambio di dardi31. Manio esibí o inventò una lettera di Marco Antonio che sanciva la guerra, se fatta in difesa della sua dignitas32.

Il console marciò su Roma sbaragliando facilmente Lepido. Egli fu accolto dal popolo e dal Senato con sincero entusiasmo, quale non aveva accompagnato certo alcuno dei suoi piú recenti predecessori quando si trovarono a liberare Roma dal dominio di una fazione. Ma Lucio Antonio non tenne a lungo la città: avanzò verso settentrione con la speranza di ricongiungersi con i generali di suo fratello che tenevano tutte le province galliche.

Ottaviano, che aveva con sé Agrippa, si era ritirato nell’Etruria meridionale. La sua situazione era precaria. Aveva già richiamato il suo generale Salvidieno, che era in marcia per la Spagna con sei legioni per assumere il governo di quella regione. Ma anche se Salvidieno fosse ritornato in tempo e i loro eserciti riuniti avessero avuto la meglio affrontando Lucio Antonio, questa fra tutte era ancora la minore difficoltà. Egli avrebbe potuto benissimo esser sopraffatto dai generali antoniani, forti del prestigio e del numero di legioni.

Ma gli antoniani erano separati da grandi distanze e divisi negli intenti. Nella Gallia Cisalpina c’era Pollione, con un esercito di sette legioni. La decisione di abolire quella provincia e unire il territorio all’Italia non si era ancora concretizzata, a quanto pare, forse a causa della resistenza opposta proprio da Pollione, che fin dal principio dell’anno aveva assunto un atteggiamento ambiguo e minaccioso. Per un certo tempo egli aveva rifiutato di lasciar passare attraverso la Cisalpina Salvidieno diretto in Spagna33 e ora poteva anche precludere il ritorno al miglior generale, e insieme ultima speranza, di Ottaviano. La provincia personale del triumviro, tutta la Gallia al di là delle Alpi, era tenuta a suo nome da Caleno e Ventidio, con un gran numero di legioni, e anche loro avevano ostacolato Salvidieno34.

Ma non era tutto: le flotte repubblicane dominavano i mari, con Enobarbo nell’Adriatico e Murco ora riunito a Sesto Pompeo. Questi, a quanto sembra, si lasciò sfuggire l’occasione propizia, e non fu la sola volta. L’impegno concorde delle forze repubblicane e antoniane in Italia e sui mari adiacenti avrebbe definitivamente stroncato Ottaviano; ma i suoi eterogenei avversari mancavano di unità di comando, di unità di intenti. Inoltre, i generali di Antonio in Italia e nelle province occidentali, privi di istruzioni, nutrivano dubbi sulla sincerità del fratello e della moglie di lui.

Salvidieno, di ritorno dalla Spagna, si fece strada attraverso la Cisalpina. Pollione e Ventidio lo seguirono, con calma minacciosa, tallonandolo. La guerra era già scoppiata in Italia35. L’Etruria, l’Umbria e la Sabina assistettero a un succedersi confuso di marce e di contromarce, di schermaglie e di assedi. Gaio Furnio tentò di difendere Sentino per Antonio, ma Salvidieno conquistò la città e la distrusse totalmente36. Norcia, cosí appartata in territorio sabino, fece resistenza per la propria libertà sotto Tisieno Gallo, ma fu costretta a capitolare37. Questi però non erano che episodi: l’argomento centrale era Lucio Antonio, che tentò di aprirsi un varco verso settentrione. Agrippa e Salvidieno sventarono la sua manovra. Allora il console, assieme ai generali sconfitti Furnio e Tisieno e a un certo numero di partigiani antoniani o repubblicani, si gettò nella piazzaforte di Perugia e si predispose ad affrontare un breve assedio, confidando in un pronto intervento da parte di Pollione e di Ventidio. Ma fu presto disingannato. Ottaviano investí immediatamente Perugia con un complesso anello di fortificazioni. Poi, marciando verso nord-est con Agrippa, affrontò Pollione e Ventidio, che, indecisi e discordi, rifiutarono il combattimento e si ritirarono attraverso gli Appennini38. E l’aiuto dal Meridione non venne in tempo utile né con forze adeguate. Planco, un altro degli uomini di Antonio, che era occupato a sistemare dei veterani nei pressi di Benevento, reclutò truppe, secondo gli ordini di Fulvia39, mentre il repubblicano Tiberio Claudio Nerone alzava il vessillo della rivolta in Campania40. Planco marciò verso settentrione e si mise in posizione di attesa, come era appropriato al suo carattere, a Spoleto.

Nessun segno ancora dall’Oriente. A Perugia, il console proclamava di combattere per la causa di suo fratello, e i suoi soldati scrivevano il nome di Marco Antonio come loro imperator sui proiettili delle fionde41; mentre quelli degli assedianti recavano appelli al divus Iulius o indirizzi poco garbati nei riguardi di Fulvia e della testa calva di Lucio Antonio42. Non era meno sboccata la propaganda dei capi: Ottaviano, in versi di una «romana schiettezza», metteva in burla Antonio assente (non tralasciando una certa amante della Cappadocia) e insultava sua moglie Fulvia43. Inoltre, compose poesie di tradizionale oscenità su Pollione, il quale eluse la sfida con una pungente e sarcastica allusione all’uomo delle proscrizioni44.

Poiché dunque l’assedio continuava e la fame incombeva sui difensori, Ventidio e Pollione si risolsero a tentare il ricongiungimento con Planco e la liberazione di Perugia. Mentre erano in marcia attraverso gli Appennini, furono bloccati da Agrippa e Salvidieno a Foligno, a meno di trenta chilometri da Perugia, quando i loro falò potevano già essere scorti dagli assediati. Ventidio e Pollione erano pronti a combattere. La prudenza di Planco per loro era eccessiva45.

Ma non c’era fiducia reciproca nei consigli dei generali antoniani: il militaresco Ventidio sapeva bene che Planco lo aveva chiamato mulattiere e brigante, e Pollione odiava Planco. Ci fu però un fattore piú importante rispetto ai dubbi e ai dissensi dei generali: i loro soldati avevano sia una precisa sensazione su quali fossero i loro interessi sia un profondo disgusto nei confronti della guerra. Sarebbe stata una vera follia combattere per Lucio Antonio e per le classi possidenti d’Italia.

Cosí Pollione, Planco e Ventidio si separarono e si ritirarono, lasciando Perugia al suo destino. Dopo un’ultima sortita rimasta infruttuosa, Lucio Antonio venne alla resa (verso la fine di febbraio?) Ottaviano ricevette con onore il fratello del collega e lo spedí a fargli da governatore in Spagna, dove morí nel giro di poco46. La città di Perugia era destinata al saccheggio, ma i soldati furono disturbati dal suicidio di un eminente cittadino, la cui superba pira fu l’inizio di un incendio generale47. Questa fu la fine di Perugia, antica e ricca città degli Etruschi.

I prigionieri costituivano un problema. Molti illustri senatori e cavalieri avevano sposato la causa della libertà e della difesa delle loro tenute: presumibilmente non si fece nulla per impedire la fuga della maggior parte di essi. I restanti furono messi a morte e tra essi Tiberio Cannuzio, il tribuno che aveva presentato al popolo l’erede di Cesare quando aveva marciato su Roma la prima volta48. La morte fu anche la pena inflitta al consiglio municipale di Perugia, con l’eccezione, si dice, di un solo uomo, una persona astuta che a Roma si era assicurata un seggio tra i giurati che avevano condannato a morte gli uccisori di Cesare49. Questi delitti giudiziari furono trasformati dalla diffamazione e dalla credulità in un’ecatombe di trecento senatori e cavalieri romani sacrificati con solenne, religiosa cerimonia, alle idi di marzo, davanti a un altare dedicato al divus Iulius50.

In quale posizione si trovasse ora l’erede di Cesare, l’Italia lo apprese con gli orrori di Perugia e la vergogna di Norcia. Sul monumento eretto in memoria della guerra, la gente di Norcia pose un’iscrizione in cui proclamava che i loro morti erano caduti combattendo per la libertà. Ottaviano reagí imponendo una multa insostenibile51.

Intanto i generali di Antonio si disperdevano. Assieme a Fulvia, Planco fuggí in Grecia, disertando il suo esercito. Ventidio e Pollione invertirono la marcia dirigendosi verso la costa dell’Adriatico. La marcia e i movimenti di Ventidio sono un mistero. Pollione si ritirò verso nord-est e tenne per un certo tempo Venezia contro i generali di Ottaviano. Poi non sappiamo piú nulla, salvo che trattò con l’ammiraglio repubblicano Enobarbo, che controllava l’Adriatico con la sua flotta, e ottenne che appoggiasse Antonio52.

I compagni d’armi del giovane Cesare, il coetaneo Agrippa e Salvidieno Rufo, piú anziano di entrambi, avevano trionfato su tutti i pericoli. Nel confronto con la loro energia e risolutezza, i piú eminenti e sperimentati partigiani di Antonio erano crollati: due consolari, il militare Ventidio e il diplomatico Planco, e un console – perché era cominciato l’anno della gloriosa carica per Pollione.

Tuttavia Ottaviano non era certo giunto al termine delle difficoltà: era padrone dell’Italia, terra di carestia, desolazione e sfiducia, ma l’Italia era accerchiata da nemici. Antonio si avvicinava in forze da Oriente; Caleno, uomo di Antonio, teneva ancora tutta la Gallia al di là delle Alpi. Sulle coste, l’Italia era minacciata da oriente da Enobarbo, da meridione e occidente, da Pompeo. Come se questo non bastasse, tutte le sue province furono attaccate contemporaneamente: Pompeo, dopo aver cacciato Marco Lurio, conquistò la Sardegna53; nella Spagna Ulteriore, il generale di Ottaviano, Carrinate, dovette fronteggiare l’invasione di un principe mauretano istigato da Lucio Antonio e Fulvia54; in Africa l’ex centurione Fuficio Fangone, mentre si batteva con valore e destrezza in una confusa battaglia contro Tito Sestio, il governatore precedente, che era rimasto nella provincia, fu alla fine sopraffatto e ucciso55. L’erede di Cesare sarebbe stato ben presto in trappola e infine schiacciato: in questa direzione puntavano tutte le probabilità e le speranze dei piú.

In stato di emergenza, Ottaviano andò in cerca di aiuto dove poté, e tentò un accomodamento con il padrone del mare. Mandò Mecenate in missione diplomatica in Sicilia e comprovò i suoi sentimenti prendendo in moglie Scribonia56, sorella di quel Libone di cui Sesto Pompeo aveva sposato la figlia. Ma Pompeo, come fu ben presto evidente, era già in trattative con Antonio.

Ancora una volta il giovane Cesare fu salvato dalla fortuna che era incollata al suo nome. In Gallia opportunamente morí Caleno. Suo figlio, privo di esperienza o di fiducia, fu indotto a consegnare tutta la Gallia e undici legioni57. Ottaviano lasciò l’Italia per prendere in consegna questa gradita accessione: pose Salvidieno al comando della Gallia, fiducioso della lealtà del suo amico.

Quando fu di ritorno, verso la fine dell’estate, trovò che Antonio era sopraggiunto dall’Oriente e teneva sotto assedio Brindisi, con Enobarbo e Pompeo come aperti e collaborativi alleati. La vicenda di Perugia era stata tristemente mal condotta. Questa volta i nemici di Ottaviano avevano un capo. Sembrava inevitabile il ricorso alle armi per la definitiva attribuzione dell’eredità di Cesare, inevitabile per Roma la scelta fra due padroni. Quale dei due avesse la simpatia dell’Italia non era cosa su cui ci fossero dubbi; e, nonostante la perdita delle legioni galliche, tutte le probabilità di vittoria erano dalla parte del grande Antonio.