Le modeste origini della fazione di Ottaviano sono chiaramente rivelate dai nomi dei membri fondatori. Abbiamo via via notato le adesioni successive. Crebbe costantemente in numero e in dignità a mano a mano che l’erede di Cesare reclutava seguaci e amici nel campo degli avversari, finché, da ultimo, con la spoliazione di Antonio, non solo incamerò l’antica fazione cesariana ma ottenne l’adesione di un gran numero di repubblicani, e poté quindi mascherarsi da gruppo politico nazionale. Piú di settecento senatori accompagnarono il capo dell’Italia alla guerra di Azio, i piú recando in cuore disprezzo e odio per lui – tuttavia sospinti dal salutare istinto di ricavarne onori e vantaggi di carriera. E di questo numero imponente, ha affermato orgoglioso Augusto, non meno di ottantatre avevano già detenuto il consolato o sarebbero stati in seguito ricompensati di questo supremo riconoscimento1.

Cesare dittatore aveva aumentato il Senato ammettendovi suoi partigiani. Quel provvedimento e gli uomini prescelti non erano tanto scandalosi quanto si sostenne allora e in seguito. Cesare rispettava le cariche. Le promozioni piú vergognose avvennero in seguito, durante il governo arbitrario di un triumvirato, che piú che essere indifferente, era addirittura ostile ai privilegi di nascita e di stirpe. Il Senato si era ingrossato disordinatamente salendo a oltre mille membri. Affinché l’assemblea sovrana recuperasse dignità ed efficienza all’atto della restaurazione della repubblica, Ottaviano e Agrippa procedettero a un’epurazione nel 28 a.C.: circa duecento «elementi indegni» furono indotti a dimettersi mediante l’esercizio di pressioni morali2.

Ma il vero significato dell’epurazione, che gli storici ricordano con tanta serietà ed esaltano tanto ingenuamente, non sfuggí agli osservatori contemporanei. C’era un motivo ben preciso per ridurre i ruoli del Senato. Oltre trecento senatori avevano preferito Antonio e la repubblica al tempo del colpo di stato del 32 a.C. Alcuni di essi si erano immediatamente pentiti aggregandosi alla schiera di quei traditori che salirono ad alte cariche, come Crasso, Tizio e Marco Giunio Silano. Altri, risparmiati dopo la vittoria, conservarono la loro posizione e il loro rango, come Sosio e Furnio3. Scauro e Gneo Cinna non ebbero un trattamento di particolare favore – Scauro, alla pari di altri repubblicani e pompeiani, non arrivò mai al consolato, Cinna non ci arrivò prima che fossero trascorsi piú di trent’anni. Alcuni però morirono o scomparvero. Non si sa piú nulla del consolare Lucio Gellio Poplicola e di altri tre ammiragli di Antonio ad Azio4.

Occorrevano dei nobiles per dare lustro al Senato della riesumata repubblica – c’erano in giro veramente troppi homines novi. Forse per ostentare clemenza e magnanimità si concesse ad alcuni dei partigiani minori di Antonio di conservare il rango senatorio, almeno di nome. Appena ci fosse stato un censo, avrebbero perso il loro diritto, se avessero perduto i loro beni. Dopo Azio alcune città d’Italia furono punite per aver simpatizzato per Antonio con la confisca delle loro terre a beneficio dei veterani5. Non era il caso certo di avere la delicatezza di risparmiare, per rispetto alla loro dignità, le grandi proprietà terriere di trecento e piú senatori sleali o traviati: i magnati locali della fazione antoniana dei municipi italici avevano i loro avversari locali.

Un certo numero di vittime dell’epurazione faceva probabilmente parte di quella deplorevole classe di senatori che non era stata capace di evitare di decadere dalla sua posizione. Per il resto, l’alta assemblea ora scartava membri inutili o guasti, che non avevano modo di documentare la propria pietas verso il princeps, i propri servigi alla causa cesariana, o una protezione in alto loco. Rimanevano invece i partigiani cesariani, e i rinnegati fortunati, tutti uomini ai quali l’avventura, l’intrigo, l’audacia priva di scrupoli avevano arrecato le facili ricompense di un’età rivoluzionaria.

L’oscurità dei natali o l’origine provinciale non costituiva un impedimento. Diversi tra i grandi generali plebei erano morti – Salvidieno il traditore dell’amico e del capo, Canidio per la sua lealtà ad Antonio, Saxa ucciso dai Parti, Ventidio di morte naturale: se per pura fortuna o per migliore calcolo nel tradimento fossero sopravvissuti, avrebbero occupato un posto di primo piano fra i grandi anziani del nuovo Stato, onorati dal princeps e dal Senato, acclamati in pubblico, odiati in segreto.

Una discreta schiera di loro pari fu riservata a ulteriori onori e compensi, in prima fila Agrippa e Tauro, di ignoti progenitori. L’augusta ed epurata assemblea che ricevette dalle mani del capo dell’Italia la repubblica restaurata non smentiva le sue origini e non può sottrarsi al confronto storico. Era una spaventosa accozzaglia di uomini privi di scrupoli, arricchiti dalla guerra e dalla rivoluzione.

Non c’era traccia di reazione repubblicana. I senatori conoscevano il vero scopo dell’adozione da parte di Augusto di forme e terminologia repubblicane, la profonda ironia dell’ostentato contrasto fra dittatore e princeps. La fazione cesariana si era insediata al potere: si trattava ora di garantirne il predominio per il futuro. Dopo l’uccisione di Cesare, gli interessi costituiti avevano scongiurato qualsiasi sconvolgimento e avevano imposto la sistemazione del 17 marzo. Ora gli interessi costituiti erano piú estesi, piú tenaci, meglio organizzati. Il capitale si sentiva al sicuro. Una fazione conservatrice può esser anche molto vasta ed eterogenea: Cicerone, definendo la categoria degli optimates (cioè dei paladini della ricchezza e dell’ordine costituito), estendeva arditamente il termine dall’ordine senatorio fino a coprire qualsiasi classe sociale, non esclusi i liberti6. Ciò che nell’oratoria di Cicerone era propaganda occasionale o una mera utopia, era divenuto realtà concreta – risultato di una violenta ridistribuzione del potere e della ricchezza. Se la repubblica aristocratica aveva mascherato e talvolta contrastato il potere del denaro, il nuovo ordine era palesemente, anche se non dichiaratamente, plutocratico.

Il capitale ricevette delle garanzie ripagandole con la fiducia al governo. Piú della restaurazione delle forme costituzionali, ebbe favorevole accoglienza l’abolizione della tassazione diretta in Italia, che era stata imposta in modo opprimente da tutte le fazioni nella lotta per il potere dopo l’uccisione di Cesare e che era stata ancora piú appesantita da Ottaviano per finanziare la sua guerra contro Antonio7. Ma ora il bottino della vittoria e le entrate dell’Oriente diedero nuova vita all’economia italica. Gli speculatori e i banchieri che, volenti o nolenti, avevano sostenuto con le loro sovvenzioni il colpo di stato e ed erano stati ricompensati con le proprietà terriere dei vinti, ebbero ora ulteriore beneficio dal principato – la terra crebbe rapidamente di valore8. Ma il nuovo ordine era qualcosa di piú che una coalizione di profittatori che faceva appello alla legge e alla costituzione per proteggere le sue grandi ricchezze. Ben lungi dall’esserci una reazione, sotto il principato si dovevano consolidare ed estendere le conquiste della rivoluzione: quella che era iniziata come una serie di atti arbitrari doveva ora continuare sotto forma di processo costante, diretto con mano sicura da un’amministrazione statale.

Lo Stato romano, ai tempi della repubblica, era composto da tre ordini sociali, ciascuno con un suo preciso rango, doveri e privilegi. Questi sarebbero rimasti: i Romani non credevano nell’eguaglianza9. Si doveva però rendere infinitamente piú facile il passaggio dal basso all’ordine equestre e dall’ordine equestre al Senato. La giustificazione della promozione stava nel servizio prestato allo Stato, soprattutto il servizio militare. In questo modo la famiglia di un militare poteva assurgere al rango equestre e poi a quello senatorio in due o tre generazioni, in conformità al sistema sociale del principato; e i senatori erano eleggibili alla porpora. Con il passare del tempo il procedimento fu esteso e furono abbreviate le tappe, cosí figli di cavalieri, cavalieri ex novo, e infine banditi di Tracia e di Illiria divennero imperatori di Roma.

Sobillate dall’ambizione di demagoghi militari, le pretese del proletariato d’Italia in armi minacciavano la stabilità della repubblica romana: nondimeno, quando si era offerta qualche prospettiva che le loro aspirazioni alle terre e alla sicurezza sarebbero state riconosciute, i soldati si erano dimostrati capaci di mettere in difficoltà i politici, di disarmare i generali, di scongiurare spargimento di sangue. Entrati in possesso dei terreni, i veterani erano ora il piú solido pilastro della monarchia militare. Ventotto colonie in Italia e un gran numero nelle province onoravano Augusto col nome di patrono e difensore10.

Nell’anno 29 a.C., all’epoca del suo trionfo, Ottaviano aveva distribuito una donazione in denaro ai veterani delle sue colonie11. Non meno di centoventimila uomini fruirono della largizione del loro leader. Questo esercito non ufficiale, utile all’ordine pubblico, veniva costantemente mantenuto a livello. Fino al 13 a.C., data che segna una svolta nella storia dell’esercito romano, Augusto dotò i legionari congedati di terre, italiche o provinciali, acquistate con i propri fondi personali: dopo di allora, egli stabilí una gratifica da pagarsi in denaro12; perciò i soldati congedati negli anni 7-2 a.C. ricevettero in tutto non meno di quattrocento milioni di sesterzi13. L’esercito conservava ancora tracce della sua origine di esercito privato della rivoluzione. Soltanto nel 6 d.C., anno in cui si prevedeva una notevole smobilitazione di legionari, lo Stato si assunse il carico dei pagamenti con la costituzione di un fondo speciale dedicato a questo scopo (l’aerarium militare)14.

Il soldato in servizio guardava ad Augusto come al suo patrono e protettore, ma anche come al suo ufficiale pagatore. Oltre agli eserciti nel loro insieme, anche il singolo legionario doveva venire sottratto alla politica, staccato dal suo generale e legato personalmente al capo del governo e, solo attraverso di lui, allo Stato romano. Un reparto di truppe che si trovava in particolare rapporto di devozione nei confronti del princeps. Non solo quest’ultimo aveva e continuò a mantenere una guardia del corpo privata costituita da Germani15, ma disponeva anche di cittadini romani addetti alla sua protezione – la cohors praetoria propria del generale romano ebbe continuazione in tempo di pace in un reparto stabile di nove coorti di guardia pretoriana dislocate a Roma e nelle città d’Italia.

Nei discorsi alle truppe Augusto lasciò cadere l’appellativo rivoluzionario di «camerati» e introdusse una disciplina piú rigida di quella in uso durante le guerre civili16. Ma questo non voleva dire che le trascurasse. Augusto ricordava, premiava, promuoveva anche il piú umile dei suoi soldati. Difese personalmente il veterano Scutario in tribunale17, promosse il soldato Tito Mario di Urbino al rango equestre18.

La rivoluzione aveva aperto la strada, e il nuovo Stato la continuava, all’avanzamento del soldato comune: nella gerarchia militare e sociale della repubblica, aveva modo di giungere alla carica di centurione, non oltre. Alla fine della carriera, è vero, avrebbe potuto trovarsi in possesso del censo equestre, ed essere quindi eleggibile a cariche equestri19; inoltre, non è affatto inverosimile che giovani di famiglie equestri di municipi italici s’arruolassero nelle legioni per spirito d’avventura, per avere un impiego e i profitti del centurionato. Ma i posti di tribuno militare nelle legioni e di comandante della cavalleria (praefectus equitum) erano riservati a membri dell’ordine equestre, cioè a cavalieri (inclusi i figli di senatori che non avessero ancora detenuto la questura). Naturalmente gli ex centurioni non ne sarebbero stati esclusi, se avessero raggiunto la condizione finanziaria dei cavalieri (cosa non difficile), ma non vi era, nell’esercito stesso, una promozione regolare dal centurionato a cariche equestri. La rivoluzione portò un cambiamento, dovuto forse anche a necessità schiettamente militari oltre che a motivi sociali e politici – in particolare l’uso di porre dei centurioni a capo di reggimenti di ausiliari non romani. Per una prassi normale entro il sistema di Augusto, i centurioni anziani potevano entrare direttamente a far parte della militia equestris e qualificarsi per posti di notevole importanza20. Tali erano i vantaggi di servizio, di onorificenze, di carriera che ne derivavano che talvolta dei cavalieri furono disposti a spogliarsi temporaneamente del loro rango per fare i centurioni21.

Il reclutamento dell’ordine equestre avveniva in due modi. Innanzitutto, soldati o figli di soldati diventavano cavalieri con il servizio militare. Ad esempio Tito Flavio Petrone di Rieti, veterano di Pompeo, ebbe un figlio di rango equestre, Tito Flavio Sabino esattore di tasse, che fu a sua volta padre di un imperatore romano22. All’epoca della dinastia Flavia un soldato comune poteva arrivare a essere governatore della provincia di Rezia23. In secondo luogo, i liberti, classe di commercianti, si avvantaggiarono della rivoluzione acquistando le terre dei proscritti. Dovevano essere molti e ingenti dovevano essere i loro guadagni: durante i preparativi di Ottaviano prima della battaglia di Azio la tassazione speciale provocò le loro resistenze. Il liberto Isidoro dichiarò nel suo testamento di aver subito gravi perdite finanziarie durante le guerre civili – senza dubbio una dichiarazione comune, non limitata a una sola classe di benestanti sotto il principato di Augusto. Eppure Isidoro poté lasciare in eredità sessanta milioni di sesterzi contanti, per non parlare delle migliaia di schiavi e di capi di bestiame. Il funerale di questo personaggio costò un milione di sesterzi24.

Nel periodo del triumvirato un ex schiavo divenne tribuno militare. Orazio ne fu ferocemente indignato: «hoc, hoc tribuno militum»25. Ma Orazio stesso gli era superiore soltanto di una generazione. Anche in questo campo, non si ebbe nessun ritorno ai pregiudizi di nascita del periodo repubblicano. Sotto il principato, figli di liberti occupano ben presto cariche militari26, cosí come, allo stesso modo che sotto la repubblica, sono attestati come senatori – senatori del Senato purificato di Augusto27. Soprattutto i liberti furono impiegati dal princeps come agenti e segretari personali, specialmente con compiti finanziari28; in questo campo Augusto ereditò ed estese la prassi di Pompeo e di Cesare.

Cosí l’ordine equestre veniva costantemente rimpolpato dal basso, e a sua volta passava il fior fiore dei suoi membri al Senato. Di fatto, la classe dei cavalieri è la pietra angolare dell’intero edificio sociale, militare e politico del nuovo Stato. Nell’ultima generazione repubblicana i finanzieri avevano dato un po’ troppo spesso dei fastidi ai politici. Se si trovavano in contrasto con il Senato, per il loro utile mettevano a repentaglio la stabilità dello Stato, se invece gli erano alleati, continuavano nei loro abusi in Italia e dovunque nelle province, ostacolando ogni riforma e provocando in tal modo la rivoluzione. I cavalieri pagarono il fio con le proscrizioni: furono le vittime principali e predestinate della decimazione. Benché momentaneamente assottigliate, le loro fila furono presto accresciute da un’ondata di speculatori fortunati. Ma Augusto non li lasciò tornare al vecchio gioco. Le grandi compagnie di publicani chiudono i battenti o si ridimensionano. Per lo piú agli appaltatori di tasse viene ora affidata la riscossione soltanto di tasse secondarie e indirette.

Allontanati dalla politica, i cavalieri sotto il princeps acquistano possibilità d’impiego e dignità. Viene man mano a costituirsi una carriera equestre con servizio nell’esercito, nella finanza e nell’amministrazione, che tuttavia non era una novità assoluta, avendo le sue origini nella prassi consueta dell’età di Pompeo intensificata dalle guerre della rivoluzione e dal governo del triumvirato.

I cavalieri avevano avuto molto maggiore peso negli eserciti di Roma di quanto la preminenza ufficiale e indispensabile di membri della classe governativa, proconsoli, legati, questori, ne avesse consentito il riconoscimento. I centurioni non avevano il monopolio di un lungo servizio: certi cavalieri, in servizio attivo per anni e anni di seguito, si fecero dei meriti e un’esperienza a fianco dei comandanti di eserciti della repubblica. Uno di questi era l’ufficiale di Cesare Gaio Voluseno Quadrato29. Inoltre il proconsole eleggeva a proprio agente e a ufficiale capo del commissariato e dei rifornimenti un cavaliere di non poca importanza, il praefectus fabrum. I soli nomi di alcuni di questi ufficiali ne sono sufficiente testimonianza30.

Le guerre combattute fra Romani con eserciti di veterani da entrambe le parti imposero elevati criteri di mobilità, di rifornimenti o di strategia, accrescendo contemporaneamente l’importanza dei praefecti equestri, che si trovarono a capo di distaccamenti o di singole legioni, e non solo: uomini come Salvidieno Rufo e Cornelio Gallo condussero alla vittoria armate intere. Salvidieno e Gallo sono simboli della rivoluzione. La pace, lo Stato ben ordinato può fare a meno di uomini come loro. Tuttavia, il cavalierato militare trovò ampio impiego, e ancora maggiori ricompense, quando il servizio divenne una carriera con una sua gerarchia e con un suo cursus honorum31. Gaio Velleio Patercolo passò circa otto anni come tribunus militum e praefectus equitum32. Altri prestarono servizio ancora piú a lungo: Tito Giunio Montano è il caso emblematico33. Inoltre, in Egitto, terra preclusa ai senatori, erano dei cavalieri romani a comandare ognuno una legione della guarnigione34. La prassi non era limitata all’Egitto: dovunque le necessità di guerra lo richiedessero un ufficiale equestre poteva venire temporaneamente preposto a una legione romana35.

Meriti militari potevano anche procurare raccomandazione e patronato a posti della carriera civile, e particolarmente a quello di procuratore. Augusto si valse dell’esperienza finanziaria di uomini d’affari romani per sovrintendere alla riscossione delle entrate nelle sue province. Persone attinte all’aristocrazia delle città, provinciali o italiche: cosí Publio Vitellio di Nocera e Marco Magio Massimo di Eclano prestarono servizio come procuratori36. Magio era una persona degna di ogni considerazione. Di Vitellio alcuni dicevano che suo padre era un liberto – indubbiamente aveva molti nemici. Lucio Anneo Seneca, un benestante di Cordova, ebbe forse un posto del genere prima che si dedicasse allo studio della retorica. Pompeo Macro, figlio dello storico di Mitilene, fu procuratore in Asia37; non molto tempo dopo, due uomini della Gallia Narbonense si procacciarono la «nobilitas equestris» prestando servizio alle finanze38.

Non è tutto. I cavalieri romani potevano anche governare province, alcune molto piccole e paragonabili ai comandi accessibili a proconsoli minori, una però piú ricca e potente di ogni altra. Un cavaliere romano aveva guidato un esercito alla conquista dell’Egitto e vi era rimasto in veste di primo prefetto del paese alla testa di tre legioni. Alcune altre province acquisite in seguito da Augusto furono poste agli ordini di prefetti o di procuratori di rango equestre. Ad esempio la Rezia e il Norico. Quando fu annessa la Giudea (6 d.C.), il suo primo governatore fu Coponio, cavaliere romano di una distinta famiglia di Tivoli39; e in un momento d’emergenza un ufficiale equestre governò Cirene40. Nessuna di queste province era paragonabile all’Egitto né ospitava legioni romane; ma il prefetto d’Egitto venne ad avere qualcosa di pari e di corrispondente a lui quando, negli anni centrali del governo di Augusto, una coppia di cavalieri romani fu eletta al comando della guardia pretoria. Gradini meno importanti della carriera equestre, che quindi poteva culminare con la prefettura d’Egitto o con il comando della guardia, erano due posti amministrativi a Roma creati da Augusto verso la fine del suo principato. Il praefectus annonae era incaricato del vettovagliamento della capitale, e il praefectus vigilum era dotato di coorti arruolate soprattutto fra gli schiavi liberati e aveva le responsabilità di mantenere l’ordine pubblico e di proteggere la città dai tumulti e dagli incendi41.

Dunque il viceré d’Egitto poteva guardare dall’alto della sua posizione un volgare proconsole di Creta o di Cipro; e il prefetto della guardia sapeva quanto poco potere corrispondesse alla carica e al titolo decorativo di console. Tutto ciò era nuovo e rivoluzionario. Non che fino allora ci fosse stata proprio una netta linea divisoria fra senatori e cavalieri. Facevano parte della stessa classe sociale, pur differenziandosi per posizione ufficiale e prestigio – anche in questo caso per dignitas. Un dato di fatto palese offuscato però da pretese e pregiudizi. La vecchia nobilitas di Roma, patrizia o plebea, ostentava disprezzo per i cavalieri e i municipali; disprezzo che comunque non fermava i matrimoni né invalidava le eredità. Anche nelle piú segnalate famiglie dell’aristocrazia si poteva scoprire qualche recente infiltrazione di sangue municipale. Il nonno di Lucio Pisone (cos. 58 a.C.) era un uomo d’affari di Piacenza42; un patrizio Manlio aveva sposato una donna di Ascoli43; l’avo materno di Livia Drusilla aveva retto la carica di magistrato municipale a Fondi, a quanto diceva l’irriverente bisnipote di Livia44.

L’impero, conscio della necessità di mascherare la plutocrazia, si affrettò a farsi continuatore del pregiudizio tradizionale: spesso erano proprio i figli stessi di cavalieri a farsene portavoce, sublimi o oltraggiosi nel loro snobismo. Uno di essi rinfacciava a Seiano di essere un parvenu rivolgendo un solenne rimprovero alla principessa sua amante per il disonore da lei arrecato alla famiglia, agli avi e a tutta la discendenza con l’abbandonarsi ai volgari abbracci di un «municipalis adulter»45. Il padre di Seiano, Seio Strabone, era forse soltanto un cittadino di Bolsena in Etruria, di condizione equestre, ma poi era stato prefetto della guardia e viceré d’Egitto e aveva sposato una dama della famiglia patrizia di Cornelio Maluginense46. Del resto, già per nascita Seio aveva potenti parentele: sua madre era sorella della Terenzia di Mecenate e di un ambizioso e sventurato console che era meglio dimenticare. Altro membro di questo gruppo influente era Gaio Proculeio (fratellastro di Varrone Murena), intimo amico del princeps agli inizi. Augusto, si diceva, un tempo aveva pensato di dare sua figlia Giulia in moglie al cavaliere Proculeio, che si raccomandava per il suo carattere integro e per una salutare avversione a ogni ambizione politica47.

In sé e per sé, l’ammissione di cavalieri in Senato non era una cosa nuova, poiché si sa che il Senato dopo Silla ospitò molti membri di famiglie equestri48. Però, allo stesso modo di altri senatori estranei alla cerchia delle famiglie consolari, questi uomini erano ordinariamente tagliati fuori dalla massima onorificenza della repubblica. L’homo novus poteva giungere alla pretura; al consolato invece giungeva solo per una rara combinazione di meriti, di protezioni e di eventi. Anche in questo campo, come negli altri, Augusto, pur sotto le fogge della restaurazione, proseguiva la politica di Cesare – e dei triumviri: «occultior, non melior», avrebbero detto i suoi nemici. Con i nuovi regolamenti, poteva sembrare che l’accesso al Senato fosse stato reso piú difficile, essendo ora limitato alle persone in possesso del distintivo di nascita senatoria (il latus clavus) e di un determinato patrimonio. Ma non era cosí: il requisito di censo era in realtà piuttosto basso, se valutato col metro dei finanzieri romani49; ed era poi lo stesso princeps che, arrogandosi un potere usurpato durante la dittatura di Cesare, procedeva al conferimento del latus clavus a giovani di stirpe equestre incoraggiandoli a presentarsi candidati alla questura e a entrare per tal via in Senato. Non solo: anche il tribunato era utilizzato allo stesso scopo50. Tra i nuovi venuti il lealismo e il servizio dello Stato avrebbero in definitiva procurato ai migliori il consolato e alle loro famiglie avrebbero conferito per sempre la nobilitas.

Insomma, il progetto di Augusto era di rendere la vita pubblica sicura, rispettabile, attraente. Occorreva non di rado qualche incoraggiamento perché il cavaliere romano fosse disposto a scambiare la sicurezza e i guadagni del suo modo di vivere con la pompa, la dispendiosità e i pericoli della vita di un senatore; di questa piú che logica riluttanza ce ne dànno prova tangibile sia l’avo equestre di Augusto stesso, sia i suoi amici Mecenate e Proculeio. Inoltre accadeva spesso che uno soltanto dei figli di una famiglia municipale decidesse di entrare nel Senato. E se cosí stavano le cose nelle colonie e nei municipia che da lungo tempo facevano parte dello Stato romano, o nelle ricche città di antica civiltà, cosa ne era delle regioni arretrate d’Italia che erano state incorporate soltanto dopo il bellum Italicum? Cicerone aveva parlato dell’Italia in modo commovente e con sincerità di sentimenti. Ma Cicerone difendeva l’ordine costituito: anche se ne avesse avuto l’intenzione, non aveva certo la potenza necessaria per ottenere l’ammissione al Senato di un certo numero di Italici. Il loro momento arrivò con Cesare. Stanchi di parole, insofferenti ai paladini della libertà oligarchica, i popoli dei Marsi, dei Marrucini e dei Peligni salutarono in Cesare la rinascita della fazione mariana. La dittatura e la rivoluzione abbatterono i pregiudizi dei Romani e nello stesso tempo arricchirono i poveri notabili italici: adesso l’aristocrazia dei popoli soggiogati da Pompeo Strabone e da Silla entrava in Senato e comandava gli eserciti del popolo romano, come Pollione, il quale aveva un avo che era stato capo dei Marrucini contro Roma, come Ventidio, originario del Piceno, come il marso Pompedio.

Nonostante la rivoluzione e la guerra nazionale di Azio, il processo di formazione dell’unità d’Italia non era ancora giunto al termine. Augusto era impaziente di provvedere a un ulteriore reclutamento e ammissione al Senato del fiore d’Italia, della brava gente danarosa delle colonie e dei municipia51, di quelli che erano la spina dorsale della fazione di Augusto, i fattori primi del plebiscito di tutta Italia. Cosí il nuovo Stato, continuatore della rivoluzione, poteva vantare ricchi reparti regolari di homines novi, oscuri e illustri, alcuni dei quali incoraggiati con la concessione del latus clavus in gioventú ed entrati quasi subito a fare parte del Senato, altri invece solo dopo la carriera militare equestre. Gaio Velleio Patercolo, di stirpe campana e sannitica, dopo il servizio militare come cavaliere fu alla fine fatto questore52. Casi contemporanei e analoghi sono quelli di altri due partigiani municipali, uno di Treia nel Piceno e uno di Corfinio dei Peligni53.

I municipali presenti nel Senato di Roma ai tempi di Pompeo erano per lo piú forniti dal Lazio, dalla Campania e dalla regione che dall’Etruria va a oriente verso il Piceno e il territorio sabino. Ora provenivano da tutta Italia nel senso piú ampio, dalle Prealpi fino all’Apulia, alla Lucania, al Bruzio. Non soltanto antiche città del Lazio da gran tempo decadute, come Lanuvio, fornivano senatori a Roma, ma erano rappresentate remote città del tutto prive di importanza prima e note solo di nome, come Alatri nel territorio degli Ernici al margine orientale del Lazio, Treia nel Piceno, Assisi in Umbria, Histonium [Vasto] e Larino di popolazione sannitica54.

Dai recessi dell’Appennino, dalle arcaiche tribú sabelliche strisciano fuori le forme inconsuete dei «mostri delle cittadine»55, richiamati dall’ambizione e dal guadagno, stanati dal patronato, bardati del pretesto dell’antica virtú e della virile indipendenza, ma quasi sempre rapaci, corrotti, ossequienti al potere. I loro modi e la parlata erano rustici, i loro nomi forestieri erano oggetto di scherno per l’aristocrazia di Roma, che per lo piú aveva da gran tempo pudicamente mascherato le proprie origini sabine o etrusche con l’assimilazione alla forma latina del nome. Alcuni erano dei parvenu dell’ultim’ora, arricchitisi con omicidî e rapine. Altri provenivano dall’antica aristocrazia rurale, famiglie signorili o sacerdotali che si facevano risalire direttamente a dèi o a eroi, o almeno a una lunga stirpe di magnati locali, legate da vincoli di sangue o di matrimonio ai loro pari di altre città, inflessibilmente orgogliose dei loro natali56. Di alcuni sono documentate la città o la regione d’origine; in altri il gentilizio, per la radice o per il suffisso, tradisce la provenienza non latina. Uno di essi porta addirittura un praenomen umbro; e uomini con gentilicia quali Calpetano, Mimisio, Viriasio, o Mussidio non avrebbero mai potuto sostenere di discendere da pura stirpe latina57. In prima fila e al di sopra di tutti gli altri viene a porsi quella risonante mostruosità di nomi che è Sesto Sotidio Strabone Libuscidio di Canosa58.

Di questi oscuri personaggi dai nomi fantasiosi non si era mai sentito parlare prima in Senato e neppure a Roma: erano i primi, e talvolta anche gli ultimi, senatori della loro famiglia, privi di ogni prospettiva di pervenire al consolato, e tuttavia voti sicuri per il princeps nell’ambito della sua restaurata assemblea sovrana di tutta Italia.

È questo il momento in cui nomi a noi piú familiari di quelli ora citati escono dall’ombra del rango municipale, convalidano e accrescono la loro dignità, entrano a far parte della storia imperiale. Marco Salvio Otone, figlio di un cavaliere romano, uscito da un antico ceppo dinastico dell’etrusca Ferento, divenne senatore sotto Augusto59; Publio Vitellio di Nocera si fece onore come procuratore di Augusto e i suoi quattro figli entrarono in Senato60; Vespasio Pollione, di una assai onorata famiglia di Norcia nei recessi del territorio sabino, prestò servizio nell’esercito come ufficiale equestre61 e suo figlio divenne senatore e sua figlia sposò l’esattore d’imposte Tito Flavio Sabino. A queste famiglie era riservato il futuro.

Altri erano già andati piú oltre e avevano ottenuto da Augusto la nobilitas per le loro famiglie. In prima fila vengono gli uomini d’armi, che proseguono la tradizione dei generali delle guerre rivoluzionarie, pur non imponendo una cosí rapida e fitta serie di nomi forestieri sui Fasti. Marco Vinicio era figlio di un cavaliere della colonia di Cales. Publio Sulpicio Quirinio non aveva alcun rapporto con l’antica casa patrizia dei Sulpici, ma era del municipium di Lanuvio62. Lucio Tario Rufo, «infima natalium humilitate», proveniva forse dal Piceno63. Ignote sono le origini di Marco Lollio e di Publio Silio64.

Un homo novus tenne il consolato come collega di Quirinio nel 12 a.C.65. Ma poi il periodo centrale del principato di Augusto si presenta molto scarso di nomi nuovi, se si eccettuano un Passieno e un Cecina, inconfondibili con le loro terminazioni non latine66. Negli ultimi anni tuttavia (4-14 d.C.) si assiste a un fenomeno significativo: al rinnovato avanzarsi di homines novi, per lo piú militari. Il Piceno come c’era da attendersi forní soldati: i due Poppei provenivano da un oscuro centro di questa regione67. Ora Larino, cittadina dalla fama poco raccomandabile, diede a Roma due consoli68. Altro sannita era Marco Papio Mutilo (cos. suff. 9 d.C.), di antica casata signorile. Due consoli di questo periodo che però non si possono localizzare con esattezza sono certamente di estrazione municipale69.

Questi uomini erano i rappresentanti dell’Italia di Augusto, anche se molti di essi appartenevano a quell’Italia che era stata tanto di recente il nome, la nazione, l’ideale opposto in guerra contro Roma. Ma ora l’Italia giungeva fino alle Alpi comprendendo la Cisalpina. Alla ricchezza degli antichi territori etruschi e della Campania, al valore militare del Sannio e del Piceno, veniva adesso ad aggiungersi la fresca vitalità del Settentrione: la parte piú nuova d’Italia, l’Italia Transpadana, già rinomata nella letteratura latina, aveva mandato i suoi figli al Senato di Cesare. Subito all’inizio del principato cinque o sei uomini provenienti dalle città di Verona, Padova, Brescia, Pola e Concordia iniziano la loro carriera senatoriale70.

Persone di prim’ordine, certamente, e ben fornite di ricchezze. Ma Augusto ne fu talvolta deluso, proprio quando aveva tutti i motivi per aspettarsi il tipo giusto di senatore: evidentemente la ripugnanza dei cavalieri per la vita pubblica e per la politica (la tradizionale quies) spesso si rivelò troppo radicata. C’era ad esempio un’antica e distinta famiglia tra i Peligni, gli Ovidi71. Augusto aveva dato il latus clavus a un giovane promettente di questi Ovidi, che non era un parvenu dell’ambiente commerciale né uno che avesse fatto carriera nell’esercito migliorando la propria condizione sociale attraverso il servizio come centurione. Ma Publio Ovidio Nasone non era intenzionato a servire il popolo romano.

Sarebbe potuto diventare avvocato, poi senatore romano e governatore di province, ma preferí essere il poeta alla moda, e alla fine ne pagò il fio. Ma se Publio Ovidio fu recalcitrante, un certo Quinto Vario Gemino seppe invece conquistarsi l’onore, citato con orgoglio sulla sua tomba, di essere il primo senatore fra tutti i Peligni72.

Come si è mostrato, Augusto confermò e rinsaldò l’alleanza delle classi possidenti in due modi: col creare una carriera ufficiale per i cavalieri romani e col facilitare il loro ingresso in Senato. La concordia ordinum cosí realizzata era dunque allo stesso tempo un consensus Italiae, poiché rappresentava la coalizione delle famiglie municipali, sia che fossero presenti in Senato sia che non lo fossero, che guardavano ora a Roma come alla loro capitale, al princeps come al loro patrono e difensore.

Le città d’Italia fornivano soldati, ufficiali e senatori allo Stato romano. Ne facevano quindi parte veramente. Il vincolo unificante era vivo e organico e si rafforzava con il passare del tempo. Si era fatto ricorso ai voti di fiducia dei municipia nella crisi della guerra civile, ma anche in pace non erano voti da trascurare. Augusto quindi incoraggiava le città a presentare candidati a posti militari nel servizio equestre73. Inoltre ideò un piano perché se ne sentisse l’influenza a Roma: i consiglieri municipali avrebbero dato il loro voto a candidati alle elezioni di Roma, anche senza spostarsi dalla loro residenza74. Questo esperimento, che fu realizzato, fu però presto abbandonato non tanto perché era una presa in giro, dato l’effettivo carattere dell’elezione popolare a Roma, ma perché era una cosa del tutto superflua.

La mancanza di qualsiasi sistema di governo rappresentativo nelle repubbliche e nelle monarchie dell’antichità è stata considerata con disapprovazione da studiosi di scienze politiche, soprattutto da quelli che propongono come ideale la sovranità del popolo. I Romani, che non avevano fiducia nella democrazia, furono sempre in grado di ostacolare l’esercizio della sovranità popolare mediante una costituzione repubblicana che permetteva sí a ogni cittadino di nascita libera di presentarsi candidato alle magistrature, ma garantiva l’elezione di membri di una nobilitas ereditaria. Tuttavia il Senato un tempo era sembrato rappresentare veramente il popolo romano, poiché era un’aristocrazia sovrana per nulla ristretta o chiusa. La politica di apertura di Cesare e di Augusto poté appoggiarsi alla veneranda autorità della tradizione antica: l’avanzamento di homines novi non era per niente un «novus mos»75. Tutti sapevano che le piú nobili famiglie dell’aristocrazia romana risalivano ad antenati latini o sabini – senza parlare dei re di Roma76. Ora l’ampliata e rafforzata oligarchia del nuovo ordine era indirettamente, ma non per questo meno efficacemente, una rappresentanza di Roma e dell’Italia. Formalmente la costituzione era meno repubblicana e meno «democratica», poiché l’eleggibilità alle cariche non era piú diritto di tutti essendo determinata dal possesso del latus clavus, ma in pratica era liberale e «progressista». Inoltre, ogni classe sociale, dai senatori ai liberti, aveva ora una sua posizione e una sua funzione nell’ampio raggruppamento, tradizionalista e conservatore, che aveva preso il posto della pseudorepubblica dei nobiles. In questo non era piú possibile il ristagno, ma solo un costante mutamento e rinnovamento.

Teorie liberali e la cosí a lungo vagheggiata unificazione dell’Italia possono essere opportunamente addotte a sostegno e a giustificazione degli atti di Cesare e di Augusto, ma non ne spiegano la radice e l’origine. In realtà, con il concedere la cittadinanza romana e con l’estendere la loro clientela, questi governanti si facevano eredi degli accorgimenti dinastici e delle ambizioni dei precedenti uomini politici romani, accorgimenti già praticati da tempo immemorabile al fine di tagliar fuori i rivali, ma che ora coinvolgevano tutto un impero. E non fu neppure per motivi teorici che Cesare e Augusto legarono alla loro fazione e fecero giungere al Senato l’aristocrazia italica: i senatori non rappresentavano una regione o una città, ma una classe, ed esattamente quella dei possidenti, «boni viri et locupletes». Poiché l’accrescimento della fazione governativa non era l’attuazione di una teoria né l’opera di un solo uomo, era praticamente impossibile interromperlo di colpo. Anche se l’avesse voluto, un governante non sarebbe riuscito a fermare il movimento di un processo naturale. Quanto presto e quanto lontano si sarebbe esteso fuori d’Italia, quali dei seguaci personali della nuova dinastia – i capi tribú della Gallia Comata, la ricca aristocrazia d’Asia, o magari i re dell’Oriente – sarebbero entrati nel Senato imperiale, l’avrebbero decretato il tempo e le circostanze77.

Dappertutto vi erano zelanti e interessati difensori dell’ordine costituito: città, signorotti e re, cittadini romani e barbari. I provinciali reclutati a prestare servizio nelle formazioni ausiliarie potevano ricevere la cittadinanza romana come riconoscimento del valore; ed erano molti gli uomini delle province che entravano nelle legioni del popolo romano, sia che già possedessero la cittadinanza romana sia che non la possedessero. Per cui si avevano una costante diffusione dei costumi e delle idee romane e un costante accrescimento del corpo civico. Soprattutto le classi possidenti delle città dell’impero, a Oriente e a Occidente, si ponevano saldamente a fianco del loro protettore. I re vassalli, anche se di nome erano ancora degli alleati del popolo romano, erano di fatto i clienti devoti del princeps, e come tali si comportavano78. Il raffinato Giuba, marito della figlia di Antonio, il rozzo ma efficiente Erode, tanto apprezzato da Agrippa, Polemone del Ponto o i signorotti traci lavoravano tutti per Roma, come se fossero dei governatori di province. Augusto considerava questi re come membri integrali dell’impero79: un secolo dopo il Senato imperiale avrebbe accolto come propri membri i discendenti di re e tetrarchi80.

Nelle province d’Occidente, in seguito alle continue immigrazioni, all’installazione di colonie di veterani e alla concessione della cittadinanza romana agli indigeni, il corpo civico si era ampiamente diffuso; le colonie e i municipia erano numerosi. La Spagna e la Narbonense, nonché l’Italia settentrionale (provincia fino a poco tempo prima), regioni forti e prospere, erano fedeli al governo di Roma, ora che erano passate dalla clientela dei Pompei a quella dei Giuli. Fornendo, forse già dal tempo di Augusto, un numero preponderante di reclute alle legioni d’Occidente, questi territori, nel primo secolo del principato, progressivamente pervadono e s’impadroniscono dell’intera gerarchia sociale e amministrativa, fino ad arrivare a porre sul trono un imperatore provinciale e a fondare una dinastia di sovrani spagnoli e narbonensi. Difficilmente Augusto avrà pensato o tentato di arrestare la loro costante avanzata.

Si ritiene di solito che Augusto non avesse le larghe vedute imperiali e la politica liberale di Cesare: un’esagerazione derivante da uno schematico contrasto tra Cesare il dittatore e Augusto il princeps che può soddisfare le esigenze del moralista, del pedagogo o anche del politico, ma che è estranea e nociva alla comprensione storica81. La differenza nella condotta politica dei due governanti può essere spiegata in larga misura dalle circostanze – al tempo in cui Augusto conquistò il potere assoluto, la rivoluzione era già andata tanto oltre che poteva ormai rallentare il ritmo senza che ci fosse il pericolo di una reazione, e la maggior parte dei suoi partigiani aveva già avuto promozioni e ricompense.

Il liberalismo di Cesare è stato dedotto dalle sue intenzioni, che nessuno può conoscere, e dai suoi atti, che furono soggetti a interpretazioni inesatte. Uno dei suoi atti piú significativi può apparire l’allargamento del Senato ottenuto con l’avanzamento di seguaci di estrazione oscura o addirittura provinciale. Né negli scopi né nei risultati questo provvedimento fu rivoluzionario e scandaloso; e il reclutamento di homines novi fu proseguito e reso regolare da Cesare Augusto.

Cesare ammise i provinciali. Non c’è alcuna prova che Augusto li avesse estromessi tutti. Rimasero i discendenti dei partigiani della Narbonense82. Degli spagnoli, Saxa e Balbo erano morti, ma Balbo il Giovane ascese in gloria e potenza fino ad avere il proconsolato d’Africa e un trionfo, che fu l’ultimo a essere celebrato da un senatore. Inoltre entrarono in Senato durante il regno di Augusto Giunio Gallione, ricco retore spagnolo amico degli Annei, e un certo Pompeo Macro, figlio del procuratore d’Asia, seguiti ben presto da Gneo Domizio Afro, il grande oratore di Nemausus [Nîmes]83.

Uomini delle province prestarono servizio come ufficiali nell’equestris militia84; ottennero anche cariche di procuratore e alte cariche equestri sotto Augusto, che conferí loro un rango equivalente al consolato nella carriera senatoria. Due, se non tre, provinciali furono prefetti d’Egitto85. I figli di questi eminenti personaggi entravano regolarmente in Senato, con il nuovo ordine86. Augusto diede prestigio all’Italia; ma il contrasto fra Italia e province è inesatto ed erroneo se viene esteso alle colonie con il pieno diritto di cittadinanza che si trovavano nelle province, poiché queste costituiscono parte integrante dello Stato romano, dovunque si trovino: Cordova, Lione, o anche Antiochia di Pisidia87. Non può essere stata intenzione di Augusto svalutare o frenare le province d’Occidente e quella parte del popolo romano distribuita tanto lontano fuori dei confini dell’Italia.

Augusto, che proveniva lui stesso da una famiglia municipale, era fedele alle sue origini nel carattere e nei costumi; cavalieri romani erano tra i suoi piú intimi amici e piú antichi partigiani. Nei primi mesi di vita, la fazione dell’erede di Cesare contava appena un solo senatore; e anche nei suoi primi anni non aveva grandi nomi. Cosa c’è di piú semplice che attribuire al solo Augusto l’avanzata degli homines novi sotto il principato? Ma questo significa non tenere conto dell’influsso dei suoi seguaci. Il princeps non era un entusiasta sincero del merito in chiunque lo si scorgesse e a qualsiasi classe appartenesse, ma era un borghese di un piccolo centro, in devota e insaziabile ammirazione della distinzione sociale. Cesare e Tiberio, che appartenevano uno ai Giuli e l’altro ai Claudi, conoscevano meglio la propria classe e ne conoscevano le manchevolezze.

Il nome, l’ambizione, le azioni avevano sottratto al capo rivoluzionario l’appoggio dei nobiles, in gioventú; prima che egli si sposasse con Livia, un solo discendente di famiglia consolare (Gneo Domizio Calvino) era membro della sua fazione. Ma Ottaviano era perfettamente conscio della necessità di avere seguaci aristocratici. La vantaggiosa alleanza matrimoniale diede ben presto i suoi frutti: Appio Claudio Pulcro e Marco Valerio Messalla passarono in breve dalla sua parte. Ma l’aristocrazia ci andava piano a perdonare l’uomo delle proscrizioni. Il princeps ebbe la sua vendetta. Non si fece scrupolo di estromettere dal Senato un folto gruppo di nobiles. Ma egli, signore del patronato, riuscí a far aderire alla propria causa anche i nobiles piú recalcitranti; altri, come Gneo Pisone (cos. 23 a.C.), forse si unirono a lui per disinteressato patriottismo. Le vecchie famiglie erano state decimate da una generazione di guerre civili: i figli degli uccisi si trovarono disposti a far la pace con il potentato militare.

Augusto dispiegò tutte le sue energie per legare questi giovani nobiles alla sua persona, alla sua famiglia e al nuovo sistema, ed ebbe non scarso successo. Ma doveva evitare qualsiasi ritorno ai suoi antichi sostenitori – la plebe, i veterani e i cavalieri che avevano vinto la guerra di Azio. Nella crisi del 23 a.C. la fazione cesariana fece fallire i progetti monarchici di Augusto e impedí l’adozione di Marcello; si può congetturare che alcuni membri della fazione e soprattutto Agrippa, che in questa occasione fece prevalere la sua linea politica, tentarono anche di infrenare la spiccata predilezione di Augusto per l’aristocrazia.

Anche la nuova fazione cesariana, come la fazione di Cesare, comprendeva elementi diversi, dalle piú antiche famiglie patrizie ai piú recenti arrivisti. Ma si trattava di un ordine che aveva maggiore compattezza del multicolore seguito di Cesare, un ordine vincolato a una causa, a un programma, oltre che a una persona. Peraltro, qualunque fosse stato il destino del princeps, la coalizione avrebbe resistito.