Nella Roma repubblicana, l’aristocrazia per dare un indirizzo alla letteratura si serviva del patronato personale. In questo, come in politica, le altre classi erano sensibili all’auctoritas, facendosi dirigere dall’alto negli atteggiamenti e nei gusti. L’invettiva politica era violenta e feroce – ma indiscriminata, salvo nel caso che si stesse formando un nuovo governo, perché allora si schierava all’attacco. Pamphlet e carmi si scagliarono contro il Mostro Tricefalo, concentrando l’offensiva, com’era giusto, contro Pompeo Magno; e la plebe romana fu incoraggiata a fare pubbliche dimostrazioni nel foro o in teatro, stringendosi a difesa di una costituzione che per lei non significava nulla, e buttandosi avidamente su ogni battuta che si attagliasse alla dominazione di Pompeo:

nostra miseria tu es magnus1.

Agli uomini politici romani erano indispensabili degli agenti dotati dell’abilità di provocare manifestazioni spontanee dei veri sentimenti del popolo sovrano. Crasso ebbe la mano piú felice di Pompeo: alle sue dipendenze aveva il demagogo Clodio.

La dittatura di Cesare diventò immediatamente oggetto di violenta satira. Ma ben piú micidiale era l’attacco indiretto con la pubblicazione di libri che esaltavano Catone, il martire della libertà repubblicana. La lode o il biasimo dei morti, anziché dei vivi, preannuncia il triste destino della letteratura sotto l’impero.

Quando viene a instaurarsi il dominio di Augusto, gli uomini di lettere, che in complesso avevano sempre avuto l’abitudine di attaccare l’individuo o la fazione dominante, sembrano schierarsi con ardore dalla parte del governo. Sarebbe prematuro scorgere in questa metamorfosi un franco e generoso riconoscimento della superiorità della linea politica di Augusto o un sincero omaggio alla restaurazione delle libertà civili; non ne consegue però che i poeti e gli storici che prestarono il loro ingegno alla glorificazione del nuovo ordine nello Stato e nella società fossero semplicemente compiacenti apologisti al soldo del dispotismo.

L’uomo politico repubblicano adottava e proteggeva uomini di lettere per ostentare la propria magnificenza e diffondere la propria fama. Il monarchico Pompeo disponeva di un cronista privato, l’eloquente Teofane di Mitilene. Cesare, invece, fu lo storico di se stesso nei commentari della guerra gallica e della civile, e di se stesso fu anche l’apologista: lo stile dei suoi scritti era efficace, essendo tipicamente militare e romano, spoglio di pompa e di verbosità, ed egli seppe abilmente far risultare che i suoi avversari erano meschini, vendicativi e poco patriottici2. Agli insidiosi nemici paladini di Catone il dittatore rispose con pamphlet, scritti di suo pugno o dal fedele Irzio; e, pur riluttante, Cicerone fu costretto a scrivere una lettera nella quale esprimeva la sua parziale approvazione. Proposte costruttive avanzate da uomini di lettere neutrali o partigiani rimasero piú in ombra. C’era Sallustio, è vero, che era ostile tanto all’oligarchia quanto alla potenza del denaro, e propugnatore della riforma morale e sociale3. Il dittatore inoltre incoraggiava gli studi dell’erudito Varrone, nell’intento di risvegliare l’interesse per la religione romana e altre antichità nazionali. Ma, comunque, non si trattò di un sistematico sfruttamento della letteratura su vasta scala. A quello avrebbe pensato Augusto.

La propaganda ebbe maggior peso delle armi nelle lotte del periodo triumvirale. Il capo di gabinetto di Augusto, Mecenate, si preoccupò di catturare, quasi come fossero giovani fiere, i poeti piú promettenti e di ammaestrarli in modo conveniente al principato. Augusto presenziava alle loro letture ascoltando con pazienza, e spesso con benevolenza. Insisteva perché le sue lodi fossero cantate solo in opere seriamente impegnate e dai migliori poeti4. Il princeps riuscí nel suo intento e gli altri patroni della letteratura rimasero parecchio piú indietro. Pollione perse il suo Virgilio; Messalla dovette contentarsi dell’anemico Tibullo. Fabio Massimo, il dilettante patrizio, mostrò un certo favore per Ovidio, e forse per Orazio5; e Pisone, in omaggio alle tradizioni ellenizzanti della sua famiglia, protesse un versificatore greco, Antipatro di Tessalonica6. Pollione in verità fu esaltato da Orazio in un’ode preclara. Ma non cosí Messalla. Quanto ai militari plebei che avevano fatto carriera con il nuovo Stato, non si hanno testimonianze che si siano interessati alla promozione delle lettere o delle arti.

Com’era naturale, i poeti che godevano dei favori del governo si diedero a celebrare in versi gli ideali della Roma risorgente: la terra, il soldato, la religione e la morale, l’eroico passato e il glorioso presente. Non era soltanto propaganda: c’era in parte qualcosa di molto piú grande. Si voleva creare una letteratura romana degna di stare alla pari con i capolavori della Grecia, il contropilastro destinato a sostenere la civiltà di un impero mondiale che era a un tempo romano e greco. La guerra di Azio era stata presentata come una lotta non tanto contro la Grecia quanto contro l’Egitto e l’Oriente. La lotta fu perpetuata sotto il principato con la reazione augustea contro l’ellenismo contemporaneo e contro i modelli alessandrini della generazione precedente, con il ritorno a esemplari piú antichi e classici, all’età d’oro della Grecia. La nuova letteratura romana si proponeva di essere piú civile che individualistica, piú utile che ornamentale. Orazio, ora che la sua vena lirica si era inaridita, si sforzò di fornire al movimento una salda base teorica, e di rivendicare il rango di classici per la migliore produzione della letteratura contemporanea.

Com’era avvenuto in campo politico, l’ultima generazione non abbondava di modelli raccomandabili o imitabili. Orazio non ha mai una parola per Catullo o Lucrezio. Queste personalità libere e appassionate non potevano trovare posto né favore nelle civiche e disciplinate accademie di una comunità sana. L’epicureismo era quindi guardato con molta ostilità, in quanto dottrina moralmente non edificante e sospetta di ispirare disgusto per la vita pubblica. Lo stoicismo, invece, era salutare e rispettabile: poteva tornare utile. Se fosse vissuto in un’atmosfera diversa, piú corroborante, all’insegna del dovere e della moralità, Lucrezio avrebbe forse sfogato il fervore della sua natura religiosa componendo un poema panteistico per celebrare l’armonia prestabilita dell’anima umana, l’universo intero – nonché lo Stato ideale ora realizzato sulla terra:

spiritus intus alit, totamque infusa per artus

mens agitat molem et magno se corpore miscet7.

Lo stoicismo, infatti, stava dalla parte dell’ordine e della monarchia. Catullo, invece, non avrebbe potuto essere addomesticato a cantare docilmente il rinnovamento dell’alta società, i reiterati sponsali di Giulia o le frugali virtú di parvenu arricchitisi con le guerre civili. I suoi libri sarebbero stati bruciati nel foro, davanti al piú gran concorso e plauso del popolo romano.

Ma non importava. Il nuovo Stato aveva il suo poeta lirico, tecnicamente inarrivabile. Disgrazie personali e crollo delle speranze politiche strapparono al giovane Orazio l’aspra e amara invettiva degli Epodi. Gli anni e la prosperità smorzarono il suo ardore senza modificare il realismo scettico a lui connaturato – non ci sono elementi per poter parlare senz’altro di conversione allo stoicismo. Ciononostante, quest’epicureo sembra essersi abbandonato a una romantica passione per la frugalità e la virtú, a una calda simpatia per gli ideali marziali e imperiali. Le Odi contengono la piú nobile formulazione della politica augustea di rinnovamento sociale, e il suo piú illuminante commento. Dopo una tirata eloquente su temi elevati, Orazio alla fine si riprende:

non hoc iocosae conveniet lyrae:

quo, Musa, tendis?8.

Dopo aver lodato la vita semplice e maledetto la ricchezza, egli aggiunge:

scilicet improbae

crescunt divitiae; tamen

curtae nescio quid semper abest rei9.

Senza ricorso all’apologia e con maggior naturalezza fluí la vena morale, rustica e patriottica nel poeta Virgilio. Una volta terminate le Georgiche (circa 30 a.C.), Virgilio fu impegnato dalla stesura di un poema epico che doveva rivelare la mano del destino nelle piú antiche origini di Roma, la continuità della storia romana e il suo culminare nel dominio di Augusto. Cosí scriveva nei primi versi del suo poema:

nascetur pulchra Troianus origine Caesar

imperium Oceano, famam qui terminet astris,

Iulius a magno demissum nomen Iulo10.

Piú oltre non è il conquistatore del mondo, ma il futuro instauratore della Nuova Èra,

hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,

Augustus Caesar, divi genus, aurea condet

saecula qui rursus Latio11.

Il carattere dell’eroe epico non ha tratti grandiosi o eccezionali. Non era questo il proposito del poeta. Anche la perenne assistenza prodigata dall’alto all’eroe contrasta con le concezioni romantiche. Enea è uno strumento del cielo, uno schiavo del dovere. «Sum pius Aeneas», è la definizione che egli dà subito di sé. Attraverso tutti i rischi della sua alta missione, Enea è equilibrato, costante e tenace: per lui non può esserci indugio, né riposo, né unione sentimentale e politica con una regina straniera. L’Italia è la sua meta: «hic amor, haec patria est». E cosí Enea persegue la sua missione, sacrificando ogni sentimento alla pietas, fermo nella sua decisione, ma melanconico e un po’ stanco. Il poema non è un’allegoria, ma nessun contemporaneo poteva mancare di intravedere in Enea una prefigurazione di Augusto. Ma come per il trasferimento di Troia e dei suoi dèi in Italia, anche l’edificazione della nuova Roma era un compito arduo e augusto:

tantae molis erat Romanam condere gentem12.

I fati preannunciavano la venuta di un grande sovrano d’Italia e conquistatore di tutto il mondo:

sed fore qui gravidam imperiis belloque frementem

Italiam regeret, genus alto a sanguine Teucri

proderet, ac totum sub lege mitteret orbem13.

Nessuno l’avrebbe creduto, ma la salvezza di Roma doveva venire da una città greca. Lo annunciava la sacerdotessa di Febo:

via prima salutis,

quod minime reris, Graia pandetur ab urbe14.

Fin dalla prima decisione presa con il consiglio dei suoi amici ad Apollonia, il giovane Cesare non aveva piú tentennato né indietreggiato. Presagita da Apollo, la sua via passava attraverso il sangue e la guerra,

bella, horrida bella,

et Thybrim multo spumantem sanguine cerno15.

Accompagnato dal fido Acate, s’apprestava a combattere contro le indomite popolazioni d’Italia e a vincerle, a fondare città e a instaurare una vita civile:

bellum ingens geret Italia populosque ferocis

contundet, moresque viris et moenia ponet16.

Il suo trionfo non portava una dominazione personale, ma l’unità fra Roma e l’Italia, la riconciliazione finale. Questa era la sua missione:

nec mihi regna peto: paribus se legibus ambae

invictae gentes aeterna in foedera mittant17.

Negli stessi anni lo storico Livio stava già lavorando al maestoso e immenso tema che si era scelto, la controparte in prosa dell’epopea virgiliana:

res Italas Romanorumque triumphos18.

Come altre composizioni letterarie patrocinate dal governo, la storia di Livio era patriottica, morale ed esortativa. Anche lo studio dell’antichità poteva avere i suoi lati utili. Ma la storia non doveva essere necessariamente antiquaria: poteva anche servire, come la poesia, a onorare il ricordo dell’antico valore, a risvegliare l’orgoglio nazionale, a educare le generazioni future alla virtú civica.

La storia dei primi giorni dell’Urbe, fondata, come diceva l’antico poeta, «augusto augurio», richiedeva parole solenni e la celebrazione del fondatore di Roma, «deum deo natum, regem parentemque urbis Romanae»19. Ma non conveniva tracciare un parallelo troppo preciso. Il Romolo della leggenda possedeva già troppi dei tratti autentici di Cesare dittatore, alcuni dei quali acquisiti o almeno sottolineati di recente. Romolo era un re, il beniamino della plebe e dell’esercito, ma poco gradito al Senato.

Se ci fossero stati conservati, gli ultimi libri di Livio, contenenti la narrazione della storia recente e contemporanea, indubbiamente presenterebbero le «lezioni della storia» in una forma vivace e convincente. Una fonte eccellente divenne presto disponibile: nientemeno che l’autobiografia in cui il princeps ripercorreva la sua difficile e trionfale carriera. Livio, come Virgilio, era un pompeiano: idealizzò la carriera iniziale di Pompeo, confutando Sallustio. Se Pompeo in tal modo diventava un personaggio rispettabile, lo stesso di conseguenza succedeva a Ottaviano. Era di moda essere pompeiano piuttosto che cesariano, perché quella era la «causa migliore»20: si può quindi supporre che lo storico di Augusto parlasse anche con rispetto di Bruto e Cassio: avevano combattuto per la costituzione; e addirittura con ammirazione di Catone: aveva difeso l’ordine costituito.

Virgilio, Orazio e Livio sono le glorie durature del principato; e tutti e tre erano in rapporti di amicizia personale con Augusto. La classe a cui questi letterati appartenevano aveva tutto da guadagnare dal nuovo ordine. Tanto Virgilio quanto Orazio avevano perduto i possedimenti paterni con le confische che vennero dopo Filippi e i disordini della guerra perugina: riottennero in seguito le loro proprietà, o almeno un compenso equivalente. La storia non ha lasciato memorie, né la leggenda ha ricamato, su perdite subite da Livio: evidentemente gli storici non suscitavano l’interesse dei biografi e degli scoliasti tanto quanto i poeti. Ma l’opulenta città di Padova certo dovette subire aspre confische quando Pollione fu governatore della Cisalpina: i ricchi si diedero alla macchia, e piú d’uno schiavo denunciò il suo padrone21. Se Livio, Orazio e Virgilio ebbero personali e concreti motivi di gratitudine nei confronti di Augusto, ciò contribuí forse a rafforzare, ma non a corrompere, un atteggiamento naturale in quanti appartenevano a questa pacifica e apolitica categoria della società. D’altro canto, il loro genio non fu una creazione del principato augusteo. Avevano raggiunto tutti la virilità e la maturità nel periodo della rivoluzione; e tutti ripagarono Augusto molto di piú di quanto egli o la sua epoca abbiano potuto dare loro.

Orazio era figlio di un ricco liberto di Venosa. Virgilio e Livio avevano origini piú rispettabili. Qualunque siano le differenze razziali che una mentalità pedante o acritica potrebbe eventualmente voler stabilire fra Mantova, fondata, secondo la leggenda, dagli Etruschi, e Padova, la città degli Illirici Veneti, non sono assolutamente rilevabili nel carattere o nell’atteggiamento politico di Virgilio e di Livio. Entrambi possono essere senz’altro considerati tipici rappresentanti delle classi abbienti della nuova Italia settentrionale, che era patriottica piuttosto che partigiana. Il Settentrione, diversamente da altre parti d’Italia, non aveva una storia propria, con ricordi di un’antica indipendenza da Roma – o di recenti ostilità. Per quel che concerneva la politica di Roma, aveva convinzioni incerte e confuse. C’era una patriottica reminiscenza del grande Mario che aveva salvato l’Italia dall’invasore germanico, c’era una certa devozione per Cesare che si era fatto paladino delle comunità dell’Italia Transpadana e aveva ottenuto per esse la piena cittadinanza romana. Ma la gente del Settentrione, pur essendo pronta e aperta al progresso, era tutt’altro che rivoluzionaria. Per molti aspetti, anzi, le vedute erano notevolmente tradizionali e antiquate. Le simpatie repubblicane erano espresse apertamente. Cassio aveva ereditato da suo padre strette relazioni con i Transpadani22; e il padre di Bruto era stato assediato a Modena da Pompeo, e, al tempo di Augusto, Milano conservava con orgoglio le statue dei liberatori23. D’altro canto, Bologna apparteneva alla clientela degli Antoni.

Ma al di sopra di tutti questi particolarismi, comprensibili in un territorio coloniale e di frontiera, c’era la comune devozione nazionale verso Roma. Inoltre, come c’era da aspettarsi in una regione che soltanto di recente era entrata a far parte dell’Italia, la parola «italico» aveva un suono piú enfatico e un contenuto sentimentale piú ricco che altrove24. Per quanto si parlasse continuamente di un’Italia unita e per quanto la riconciliazione fosse ormai una realtà, c’erano indubbiamente ancora dei Romani che restavano un po’ scossi a sentir definire «italico» l’esercito del popolo romano:

hinc Augustus agens Italos in proelia Caesar25.

Augusto fu particolarmente fortunato a scoprire il suo poeta epico dell’Italia in un uomo la cui poesia e i cui sentimenti armonizzavano senza sforzo con le sue idee e la sua linea politica. C’era in lui la tota Italia di Augusto, spontanea e sorprendente. Per il transpadano Virgilio, Azio è la vittoria dell’Italia, non di Roma soltanto. Un pensiero, questo, che non trova espressione nelle versioni di Orazio e di Properzio. Anzi, Properzio, quando canta le lodi d’Italia in chiave patriottica, non si rivolge all’Italia, ma al nome di Roma:

omnia Romanae cedent miracula terrae26.

Non tutti i poeti, per carattere o per condizione, erano inclini come Virgilio e Orazio a tali panegirici senza riserve nei confronti del nuovo Stato. Mecenate aveva accolto anche Properzio, un giovane umbro nel quale riviveva qualcosa del fuoco e della passione del transpadano Catullo. Veniva da Assisi, troppo vicina alla sfortunata Perugia, quella parte d’Italia che aveva amaramente espiato la colpa di essersi lasciata coinvolgere in una guerra civile di Roma:

si Perusina tibi patriae sunt nota sepulcra

(Italiae duris funera temporibus

cum Romana suos egit discordia civis),

sic mihi praecipue pulvis Etrusca dolor27.

Un congiunto di Properzio era caduto nella guerra di Perugia28. La sua avversione per la guerra era ben motivata. Proclamava di essere il poeta dell’amore e della pace:

pacis amor deus est, pacem veneramur amantes29.

Nessun figlio suo avrebbe fatto il soldato:

nullus de nostro sanguine miles erit30.

La sua famiglia era stata spogliata dei beni durante le guerre civili31. Ciononostante, il poeta aveva parenti molto in vista, la gens Elia Gallia, e amici influenti, Mecenate e i Volcaci, famiglia perugina di condizione consolare32. Come il suo consanguineo Gaio Properzio Postumo, avrebbe potuto aspirare al rango senatorio.

Properzio preferí la sua Cinzia, la sua arte alessandrina e la fama di «Callimaco romano»: nello spirito e nei temi, è vicino alla generazione precedente. Ma anche Properzio non si poté sottrarre al tema patriottico, o forse alle ripetute insistenze di Mecenate. Nonostante tutta la sua avversione per la guerra, riuscí a distogliersi dal suo amore e dalle sue tristezze d’innamorato per celebrare con calore, e con aria di profonda convinzione, la guerra di Azio, o per patrocinare in tono solenne la vendetta di Crasso33.

Tuttavia, le antichità rientravano nella linea di un Callimaco meglio della storia contemporanea. Properzio seppe esporre antiche leggende e costumanze religiose con simpatia ed eleganza a un tempo. Ma soprattutto il lamento da lui composto in memoria della matrona romana Cornelia, moglie di Paullo Emilio Lepido, rivela una gravità e una profondità di sentimenti a paragone delle quali gran parte della letteratura formale della Roma augustea appare stentata, superficiale e vuota34. Properzio apparteneva a un’antica civiltà che riconosceva e rispettava la maestà della morte e i morti.

Properzio avrebbe potuto essere per Mecenate un investimento altamente remunerativo. Ma morí giovane – o abbandonò completamente la poesia. Ovidio, piú giovane di lui di circa dieci anni, sopravvisse ad Augusto e morí in esilio all’età di sessant’anni. Nei suoi Amores cantava amori illeciti e si prendeva gioco dell’esercito:

militat omnis amans, et habet sua castra Cupido35.

Ma non fu soltanto la sconvenienza dei suoi carmi a incorrere nel biasimo di Augusto. La poesia, come era stabilito, doveva essere utile. Ovidio accolse quel principio e lo applicò a rovescio. Avrebbe potuto educare la gioventú di Roma a venerare il passato, a essere degna di Roma per valore e virtú. Invece, compose un poema didascalico sull’arte di amare. Il trattatello non si proponeva di essere preso sul serio – era solo una specie di parodia. Ma Augusto non colse lo scherzo. Come gli antichi Germani descritti da Tacito, non credeva che il rilassamento dei costumi potesse essere oggetto di innocuo divertimento36.

Né d’altra parte però si può prendere sul serio Ovidio stesso nella veste di libertino o di corruttore della gioventú. Egli avanzò la giustificazione abituale del poeta erotico: se la sua pagina può essere scabrosa, la sua vita è casta:

vita verecunda est, Musa iocosa mea37.

Nonostante i suoi precedenti vanti di prodezze erotiche, è probabile che gli si debba credere. La Corinna degli Amori non può competere con la Cinzia di Properzio. Corinna è letteratura, una figura composita, o meglio immaginaria. Il poeta stesso, che si era già sposato tre volte, non fu infelice nella sua ultima scelta, che era una donna esemplare e virtuosa38.

Ma tutto ciò non importava. Ovidio era una vergogna. Aveva rifiutato di servire lo Stato. Sulmona e i Peligni, popolo virile e ardimentoso, avrebbero dovuto dare un migliore contributo alla nuova Italia, e acquistarsi una reputazione piú nobile della fama di essere la patria di un poeta erotico. Augusto non lo dimenticò. Invano Ovidio cosparse le sue nugae di calde lodi per la dinastia regnante e invano volse la sua frivola penna alla versificazione del calendario religioso romano. Lo scandalo della nipote di Augusto, Giulia (8 d.C.), forní il pretesto. Non c’è neppur da pensare a una qualsiasi complicità attiva da parte di Ovidio; il misterioso errore cui accenna il poeta era probabilmente piuttosto banale39. Ma Augusto era vendicativo. Voleva una punizione esemplare – e magari trovare un capro espiatorio con un’assoluta innocuità politica che distogliesse l’attenzione dalle colpe reali di Giulia, di suo marito e dei suoi cosiddetti amanti, e desse l’impressione che si volesse vendicare la morale offesa. L’auctoritas di Augusto fu di per sé sufficiente40: Ovidio ricevette l’ordine di partire per Tomi, città greca sulla costa del Mar Nero. Era difficile mandarlo piú lontano.

Poesia e storia avevano il compito di operare sulle classi alte e medie di una società rinnovata. Queste, con la loro influenza e con il loro esempio, avrebbero fatto sí che le lezioni di patriottismo e moralità si divulgassero a piú ampi strati e scendessero piú a fondo. Cosí coloro che non erano ammessi ai salotti letterari dei ricchi, che non avevano il gusto dei buoni libri o i mezzi per acquistarli, avevano sotto gli occhi moniti d’ogni genere.

Il potentato repubblicano soleva accattivarsi il favore del popolo sovrano con generoso spiegamento di giochi, spettacoli e trionfi. Nell’allestire spettacoli, nessuno poté competere con Augusto quanto a risorse materiali, abilità organizzativa e senso teatrale. Duecentocinquantamila plebei romani erano iscritti nelle sue liste fra gli aventi diritto fisso alla distribuzione di grano, e in occasioni speciali avevano luogo anche distribuzioni di vino e di olio. Ma sapeva essere rigido. Quando venne la carestia, e la folla si lamentava per il rincaro del vino, il princeps puntualizzò che c’era sempre l’ottima acqua degli acquedotti che suo genero aveva costruito per il popolo41. Avrebbe potuto aggiungere che ora c’erano anche i bagni pubblici. Ma le lamentele erano rare. I poveri esternavano la loro gratitudine convenendo in massa al Campidoglio il primo giorno dell’anno e contribuendo con qualche monetina a un fondo in onore del princeps: i proventi venivano utilizzati per dedicare statue nei templi42. E non era tutto. Quando Augusto portò a termine l’organizzazione delle guardie civiche, ai vicomagistri fu affidata la cura dei templi dedicati al culto dei Lares compitales, ai quali era associato il genius del princeps43.

Qualsiasi festività offriva il destro per rinsaldare la devozione del popolo e per impartirgli la lezione adatta. La politica familiare del nuovo Stato ricevette una trionfale pubblicità dal vivo quando un vigoroso plebeo di Fiesole venne al Campidoglio e offrí sacrifici, accompagnato dalla lunga teoria dei suoi discendenti viventi: sessantuno in tre generazioni44. Perfino gli schiavi potevano essere elogiati: Augusto innalzò un monumento in onore di una giovane che aveva dato alla luce cinque figli in un solo parto45. Per motivi meno evidenti un’attrice centenaria si esibí durante i giochi votati e celebrati per la salute di Augusto46; e un rinoceronte fu solennemente esposto nei recinti elettorali del popolo romano47.

Quando Lepido finalmente morí, nel 12 a.C., Augusto assunse la dignità di pontifex maximus. Per assistere all’investitura – o meglio per conferirgli la carica, dato che Augusto restituí al popolo il diritto elettorale, in netto contrasto con il modo di procedere di Antonio nell’ultima occasione –, affluí a Roma dai municipi italici una folla quale mai si era vista in precedenza48. Questa manifestazione spontanea e unica nel suo genere assunse il carattere di un plebiscito che esprimeva devozione al princeps e fiducia nel governo.

C’erano poi altri metodi di convincimento e di propaganda meno spettacolari ma piú duraturi49. Quando l’uomo del popolo rigirava in mano una moneta, aveva modo di meditare sui propositi o sulle realizzazioni del governo espresse in lapidarie diciture: Libertatis p(opuli) R(omani) Vindex, Civibus Servatis o Signis Receptis. È anzi piuttosto sorprendente che non si attingesse con maggiore frequenza al ricco vocabolario della politica. Tota Italia, ad esempio, non sarebbe stato fuori posto.

La figura fisica stessa del princeps e le sue sembianze erano ovunque ritratte, a Roma e in tutto il mondo. È vero che egli fece fondere nientemeno che ottanta statue d’argento che gli erano state erette a Roma e le fece trasformare in doni votivi ad Apollo, suo patrono50. Ma ce n’erano a disposizione di altri materiali. Il fedele cittadino poteva contemplare Augusto nell’atteggiamento del giovane capo rivoluzionario, dall’espressione risoluta e quasi feroce, oppure in quello dell’anziano sacerdote con il capo velato, austero e distante. Piú rivelatrice forse, è la figura in armi di Prima Porta, che raffigura un princeps di mezza età, saldo e marziale, ma insieme pensoso e tutto votato al dovere:

Troius Aeneas, pietate insignis et armis51.

Gli augusti motivi della guerra e della pace furono al centro della celebrazione pubblica e monumentale. Il modo ufficiale di trattare questi temi fa sí che molta della poesia augustea si presenti come una profezia ispirata dall’alto – e mostra con che sorprendente fedeltà i poeti esponessero lo spirito del programma nazionale. Nel 13 a.C., quando Augusto e Agrippa erano rientrati dalle province, con l’impero pacificato e con nuove conquiste in procinto d’essere avviate, il Senato decretò che si erigesse un altare della Pax Augusta. Il monumento fu inaugurato tre o quattro anni dopo. Sui pannelli a bassorilievo si poteva vedere il princeps che, con la famiglia e gli amici, si recava processionalmente al sacrificio. Un Senato riconoscente e un popolo rigenerato prendevano parte alla cerimonia. Il nuovo regime era in pace con gli dèi e rendeva omaggio alla terra. La terra ricambiava con il dono dei suoi frutti: «iustissima tellus». La figura della Terra Mater, benigna e solenne, era fonte, garanzia e testimonianza di prosperità. E poiché non si poteva tralasciare il passato piú significativo, appare anche Enea nell’atto di compiere un sacrificio, dopo aver avuto la visione che presagiva alla sua famiglia una stabile casa in Italia.

La Pax Augusta non poteva andar separata dalla Victoria Augusti. Le marziali origini e le marziali virtú del popolo e della dinastia furono pertanto convenientemente rievocate dal tempio di Marte Ultore e dall’adiacente foro di Augusto52. Questo era l’ambiente consacrato in cui il Senato discuteva della guerra e della pace, in cui i generali presentavano suppliche prima di raggiungere i loro eserciti o ringraziamenti al ritorno da guerre vinte. Tutto attorno al foro si levavano le figure di uomini in armi con iscrizioni che celebravano le loro res gestae, da Enea e Romolo giú giú fino agli eroi moderni che avevano celebrato trionfi o ricevuto gli ornamenta triumphalia al posto di quell’onorificenza. Nel tempio poi, tre divinità trovavano concorde dimora, Marte, Venere Genitrice e il divus Iulius. Marte e Venere erano i progenitori della casa Giulia. Il tempio di Marte Ultore era stato promesso in voto dal figlio di Cesare a Filippi quando si trovò a combattere contro gli uccisori del genitore, i nemici della Partia. Divus Iulius era la parola d’ordine dell’esercito cesariano; e il divus Iulius era stato vendicato dal figlio ed erede. Questo monumento dinastico è un promemoria, se pur ce ne fosse stato bisogno, che il princeps era il travestimento, non il sostituto del dux.

Augusto era divi filius. La vendetta di Cesare era stata il grido di battaglia e la giustificazione dell’erede di Cesare. Antonio, al contrario, era stato condiscendente, disposto persino ad accettare un accomodamento con i cesaricidi. Era stato costretto a tributare qualche onoranza al defunto benefattore a causa della concorrenza politica che gli faceva il giovane Cesare, sei mesi dopo le idi di marzo. Tutti e tre i triumviri contribuirono alla deificazione di Cesare, ma era un impegno politico solo di Ottaviano, e suo ne fu lo sfruttamento piú integrale e il vantaggio piú concreto. Nell’atmosfera credula e febbrile della rivoluzione, dappertutto si videro, si riesumarono, si inventarono segni celesti del favore divino per l’erede di Cesare, specialmente quando erano ormai scomparsi i testimoni oculari53. Che la moglie di Gaio Ottaviano si era addormentata nel tempio di Apollo e aveva ricevuto la visita di un serpente. Che proprio il giorno della nascita di suo figlio il grande astrologo Nigidio Figulo aveva tratto l’oroscopo che preannunciava il sovrano del mondo. Il bambino sapeva appena parlare quando aveva ordinato alle rane di tacere. Da allora in quel luogo non si era piú sentita gracidare una rana. Quando l’erede di Cesare era rientrato per la prima volta a Roma, il sole fu circondato da un alone; e l’auspicio di Romolo salutò la presa di Roma l’anno seguente. Cicerone in un’orazione politica definiva il suo giovane alleato «divinus adulescens»54. L’epiteto era retorico, non religioso: lo attribuí anche alle legioni che avevano disertato Antonio console, «legioni divine». Ma l’oratore sarebbe rimasto impressionato se avesse saputo che la testimonianza dei suoi sogni precedenti sarebbe stata conservata e richiamata: un fanciullo che veniva calato dal cielo con un’aurea catena, che atterrava sul Campidoglio e che riceveva da Giove un simbolo di sovranità; questo fanciullo era stato poi ravvisato il giorno seguente da Cicerone quando gli capitò la prima volta di vedere il bisnipote di Cesare in compagnia del dittatore.

Perugia, Filippi e Azio ebbero tutte i loro prodigi. Con la vittoria questo dilagare di miracoli e di propaganda diminuí sensibilmente, ma non cessò del tutto. Uno strumento di potere piú duraturo nel frattempo si stava lentamente plasmando. Augusto si sforzò di resuscitare l’antica religione, ma non tutti erano sensibili al rituale arcaico e all’austero richiamo degli dèi tradizionali di Roma. Nemmeno il divus Iulius bastava. Suo figlio quindi difficilmente avrebbe potuto impedire, anche nel caso gli fosse convenuto, che la gratitudine popolare per la sua persona assumesse la forma di onori pressoché divini.

Augusto non era un dio, per quanto a tempo debito la divinizzazione sarebbe arrivata per i suoi meriti e per i servigi resi, come era accaduto a Ercole, che aveva reso il mondo abitabile agli uomini, e a Romolo, il fondatore di Roma. Nel frattempo si poteva festeggiare adeguatamente il suo compleanno e la sua salute, le sue virtú e i suoi attributi. La devozione poteva essere tributata non all’uomo ma al divino potere che era in lui, al suo genius, al suo numen:

praesenti tibi maturos largimur honores,

iurandasque tuum per numen ponimus aras55.

A Roma i magistri vicorum avevano i loro altari; analogamente ne avevano per tutta Italia e nelle città romane all’estero gli officianti del nuovo culto civico, i seviri o augustales. Queste manifestazioni di omaggio erano testimonianza di devozione al governo e insieme assecondavano la politica dinastica e monarchica di Augusto. Una sensibile estensione e intensificazione del culto verso l’anno 2 a.C. è il riflesso dei suoi palesi progetti per la successione di Gaio e Lucio. Per sé non ne aveva certo bisogno. Nella colonia di Acerra, in Campania, un centurione eresse un altare ai giovani principi con un’iscrizione in versi che tributava loro gli onori dovuti agli eroi e preludeva al loro dominio:

nam quom te, Caesar, tem[pus] exposcet deum

caeloque repetes sed[em qua] mundum reges

sint hei tua quei sorte te[trae] huic imperent

regantque nos felicibu[s] voteis sueis56.

Quando morirono, il senato civico di Pisa diede sfogo al suo patriottico dolore in un’iscrizione commemorativa di sproporzionata lunghezza57.

Da Roma questo sentimento si irradiò ai municipi romani – o meglio, i municipi con zelante lealtà, per dare voce al proprio atteggiamento, imitarono i temi e le forme rese esemplari dalla linea politica ufficiale della capitale. A Potenza nel Piceno un sevir dedicò una copia del famoso scudo che recava istoriate le virtú cardinali di Augusto58. Molte città devote possedevano in proprio copie dei Fasti consulares e del calendario religioso ufficiale59. Ad Arezzo si potevano vedere le statue e le iscrizioni di generali romani, fatte a imitazione di quelle del foro di Augusto60. A Cartagine c’era un altare della gens Augusta sul quale erano riprodotte, almeno in parte, le sculture dell’Ara Pacis Augustae61; e a Tarragona e a Narbona furono consacrati altari al culto del numen di Augusto62.

L’Italia e le province d’Occidente avevano prestato un giuramento militare di fedeltà individuale al comandante della guerra d’Azio: non fu annullato quando quegli divenne magistrato a Roma, in conformità delle leggi di Roma. Un analogo giuramento si può presumere che venisse richiesto alle province orientali quando furono riprese ad Antonio. Per lo meno in seguito, subito dopo che il territorio della Paflagonia fu annesso alla provincia della Galizia, tutti gli abitanti della regione, indigeni o cittadini romani che fossero, giurarono solennemente e unanimemente su tutti gli dèi e su Augusto stesso fedeltà al sovrano e alla sua casa (3-2 a.C.)63.

In regioni dove la sudditanza ai re era inveterata tradizione e immutabile usanza, era naturale che il sovrano fosse oggetto di venerazione, con manifestazioni di omaggio pari a quelle dovute agli dèi. In Egitto, a tutti gli effetti, Augusto era succeduto a un Tolemeo come un Tolemeo era succeduto a un faraone: dio e padrone del paese. Nel resto dell’Oriente, Augusto ereditò dai potentati Pompeo, Antonio e Cesare assieme alle clientelae anche l’ossequio loro tributato. Cesare accettò le onoranze da chiunque gliele decretasse certamente nello stesso spirito in cui gli venivano concesse: non è possibile rintracciare una linea politica e sistematica. Una volta ancora Augusto si presenta scopertamente come lo studiato fondatore della monarchia, il creatore consapevole di un sistema. Monopolizza per sé e per la dinastia ogni forma e ogni tipo di vassallaggio: non un solo proconsole di Roma viene piú onorato nelle forme tradizionali dei paesi orientali. Il linguaggio di quella graeca adulatio tanto repellente alla sensibilità repubblicana diventa sempre piú esuberante e adorno. Augusto non solo è, come i suoi predecessori, un dio e un salvatore; non solo prende da Pompeo il titolo di «custode della terra e del mare»64; non solo le città fanno a gara nel riversare fiumi di ditirambi, come ad esempio Sardi con le sue eccessive effusioni in onore dei principi Gaio e Lucio65. Ora sono le assemblee di intere province a mettersi in moto per ostentare tutta la loro gratitudine e venerazione. La Galazia edifica un tempio dedicato al culto congiunto di Augusto e della dea Roma66. La provincia d’Asia è esortata da quel devoto proconsole che era il patrizio Paullo Fabio Massimo ad adottare come primo giorno del suo calendario il giorno del compleanno del princeps, perché quel giorno aveva annunciato al mondo liete novelle67. L’Asia oltrepassa addirittura i limiti della decenza nei ringraziamenti che rivolge alla divina provvidenza68. Se tale era il comportamento di cittadini, di uomini liberi, ci si può immaginare quale fervido zelo dispiegassero re, tetrarchi e regoli nel promuovere il culto del loro patrono, amico e signore. Diedero il suo nome a città. Eressero templi in suo onore69. Uno dei primi e piú zelanti propagatori della nuova fede fu Erode, re di Giudea70.

In Oriente, i cittadini romani si unirono ai Greci nel culto divino di Augusto. In Occidente era diverso. Le città romane avevano degli altari dedicati ma non dei templi, come a Tarragona e Narbona. Per il momento non c’era un culto provinciale in queste regioni, poiché le colonie e i municipia erano unità amministrative autonome e facevano parte integrante del popolo romano. Tanto piú che il cittadino romano dei municipi, con la sua tradizione di leggi e di governo, poteva rispettare il magistrato e l’imperator senza bisogno di inchinarsi al potere alla maniera orientale. Cosí stavano le cose, almeno in teoria, per ciò che concerne la Gallia Narbonense e le zone piú civilizzate della Spagna.

La Gallia conquistata da Cesare subí un trattamento particolare. L’intervento romano e il dominio romano erano stati giustificati con la difesa della Gallia contro l’invasore germanico. Allorché i Romani mossero alla conquista della Germania, si proposero di valersi delle reclute dei capi della Gallia Comata e si sforzarono di dare alla guerra il carattere di una crociata. A tal fine, Druso consacrò a Lione un altare a Roma e ad Augusto, attorno al quale poterono raccogliersi e proclamare la propria lealtà i rappresentanti delle popolazioni della Comata71. Come in Galazia e nelle città d’Asia, l’aristocrazia terriera e di sangue è saldamente ancorata alla clientela di Cesare Augusto e della dinastia in primo luogo, e poi, attraverso la dinastia, a Roma e all’impero72. Questo istituto avrebbe inoltre suscitato fra i Galli tanta unità d’intenti quanta poteva convenire agli interessi di Roma, senza peraltro creare un pericoloso nazionalismo. Il calcolo si dimostrò esatto.

Le diverse forme assunte dal culto di Augusto a Roma, in Italia e nelle province illustrano i diversi aspetti della sua sovranità – princeps per il Senato, imperator per l’esercito e il popolo, re e dio per le popolazioni soggette dell’impero – e riassumono le fonti del suo potere personale nei confronti di città, province e re. La somma totale di potenza e prestigio era spaventosa. Chi avrebbe mai potuto osare competere o opporsi?