Quando una fazione ha trionfato con la violenza e si è impadronita del controllo dello Stato, sarebbe pura follia considerare il nuovo governo come repertorio di personaggi simpatici e virtuosi. La rivoluzione richiede e ingenera qualità piú severe. Riguardo ai personaggi chiave al governo del nuovo Stato, e cioè riguardo al principe stesso e ai suoi alleati Agrippa, Mecenate e Livia, la storia e la scandalistica ci hanno tramandato testimonianze sufficienti a smascherare la cruda realtà del loro dominio. Lo splendido alone di gloria che li circonda può abbagliare, ma non accecare l’occhio del critico. Altrimenti, non può esservi storia di quei tempi degna di questo nome, ma soltanto adulazione e giustificazione pratica del successo.
Un uomo soltanto, fra tutti quelli che la rivoluzione aveva portato al potere, meritava una qualche considerazione da parte dei cittadini, e cioè Agrippa; cosí diceva qualcuno1. Informatori ingenui o maligni ci fanno vedere nei personaggi piú eminenti del governo nazionale una sinistra masnada degna erede dei terribili generali dei triumviri – Balbo, il milionario superbo e crudele, Tizio, sleale e ingrato, il rozzo e avido Tario, il poco affascinante Quirinio, acre e duro e odiato in vecchiaia, e infine Lollio, il rapace intrigante. Nulla si sa a discredito di Tito Statilio Tauro, Gaio Senzio Saturnino, Marco Vinicio e Publio Silio2. Ma fu forse piú fortuna che merito se le loro figure restarono sbiadite e neutre: i loro discendenti godettero di potere e fama, e i loro avversari stettero zitti; e il nipote di Vinicio fu il patrono di uno storico devoto e zelante. Al contrario, Lollio fu un capro espiatorio della politica, e Quirinio, Tizio e Tario non ebbero figli di rango consolare che fossero oggetto di timore o di adulazione.
È evidente che a questo ha contribuito un pregiudizio tradizionale per i Romani, acuitosi durante il predominio della fazione cesariana e che, nell’impossibilità di attaccare il capo del governo, si accaní a mettere in evidenza, o a inventare di sana pianta, gli oscuri natali, il carattere repellente, le cattive azioni degli homines novi che avevano una posizione dominante nell’oligarchia. Nella loro schiera, come fra l’ignobile e impudente gentaglia dell’età precedente, si potevano trovare delle ottime persone, figli dell’antica aristocrazia italica, le cui private virtú non bastavano a compensare la colpa basilare di trovarsi politicamente dalla «parte sbagliata» e di avvantaggiarsi a spese di quelli migliori di loro. È probabile che lo sport della diffamazione del parvenu sia nato presso l’aristocrazia, ma fu prontamente adottato con snobistico entusiasmo da altre classi sociali. Sono proprio i figli di cavalieri romani che ci hanno tramandato i piú tipici e maligni ritratti di homines novi.
I nobiles erano relativamente immuni. Se non fosse stato per questo, i partigiani aristocratici di Augusto avrebbero illustrato la storia con una non meno vivace fantasmagoria di personaggi ripugnanti. L’homo novus, avido e intrigante, si spogliava di tutte le apparenze nella corsa alla ricchezza e al potere. Il nobilis, che dava meno nell’occhio, non è detto che fosse migliore. Dopo una rivoluzione sociale, il primato dei nobiles era una truffa oltre che un anacronismo – era basato sull’appoggio morale e materiale di un capo militare avverso alla loro classe ottenuto in cambio della loro rinuncia al potere e all’ambizione. Tornarono in auge orgoglio e lignaggio: per mascherare servilismo o inconsistenza. Gli aristocratici, riaffiorando dall’onda che aveva minacciato di sommergerli durante il periodo rivoluzionario, non ricavarono nessun insegnamento dalle avversità tranne la convinzione che la miseria era il peggiore dei mali. Da qui la cupidigia e la rapacità indispensabili a riparare i patrimoni dissestati, nonché la speranza che il princeps avrebbe provveduto: Roma aveva un debito con i loro antenati. Il debito fu pagato dal principato con il pretesto di servigi resi allo Stato e di onore nell’oratoria o nel diritto, ma soprattutto e sempre di piú per l’unico motivo del nobile lignaggio3.
L’oligarchia sillana si era rappacificata con la monarchia. Tuttavia, verso la fine del regno di Augusto restava ben poco della fazione catoniana e delle quattro casate aristocratiche che avevano spalleggiato Pompeo. I patrizi Lentuli erano parecchi di numero, ma non altrettanto dotati di qualità personali. Il fatto che Lucio Domizio Enobarbo fosse l’avo dell’imperatore Nerone è stato sufficiente a salvarlo sia dall’oblio sia dal panegirismo: era un sanguinario, arrogante e stravagante4. Augusto era dovuto intervenire personalmente per vietare uno dei suoi spettacoli gladiatori. Questo Enobarbo lasciò un figlio, assolutamente ripugnante5.
Augusto aveva particolare deferenza verso il patriziato. L’ultima rinascita della piú antica aristocrazia di Roma svelava tutta la sua profonda inconsistenza nel carattere dei principes viri, inclini a uno stupido orgoglio o a un pervicace splendore. Gli Emili erano leggeri e infidi. Dei Sulpici, Servio Galba e suo padre, gobbo e deforme, non dimostrarono vere capacità, essendo debitori della loro carriera allo snobismo e alla benevolenza femminile6. Publio Quintilio Varo, apatico, rapace, incompetente, paga con questi tre epiteti la colpa, non completamente sua, di avere perduto tre legioni7. Fra i patrizi i piú eminenti erano i Fabi e i Valeri. Da quest’ultima famiglia uscí un proconsole obbrobrioso e sanguinario8; e, se si sapesse di piú sulla personalità dell’intimo amico di Augusto, il compito Paullo Fabio Massimo, «centum puer artium», di quanto non ci dicano la bella ode di Orazio e le devote effusioni di Ovidio, forse non stonerebbe a fianco di suo figlio, il malfamato Persico, che Claudio, imperatore non estraneo a una malvagia ironia, chiamava «nobilissimus vir, amicus meus»9.
Gli affermati homines novi riescono a conservare le loro posizioni. E vano è ogni sforzo rivolto a incriminare o a riabilitare i solidi arrivisti che avevano aiutato a fondare la monarchia. Aveva buon gioco la violenza e insieme con l’inganno e il tradimento. Quinto Dellio, di proverbiale agilità, aveva disertato l’una e l’altra parte al momento opportuno. È strano che Orazio debba avere sentito il bisogno di rammentargli la necessità di conservare l’animo imperturbato nella buona e nella cattiva sorte10. I guai di Dellio erano ormai finiti. Nell’esortare Planco a cercare conforto nel vino, Orazio contempla la possibilità che Planco debba tornare alle guerre11. Ma non c’era la minima probabilità: nell’ombrosa frescura di Tivoli, Planco poteva godersi il suo riposo, ripensando, non senza compiacimento, che in tutte le sue numerose campagne, con tutto il suo titolo di imperator bis, e nonostante il fregio con armi sul mausoleo che stava costruendosi a Gaeta, raramente si era reso responsabile dello spargimento di sangue romano12. Con questo merito al suo attivo, Planco poteva ridere dell’invidia impotente dei suoi detrattori e dell’infamante appellativo di traditore cronico, «morbo proditor»13. Gli sciocchi e i fanatici condividevano la sorte delle cause perse, i traditori e gli opportunisti sopravvivevano, guadagnandosi la gratitudine del popolo romano.
Figure piú rispettabili e piú indipendenti di Dellio e Planco erano Messalla e Pollione, i consolari patroni della letteratura augustea e loro stessi parte non piccola di quest’ultima. Il patrizio romano e l’homo novus italico avevano entrambi salvato l’onore e la fama, pur facendo la fortuna propria e delle proprie famiglie. Messalla cambiò piú volte fazione, passando ad Antonio dopo Filippi e poco dopo da Antonio a Ottaviano. Assieme ad Agrippa, Messalla s’installò nella casa di Antonio sul Palatino14. Pollione era stato meno malleabile durante le guerre civili, e l’unico neutrale nella campagna di Azio: anche con il nuovo Stato conservò la sua ferocia. Pollione odiava Planco, e scrisse un memorandum destinato alla pubblicazione solo dopo la morte di Planco stesso15; e fu Messalla a coniare per Dellio la definizione «desultor bellorum civilium»16. Tuttavia, a una valutazione imparziale, tanto Pollione quanto Messalla devono essere annoverati tra gli approfittatori della rivoluzione17. Arricchitosi con entrambe le fazioni, Pollione accrebbe la dignità oltre che il patrimonio della famiglia. Il figlio di Pollione, Gallo, sposò Vipsania, e sua figlia il figlio di un aristocratico, uno degli ultimi Marcelli18. Non dovrebbe avere avuto dunque alcun motivo di lagnarsi, nel nuovo ordinamento. Pollione visse fino a un decennio prima della morte di Augusto, pieno di energia e di vitalità fino alla fine; mentre Messalla, decadendo progressivamente, giunse al 13 d.C.19.
Sia nella vita vissuta che negli scritti, Pollione professò un attaccamento incrollabile alla libertas. Ma la libertas fu distrutta quando la virtus fu sbaragliata a Filippi. Si poteva dire che la libertà politica era già condannata, se non morta, molto tempo prima. Pollione sapeva la triste verità sull’ultima generazione della libera repubblica. Lo storico Tacito, commentando la stabilità del nuovo regime al momento in cui il potere stava per passare da Augusto a Tiberio, osserva che esistevano ormai poche persone che ricordassero la repubblica: «quotus quisque reliquus qui rem publicam vidisset?»20. Suo scopo era dichiaratamente quello di negare la repubblica di Augusto, non di riabilitare l’anarchia che aveva generato il dispotismo.
Il dominio della legge era da tempo finito, e la forza si era sostituita al diritto. La lotta per il potere nella libera repubblica era grandiosa e terribile a un tempo:
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri21.
I nobiles, con la loro ambizione e le loro inimicizie, non avevano semplicemente distrutto la loro fittizia repubblica: avevano rovinato il popolo romano.
C’è qualcosa di piú importante della libertà politica; e i diritti politici sono un mezzo, non un fine in sé. Il fine è la sicurezza per la vita e la proprietà: questo fine non poteva essere garantito dalla costituzione della Roma repubblicana. Logorato e fiaccato da guerre civili e disordini, il popolo romano era pronto a rinunciare al disastroso privilegio della libertà e a sottomettersi al governo assoluto, come all’inizio dei tempi:
nam genus humanum, defessum vi colere aevum,
ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum
sponte sua cecidit sub leges artaque iura22.
Cosí l’ordine arrivò a Roma. «Acriora ex eo vincula», nota Tacito23. Il nuovo Stato poteva esser chiamato monarchia, o con un altro nome qualunque. Non importava. I diritti personali e la condizione privata non hanno bisogno di dipendere dalla forma di governo. E sebbene la successione ereditaria fosse severamente bandita dalla teoria del principato, si fece ogni sforzo per attuarla nella pratica, per paura di qualcosa di peggio: le persone sensate avevano modo di soppesare l’apparenza ridicola e i vantaggi concreti della monarchia ereditaria24.
Con il nuovo ordine, lo Stato non sarebbe piú stato un campo di gioco per uomini politici, ma veramente una res publica. Ambizione egoistica e vincoli di devozione personali dovevano cedere il passo al dovere civico e al patriottismo nazionale. Con il principato non avevano trionfato soltanto Augusto e la sua fazione: era la vittoria delle classi non politiche. Queste potevano finalmente vivere tranquille e felici. Dichiarava un sopravvissuto alle proscrizioni: «pacato orbe terrarum, res(titut)a re publica, quiete deinde n(obis et felicia) tempora contigerunt»25. Il proletariato italico non era piú obbligato a servire nelle legioni e a spargere il suo sangue per generali ambiziosi o per fittizi ideali, né i pacifici possidenti sarebbero piú stati costretti a schierarsi in una contesa che non li riguardava direttamente e a finire spogliati delle loro terre a vantaggio delle legioni. Tutto questo era finito. La repubblica era ciò che l’uomo saggio poteva ammirare ma non imitare, come sentenziò una volta un malvagio opportunista: «ulteriora mirari, praesentia sequi»26.
Fra gli stessi nobiles debbono esserci stati ben pochi repubblicani autentici, ai tempi di Augusto. Molti di essi erano indissolubilmente legati al nuovo Stato, andandogli debitori della salvezza e della posizione. Via via che un sempre maggiore numero di figli di cavalieri romani passava dal patronato ai ranghi della classe dirigente, in Senato deve essersi sempre piú diffusa la convinzione che non solo il sistema era inevitabile, ma aveva anche i suoi vantaggi. Tuttavia, mentre era in atto questo processo, la repubblica divenne oggetto di un culto ideale, praticato con il massimo fervore dai membri della classe che doveva tutto all’impero. Il senatore Elvidio Prisco, figlio peraltro di un centurione, sarà stato sincero nelle sue convinzioni27, ma il cavaliere romano che si riempí la casa di statue di eroi repubblicani era uno snob e un arrivista28.
La professione di fede repubblicana era non tanto politica quanto sociale e morale: spesso era un innocuo atto d’omaggio al grande passato di Roma piú che la manifestazione di un attivo malcontento per il presente stato di cose. Non è quindi il caso di prenderla tanto sul serio quanto la presero imperatori sospettosi o accusatori disonesti e privi di scrupoli. Fintanto che la repubblica continuò ad avere per un certo tempo esistenza formale e legale, la dichiarazione di repubblicanesimo suonava piuttosto ingannevole; ma ora che la monarchia era saldamente fondata, non solo di fatto, ma anche nel costume e nella teoria, la mancanza di qualsiasi alternativa nella forma di governo fu un incoraggiamento per le persone serie maggiormente irresponsabili. Non c’era pericolo comunque che venissero sfidate a mettere in pratica i loro ideali.
La repubblica, con i suoi annali pieni di grandi guerre esterne e di discordie politiche interne, era un magnifico argomento storico. Bene aveva fatto Tacito a guardarsi indietro con malinconia e a lagnarsi dello squallore e della meschinità del suo argomento. Ma lo storico che aveva sperimentato, nel corso della sua vita, una guerra civile, e la minaccia di un’altra, non lasciò che il suo giudizio fosse completamente accecato da convenzioni letterarie e sentimentali. Come Sallustio e Pollione, non aveva illusioni sulla repubblica. La radice del male stava nella natura umana, torbida e inquieta, con le sue pregevoli e le sue cattive qualità: la lotta per la libertà, la gloria, il predominio29. Impero, ricchezza e ambizione individuale avevano da tempo condotto alla rovina la repubblica. Mario e Silla rovesciarono la libertas con la forza delle armi e instaurarono la dominatio. Pompeo non fu migliore di loro. E dopo ciò, soltanto lotta per il potere supremo30. Tacito non ammette neppure la possibilità della restaurazione della libera repubblica nel caso che a Filippi avessero vinto Bruto e Cassio, come era opinione convenzionale e corrente31. Personalmente, Tacito l’avrebbe ritenuta impossibile, dopo una guerra civile.
Al pari dello storico, anche lo studioso d’oratoria che era in lui sarà stato tentato di rimpiangere la grandiosa e sfrenata eloquenza degli ultimi giorni della repubblica32. Poteva esitare riflettendo che la grande oratoria è sintomo di decadenza e disordine, tanto sociale quanto politico. La corruzione elettorale, il peculato nelle province, l’uccisione di cittadini romani fornivano grandi temi e oratori con cui misurarsi. Per definizione, l’ottima forma dello Stato era esente da questi mali. Gli Stati bene ordinati, carenti di quella «licenza che gli stolti chiamano libertà», non lasciavano traccia negli annali dell’eloquenza33. Non era stato cosí per Atene e Rodi – erano democrazie, purtroppo34. Anche Roma, finché fu sulla strada sbagliata, produsse vigorosa eloquenza35. C’erano i Gracchi e Cicerone, ma ne valeva la pena?36.
L’ammiratore dell’eloquenza antica non poteva essere accontentato in entrambi i modi: godendo della libertà repubblicana e insieme dei vantaggi di uno Stato ordinato. Né c’era piú necessità di oratori, o di lunghe orazioni in Senato o davanti al popolo, ora che un solo uomo, il piú saggio, prendeva le decisioni supreme nello Stato: «cum de re publica non imperiti et multi deliberent, sed sapientissimus et unus»37.
Tacito è monarchico, per il penetrante pessimismo nei confronti della natura umana. Non c’era scampo: nonostante la nominale sovranità della legge, governava un solo uomo38. Questo è il suo giudizio su Tiberio. Non era meno valido per il principato d’Augusto – anzi, al contrario. Certo, lo Stato era organizzato in forma di principato: non di dittatura né di monarchia. Ma i nomi non contavano molto. Non passa molto tempo e l’eloquente Seneca, esortando alla clemenza il giovane Nerone, può usare indifferentemente i titoli di rex o di princeps39, tanto piú che una veneranda tradizione di pensiero filosofico sosteneva che la monarchia era la migliore forma di governo. Era anche la forma originaria, fatalmente destinata a ripetersi quando uno Stato aveva percorso l’intero ciclo dei mutamenti.
Al romano, con la sua teoria autoctona dell’imperium illimitato, era familiare il concetto del potere assoluto. Il principato, pur essendo assoluto, non era arbitrario, ma era fondato sul consenso e sulla delega di poteri, dunque sulla legge. Era qualcosa di diverso dalle monarchie dell’Oriente. I Romani non erano scesi tanto in basso. La libertà assoluta poteva non essere funzionale, ma l’asservimento assoluto era intollerabile. E il principato costituiva la via di mezzo fra questi due estremi40.
Non occorse molto tempo perché il principato desse vita alla sua propria teoria, e divenisse perciò vulnerabile alla propaganda. Augusto asseriva di avere restaurato la libertas e la repubblica, compiendo una frode tanto necessaria quanto salutare: i suoi successori pagarono per questo. La libertas, nel pensiero e nell’uso romano, non aveva mai avuto del tutto il significato di libertà illimitata; e attualmente l’ideale che si compendiava in quella parola era il rispetto delle forme costituzionali. Di fatto, era inconcepibile che un romano potesse vivere sotto qualsiasi altro ordinamento. Quindi la libertas poteva utilmente servire come slogan contro governanti impopolari, per dare al loro potere il marchio dell’illegalità e, in una parola, per definirlo dominatio e non principatus.
La libertas, secondo la tesi ampiamente condivisa negli ambienti senatoriali, doveva essere l’anima stessa del principato. Per troppo tempo quest’anima e questo corpo erano rimasti separati: si volle vederli riuniti nel principato di Nerva, che venne dopo il dominio assoluto di Domiziano41. Ma c’era un rovescio della medaglia a tutte queste belle parole, e cioè la concreta e incombente minaccia di una guerra civile. Fu scongiurata mediante l’adozione di Traiano, governatore della provincia militare della Germania Superiore; sotto il suo saldo governo, si sentí parlare meno di libertas. Tacito aveva annunciato l’intenzione di scrivere, in vecchiaia, la storia di quel tempo felice in cui avevano trionfato la libertà di pensiero e la libertà di parola, la storia del principato di Nerva e del dominio di Traiano42. Invece, si volse al cupo argomento degli Annali.
Come storico di Roma, Tacito doveva essere repubblicano, ma nella vita pratica e in politica era monarchico. Stava nel ruolo della prudenza pregare per avere imperatori buoni e andare poi d’accordo con quelli che capitavano43. Data la natura umana – «vitia erunt donec homines» –, era stupido essere idealisti44. Ma la situazione non era disperata. Un buon imperatore avrebbe elargito i benefici del suo governo al mondo intero, mentre il danno arrecato da un cattivo imperatore aveva dei limiti: ricadeva per lo piú sulla cerchia a lui immediatamente vicina45.
I Romani un tempo si erano vantati di essere i soli a fruire della libertas, mentre sottomettevano gli altri. Adesso era chiaro che l’obbedienza era il presupposto dell’impero: «idemque huic urbi dominandi finis erit qui parendi fuerit»46. Siamo molto lontani da Marco Bruto. Un nuovo concetto di virtú civica, ripreso dalle classi apolitiche della repubblica e inerente al nuovo Stato fin da principio, trovò ben presto formulazione, corredato dei suoi modelli e della sua fraseologia. La quies era una virtú per cavalieri, disdegnata dai senatori e raramente era stata possibile la neutralità in mezzo alle discordie politiche dell’ultimo periodo della repubblica. Pochi erano i nobiles che erano usciti indenni dalla prova, o per cautela come Lucio Marcio Filippo (cos. 91 a.C.) e suo figlio, o per onesto senso d’indipendenza come Pisone.
Con il principato, le cose cambiano. Per il senatore, come del resto per lo Stato, ci doveva pur essere una via di mezzo fra gli estremi della libertà fallimentare e del servilismo degradante. Una persona accorta poteva trovarla. E qualcuno lo fece. Marco Emilio Lepido godette dell’amicizia di Tiberio; sostenne il governo senza disonore, e la propria dignità senza pericolo47. Lo stesso si può dire dell’ottimo Publio Memmio Regolo, pilastro dello Stato romano e nel medesimo tempo al sicuro da ogni pericolo, benché fosse stato temporaneamente sposato a Lollia Paullina, o del venerando Lucio Volusio Saturnino, che sopravvisse a tutte le rischiose vicende del periodo Giulio-Claudio morendo a novantatre anni48. La famiglia dei Coccei, poi, ebbe un talento naturale per la vita tranquilla.
Potevano ancora esserci dei grandi uomini, perfino sotto cattivi imperatori, se sapevano contenere la propria ambizione, non dimenticavano il proprio dovere di Romani di fronte al popolo romano, e praticavano con moderazione un patriottismo piú elevato. Non era certo la gloria, ma la gloria portava sventure. Cosí conquistavano una fama meno pericolosa della vana e ostentata opposizione praticata da certi candidati al martirio, che potevano forse essere ammirati per la loro repubblicana indipendenza di carattere, ma non per la saggezza politica49. Né Tacito né Traiano condivisero questa follia: il breve e infelice principato di Nerva era un argomento valido a favore del saldo controllo dello Stato. Il fanatismo pedante era altrettanto ripugnante ai Romani, quanto la vana pompa dei re orientali: «vis imperii valet, inania tramittuntur»50.
Tacito, suo suocero e il suo imperatore dànno una mano agli opportunisti e agli arrivisti di un secolo prima per la fondazione del nuovo Stato. La politica fu abolita, o almeno sterilizzata. Di conseguenza, la storia e l’oratoria ne soffrirono, ma furono salvaguardati l’ordine e la concordia. Sallustio aveva detto: «pauci libertatem, pars magna iustos dominos volunt»51. Ora si potevano conciliare le due esigenze, con la monarchia costituzionale che rappresentava una tale garanzia di libertà quale nessuna repubblica avrebbe mai potuto dare:
nunquam libertas gratior exstat
quam sub rege pio52.
Questo era il «felicissimus status», secondo la definizione che del principato diedero Augusto e Velleio Patercolo, l’«optimus status» che Augusto s’era proposto di creare e che Seneca identificava con la monarchia53. Concordia e monarchia, pax e princeps erano inseparabili di fatto tanto quanto nelle speranze e nelle preghiere: «custodite, servate, protegite hunc statum, hanc pacem, hunc principem»54. La vecchia costituzione era corrotta, non rappresentativa, disastrosa. L’erede di Cesare la scavalcò. Quella che era un’istanza particolare o propaganda politica nel plebiscito militare del 32 a.C. divenne realtà con il principato: Augusto rappresentava il populus romanus, e sotto la sua amministrazione fiduciaria lo Stato poteva davvero chiamarsi res publica. L’ultimo dei potentati aveva trionfato nella violenza e nel sangue. Ma la sua potentia si tramutò in auctoritas, e il dux divenne benefico, «dux bonus». Forse Ovidio andò troppo oltre parlando di «dux sacratus»55. Ma dux non bastava. Augusto assunse dunque la posizione irreprensibile di princeps, senza discussione il piú grande e il migliore di tutti i principes. I precedenti erano stati dei potentati egoisti, egli era il salubris princeps. Avrebbe potuto benissimo adottare l’appellativo di optimus princeps, che fu di Traiano. Agli inizi del principato di Augusto già esistevano i concetti che si sarebbero in seguito cristallizzati in denominazioni ufficiali o convenzionali. Augusto fu acclamato pater patriae soltanto nel 2 a.C. Orazio prelude a questo titolo molto tempo prima:
hic ames dici pater atque princeps56.
La nozione di genitore porta con sé quella di protettore:
optime Romulae
custos gentis57.
Augusto è pure «custos rerum»58. È il custode particolare di Roma e d’Italia, sempre pronto al soccorso e alla vigilanza:
o tutela praesens
Italiae dominaeque Romae!59.
I greci delle città dell’Oriente salutarono Augusto come Salvatore del mondo, Benefattore dell’umanità, Dio, Figlio manifesto di Dio, Signore della terra e del mare. Marinai di Alessandria gli resero pubblico omaggio come all’autore delle loro vite, di libertà e prosperità60. Il devoto senato civico della colonia di Pisa dimostrò maggiore ritegno, ma intendeva la stessa cosa, esaltando il «Custode dell’impero romano e Governatore del mondo intero»61.
Che il potere di Cesare Augusto fosse assoluto, nessun contemporaneo poteva dubitarne. Ma il suo dominio era giustificato dai meriti, fondato sul consenso e temperato dal senso del dovere. Augusto stava come un soldato, in statione – la metafora, benché trovi dei paralleli nel linguaggio degli stoici, è tipicamente romana e militare62. E non avrebbe abbandonato il suo posto fintanto che un ordine superiore non gli avesse mandato il cambio, dopo avere compiuto il suo dovere e avere lasciato di guardia un successore. Augusto adoperava la parola statio, e cosí pure facevano i suoi contemporanei63.
Il governo di Augusto era dominio su tutto il mondo. Nei confronti del popolo romano, egli aveva la posizione del Padre, del Fondatore e del Custode. Silla si era sforzato di restaurare la repubblica in rovina; e Cicerone, per aver salvato Roma durante il suo consolato, era stato salutato pater patriae. Ma Silla, con ben giustificato odio, fu detto «il Romolo infausto»64, e Cicerone, a spregio della sua vanagloria, il «Romolo d’Arpino»65. Augusto, invece, aveva un concreto motivo per voler essere riconosciuto e onorato come il Fondatore, «augusto augurio», secondo le parole di Ennio; e i Romani potevano sentirne la presenza nel suo lignaggio e nelle sue tradizioni. Ennio, ancora una volta, deve essere apparso profetico:
O Romule, Romule die,
qualem te patriae custodem di genuerunt!
o pater, o genitor, o sanguen dis oriundum,
tu produxisti nos intra luminis oras66.
Anche la posizione di Augusto in rapporto allo Stato romano potrebbe esser definita piú funzionale che arbitraria o formale. Si disse che aveva avocato a sé tutte le funzioni del Senato, dei magistrati, delle leggi. Vero, anche se è piú acuta l’osservazione che si era abbarbicato tutt’attorno al tronco dello Stato. Il nuovo elemento aveva rinvigorito l’insieme e non poteva esserne rimosso senza danno67.
Il suo dominio era personale quanto altri mai, e la sua posizione divenne sempre piú quella di un monarca. Ciononostante, Augusto non era indispensabile: questo fu il successo piú grande di tutti. Se egli fosse morto nei primi anni del principato, gli sarebbe sopravvissuta la sua fazione, con a capo Agrippa o un comitato di generali. Ma Augusto visse e continuò a vivere, con una durata che aveva sempre piú del portentoso. Con il passare degli anni, si rese sempre piú indipendente dal controllo dei suoi antichi partigiani: i nobiles tornarono alla ribalta e la stessa fazione cesariana fu modificata e trascesa. Fu creato un governo.
«Legiones, classes, provincias, cuncta inter se conexa»68. Con queste parole Tacito intende descrivere l’impero e le sue forze armate. L’espressione potrebbe applicarsi perfettamente all’intera struttura dello Stato romano. Era salda, ben articolata e flessibile. Richiamandosi all’antico, Augusto giustificava il nuovo. Ponendo l’accento sulla continuità con il passato, alimentava le speranze di progresso per il futuro. Il nuovo Stato, istituito come consolidamento della rivoluzione, non era né chiuso né statico. Pur avendo ogni classe della società la sua particolare funzione, non c’era una netta divisione tra le classi. Prestare servizio per Roma procurava riconoscimenti e promozioni al senatore, al cavaliere e al soldato, al cittadino romano e al provinciale. Le ricompense non erano cosí splendide come durante le guerre della rivoluzione, ma il ritmo, anche se piú calmo, era regolare e costante.
La piú fervida preghiera di Augusto era che gli fosse concesso di dare al nuovo ordine fondamenta profonde e solide69. Aveva fatto piú di questo. Lo Stato romano, saldamente poggiato su un’Italia unita e un impero compatto, risultava completamente rinnovato con nuove istituzioni, nuove idee e perfino una nuova letteratura che era già classica. La sfortuna dell’impero aveva pesantemente gravato su Roma, con la minaccia della rovina. Ma adesso, un popolo romano rinvigorito, forte e fiducioso poteva sopportarne l’onere con orgoglio e in piena sicurezza.
Augusto si è poi anche augurato di trovare un successore al suo posto di onore e di responsabilità. Le sue speranze piú care, i suoi progetti piú tenaci erano andati frustrati. Ma la pace e il principato resistettero. un successore era stato trovato, addestrato alla sua scuola, un aristocratico romano scelto nella cerchia dei principes, e per generale consenso capace di regnare. Forse sarebbe stato meglio per Tiberio e per Roma se Augusto fosse morto prima: la sua lunga vita, assuefacendo l’animo della gente al principato come a qualcosa di duraturo ed elevando il prestigio del princeps oltre i limiti umani, se da un lato consolidava il suo regime personale e il nuovo sistema di governo, rendeva tuttavia piú delicato e piú arduo il compito del successore.
L’ultimo decennio di vita di Augusto fu turbato da scandali familiari e da disfatte alle frontiere dell’impero70. Ciononostante, quando venne la fine, la accolse sereno e fiducioso. Sul letto di morte non fu tormentato da rimorso per i suoi peccati né da preoccupazione per l’impero. Domandò tranquillamente ai suoi amici se avesse sostenuto bene la sua parte nella commedia della vita71. Non ci poteva essere che una risposta. L’avesse meritato o no, la sua fama era sicura e aveva provveduto alla propria immortalità72.
Durante le guerre di Spagna, colpito da una malattia che avrebbe potuto facilmente significare la fine di una fragile esistenza, Augusto compose la sua Autobiografia. Prima di lui, altri generali, come Silla e Cesare, avevano pubblicato il resoconto delle loro res gestae o avevano raccontato la loro vita, le loro imprese e la loro fortuna per amore di gloria o per motivi politici: nessuno fu capace di manipolare la storia con tanta tranquilla audacia. Altri generali avevano i loro monumenti nei trofei, nei templi, nei teatri che avevano eretto: le loro figure in armi con brevi iscrizioni a ricordo dei servigi resi allo Stato adornavano il foro augusteo di Marte Ultore. Questa era la ricompensa dovuta ai «boni duces» post mortem73. Silla era stato Felix, Pompeo aveva preso il titolo di Magnus. Augusto, che per gloria e fortuna era il massimo dei duces e dei principes, volle eclissarli tutti quanti. Nel momento stesso in cui era impegnato all’apparente restaurazione della repubblica, fece costruire nel Campo Marzio quell’enorme e principesco monumento che fu il suo mausoleo. Forse, nell’ambizioso desiderio di perpetuare la propria gloria, aveva già composto una prima stesura dell’iscrizione che doveva trovare posto all’esterno del monumento, quella delle Res gestae74; oppure, nella peggiore delle ipotesi, si può supporre che un documento del genere fosse incluso fra gli incartamenti di Stato che il princeps, sentendosi vicino a morire, consegnò al console Pisone nel 23 a.C. Ma queste prime redazioni delle Res gestae è piú facile presupporle che comprovarle. Le Res gestae nella loro forma definitiva furono stilate all’inizio del 13 d.C., assieme alle ultime volontà e al testamento e Tiberio ne curò l’edizione e la pubblicazione75.
Questo prezioso documento, sopravvissuto in copie provinciali, reca il marchio di fabbrica della verità ufficiale. Indica in quale modo Augusto voleva che i posteri interpretassero le tappe della sua carriera, le realizzazioni e le caratteristiche del suo governo. Il testo è non meno istruttivo in ciò che omette di quanto lo è in ciò che dice. I nomi degli oppositori del princeps in guerra e delle vittime dei suoi tradimenti pubblici e privati, lungi dall’essere ricordati, sono sprezzantemente consegnati all’oblio. Antonio sta sotto la maschera diffamatoria di una fazione, i liberatori sotto quella di nemici della patria, Sesto Pompeo sotto quella di un pirata. Perugia e le proscrizioni sono dimenticate, il colpo di stato del 32 a.C. appare come una spontanea sollevazione di tutta Italia, Filippi diventa una vittoria interamente dovuta all’erede e vendicatore di Cesare76. Il nome di Agrippa vi ricorre due volte, ma piú come una data che come un personaggio. Altri soci del princeps sono passati sotto silenzio, salvo Tiberio, del quale viene convenientemente esaltata la conquista dell’Illirico sotto gli auspici di Augusto77.
La formulazione del capitolo in cui si definisce la posizione costituzionale del princeps è sommamente magistrale – e sommamente elusiva. Dei suoi poteri si parla come di poteri legali e magistratuali, e se egli è superiore a tutti i suoi possibili colleghi, non lo è per potestas, ma soltanto per auctoritas78. Il che è vero solo in parte – in minima parte. Tuttavia, la parola auctoritas denuncia la verità, poiché auctoritas è anche potentia. In questo passo non si fa parola della tribunicia potestas la quale, pur essendo altrove modestamente citata come strumento utile per varare la legislazione, non tradisce mai la sua vera, formidabile essenza e la sua funzione di chiave di volta del sistema imperiale: «summi fastigii vocabulum». In piú, in tutto il documento, non si incontra neppure un’allusione all’imperium proconsulare, in virtú del quale Augusto aveva il controllo, diretto o indiretto, di tutte le province e di tutti gli eserciti. Eppure questi poteri erano i pilastri del suo dominio, saldamente eretto alle spalle dell’inconsistente e ingannevole repubblica. Nell’uso dei poteri tribunizi e dell’imperium, il princeps riconosce di aver avuto dei precursori, alludendo ai potentati Pompeo e Cesare. Popolo ed esercito erano la sorgente e la base del suo comando.
Queste erano le Res gestae Divi Augusti. Sarebbe quindi imprudente usare tale documento come una guida sicura alla storia, petulante e inutile lagnarsi delle omissioni e delle deformazioni che presenta. Non meno vano è il tentativo di individuarne l’origine ultima e l’esatta definizione come genere letterario79. Finché era in vita, il princeps, al pari di altri governanti, poteva essere apertamente venerato come una divinità nelle province e, a Roma e in Italia, fatto oggetto di onori pari a quelli tributati agli dèi dall’umanità riconoscente. Per i Romani egli era semplicemente il capo dello Stato romano. Però una cosa era certa. Una volta morto, Augusto avrebbe ricevuto le onoranze del Fondatore che era insieme Enea e Romolo, e, come il divus Iulius, sarebbe stato annoverato per voto del Senato romano tra gli dèi di Roma, per i suoi grandi meriti e soprattutto per motivi di alta politica. Cionondimeno, non aiuta definire la Res gestae come il certificato della sua divinità80. Se si deve proprio darne una spiegazione, questo lo si può fare non facendo riferimento alle religioni e ai re dell’Oriente ellenistico, bensí prendendo come base Roma e la prassi romana, definendole una contaminazione fra l’elogium del generale romano e il rendiconto del magistrato romano.
Al pari di Augusto, le sue Res gestae sono qualcosa di unico, che elude ogni definizione verbale, che trova in sé la sua spiegazione. Dal principio, dalla giovanile rivelazione come capo rivoluzionario in un periodo di sedizione civica e di violenza armata, l’erede di Cesare era durato fino in fondo. Morí nell’anniversario del giorno in cui aveva assunto per la prima volta il consolato, dopo la marcia su Roma. Erano passati cinquantasei anni. Per tutto questo tempo, nell’azione come nella politica, rimase fedele a se stesso e alla carriera che gli si era aperta quando arruolò un esercito privato e «liberò lo Stato dal predominio di una fazione». Il dux era diventato princeps e aveva trasformato una fazione in un governo. Per il potere, aveva sacrificato ogni cosa. Ma aveva guadagnato la vetta di ogni ambizione umana, e con la sua ambizione aveva salvato e rigenerato il popolo romano.