4.

Sangue. In genere usciva dalle ferite solo dopo che ci si era scambiati maledizioni orribili e oscenità disgustose. Si seguiva sempre quella trafila. Mio padre, che pure mi pareva un uomo buono, lanciava di continuo insulti e minacce se qualcuno, come diceva, non era degno di stare sulla faccia della terra. Ce l’aveva in particolare con don Achille. Aveva sempre qualcosa da rinfacciargli e a volte mi mettevo le mani sulle orecchie per non restare troppo impressionata dalle sue brutte parole. Quan­do ne parlava con mia madre lo chiamava “tuo cugino”, ma mia ma­dre rinnegava subito quel legame di sangue (c’era una parentela molto alla lontana) e rincarava la dose degli insulti. Mi spaventavano le loro rabbie, e mi spaventava soprattutto che don Achille potesse avere orecchie così ricettive da percepire anche gli insulti detti da grande distanza. Temevo che venisse ad am­mazzarli.

Il nemico giurato di don Achille, comunque, non era mio padre ma il signor Peluso, un falegname bravissimo sempre sen­za soldi in quanto si giocava tutto quello che guadagnava nel retrobottega del bar Solara. Peluso era padre di una nostra compagna di scuola, Carmela, di Pasquale, che era grande, e di altri due figli, bambini più miserabili di noi, con i quali in qualche caso io e Lila giocavamo e che a scuola e fuori cercavano sempre di rubarci le nostre cose, la penna, la gomma, la cotognata, tanto che tornavano a casa pieni di lividi per le bot­te che gli davamo.

Le volte che lo vedevamo, il signor Peluso ci pareva l’im­ma­­gine della disperazione. Da un lato perdeva tutto al gioco e dall’altro si prendeva a schiaffi in pubblico perché non sapeva più come sfamare la famiglia. Per ragioni assai confuse attribuiva a don Achille la propria rovina. Gli addebitava il fatto che a tradimen­to s’era preso, come se il suo corpo tenebroso fosse fatto di calamita, tutti gli arnesi per il lavoro di falegname, cosa che aveva reso inutile la bottega. Gli rimproverava che s’era preso anche quella e l’aveva trasformata in salumeria. Per anni ho immaginato la pinza, la sega, la tenaglia, il martello, la morsa e mille e mille chiodi che venivano ri­succhiati in forma di sciame metallico dentro la materia che componeva don Achille. Per anni ho visto uscire dal suo corpo, grezzo e pesante di materie eterogenee, salami, provoloni, mortadelle, sugna e prosciutto, sempre in forma di sciame.

Fatti avvenuti in tempi bui. Don Achille doveva essersi ma­ni­festato in tutta la sua mostruosa natura prima che noi nascessimo. Prima. Lila usava spesso quella formula, a scuola e fuori. Ma pareva che non le importasse tanto ciò che era accaduto prima di noi – eventi in genere oscuri, su cui i grandi o tacevano o si pronunciavano con molta reticenza – quanto che ci fos­se stato davvero un prima. Era questo che all’epoca la la­sciava perplessa e anzi a volte la innervosiva. Quando diventammo amiche me ne parlò così tanto di quella cosa assurda – prima di noi – che finì per trasmettere il nervoso anche a me. Era il tempo lungo, lunghissimo, in cui non c’eravamo state; il tempo in cui don Achille s’era mostrato a tutti per ciò che era: un essere malvagio di incerta fisionomia animalminerale, che – pareva – levava il sangue agli altri mentre a lui non ne usciva mai, forse non era nemmeno possibile graffiarlo.

Eravamo in seconda elementare, forse, e non ci parlavamo ancora, quando si sparse la voce che proprio di fronte alla chiesa della Sacra Famiglia, all’uscita dalla messa, il signor Peluso aveva cominciato a strillare di rabbia contro don Achille, e don Achille aveva lasciato il figlio grande Stefano, Pinuccia, Al­fon­so che era nostro coetaneo, la moglie, e mostrandosi per un at­timo nella sua forma più raccapricciante, s’era gettato addosso a Peluso, lo aveva sollevato, lo aveva lanciato contro un albero dei giardinetti e l’aveva abbandonato lì, tramortito, col sangue che gli usciva da cento ferite in testa e dappertutto, senza che il poveretto potesse anche solo dire: aiutatemi.