Da quel momento fui chiamata di continuo a partecipare alle scelte più contrastate, e a volte – scoprii – su richiesta non di Lila ma di Pinuccia e della madre. Di fatto scelsi io le bomboniere. Di fatto scelsi io il ristorante in via Orazio. Di fatto scelsi io il fotografo, convincendole ad aggiungere al servizio fotografico un filmino in superotto. In ogni circostanza mi resi conto che mentre per parte mia mi appassionavo a ogni cosa, come se ciascuna di quelle questioni fosse un allenamento per quando sarebbe toccato a me sposarmi, Lila, alle stazioni del suo matrimonio, faceva pochissima attenzione. Me ne stupii, ma le cose stavano sicuramente così. Ciò che veramente la impegnava era stabilire una volta per tutte che sulla sua vita futura di moglie e di madre, nella sua casa, la cognata e la suocera non avrebbero dovuto mettere bocca. Ma non era il solito conflitto tra suocera, nuora, cognata. Ebbi l’impressione, da come mi usava, da come manipolava Stefano, che si dibattesse per trovare, dall’interno della gabbia in cui si era chiusa, un modo d’essere tutto suo che però le restava oscuro.
Naturalmente perdevo interi pomeriggi a dirimere le loro questioni, studiavo poco e un paio di volte finii persino per non andare a scuola. La conseguenza è che la pagella del primo trimestre non fu particolarmente brillante. La mia nuova professoressa di latino e greco, la stimatissima Galiani, mi portava in palmo di mano, ma in filosofia, in chimica e in matematica riuscii a prendere appena la sufficienza. Per di più una mattina incappai in un brutto guaio. Poiché il professore di religione faceva continue filippiche contro i comunisti, contro il loro ateismo, io mi sentii spinta a reagire, non so bene se dal mio affetto nei confronti di Pasquale, che comunista s’era sempre dichiarato, o semplicemente perché percepii che tutto il male che il prete diceva dei comunisti mi riguardava direttamente in quanto cocca della comunista per eccellenza, la professoressa Galiani. Resta il fatto che alzai la mano e dissi, io che avevo fatto con successo un corso teologico per corrispondenza, che la condizione umana era così evidentemente esposta alla furia cieca del caso che affidarsi a un Dio, a Gesù, allo Spirito Santo – un’entità quest’ultima del tutto superflua, era lì solo per comporre una trinità, notoriamente più nobile del solo binomio padre-figlio – era la stessa cosa che far collezione di figurine mentre la città brucia nel fuoco dell’inferno. Alfonso si rese conto subito che stavo eccedendo e timidamente mi tirò per il grembiule, ma io non gli diedi retta e andai fino in fondo, fino a quel paragone conclusivo. Per la prima volta fui cacciata dall’aula ed ebbi una nota di demerito sul registro di classe.
Appena in corridoio, prima mi sentii disorientata – cos’era successo, perché mi ero comportata così avventatamente, da dove mi era arrivata la convinzione assoluta che le cose che stavo dicendo erano giuste e andavano dette? –, poi mi ricordai che quei discorsi li avevo fatti con Lila e mi resi conto che mi ero ficcata in quel guaio solo perché, malgrado tutto, seguitavo ad attribuirle un’autorità sufficiente a darmi la forza di sfidare il mio professore di religione. Lila non apriva più libro, non studiava più, stava per diventare la moglie di un salumiere, sarebbe probabilmente finita alla cassa al posto della madre di Stefano, e io? Io avevo ricavato da lei l’energia per inventare un’immagine che definiva la religione una collezione di figurine mentre la città brucia nel fuoco dell’inferno? Non era vero, dunque, che la scuola era una mia personale ricchezza, lontana ormai dalla sua influenza? Piansi lacrime silenziose davanti alla porta dell’aula.
Ma le cose cambiarono all’improvviso. Comparve in fondo al corridoio Nino Sarratore. Dopo il nuovo incontro con suo padre, a maggior ragione mi comportavo come se non esistesse, ma vederlo in quel frangente mi rianimò, asciugai in fretta le lacrime. Lui dovette accorgersi ugualmente che qualcosa non andava e si diresse verso di me. S’era fatto più grande, aveva il pomo d’Adamo molto sporgente, lineamenti scavati dalla barba azzurrina, uno sguardo più fermo. Impossibile sfuggirgli. Non potevo rientrare in classe, non potevo allontanarmi verso i bagni, entrambe le cose avrebbero ulteriormente complicato la mia posizione, se il professore di religione si fosse affacciato. Restai lì e quando mi si parò di fronte e mi chiese perché ero fuori, cosa era successo, gli raccontai tutto. Si accigliò, disse: «Torno subito». Sparì e riapparve pochi minuti dopo con la professoressa Galiani.
La Galiani mi coprì di lodi. «Adesso però» disse come se tenesse a me e a Nino una lezione, «dopo l’attacco a fondo, è tempo di mediare». Bussò alla porta della mia aula, se la richiuse alle spalle e cinque minuti dopo si riaffacciò allegra. Potevo rientrare a patto che mi scusassi col professore per i toni troppo aggressivi che avevo avuto. Mi scusai, oscillando tra l’ansia per le probabili ritorsioni e la fierezza per il sostegno che mi era venuto da Nino e dalla Galiani.
Mi guardai bene dal raccontare la cosa ai miei genitori, ma dissi tutto ad Antonio, che con orgoglio riferì l’accaduto a Pasquale, che a sua volta s’imbatté una mattina in Lila e vinto dall’emozione per quanto ancora l’amava, non sapendo cosa dirle, si aggrappò alla mia vicenda come a un corrimano e gliela raccontò. Diventai così, in un batter d’occhio, l’eroina sia dei miei amici di sempre, sia dello sparuto ma agguerritissimo gruppo di insegnanti e studenti che si battevano contro i predicozzi del professore di religione. Ma fui molto accorta. Poiché mi ero resa conto che le scuse al prete non erano bastate, mi adoperai per recuperare credito presso di lui e presso gli insegnanti che la vedevano come lui. Separai senza sforzo le mie parole da me e con tutti i professori che mi erano diventati ostili fui molto rispettosa, servizievole, diligente, collaborativa, tanto che ritornarono presto a considerarmi una persona a modo cui si potevano perdonare certe affermazioni bizzarre. Scoprii così che sapevo fare come la Galiani: esporre con fermezza le mie opinioni e intanto mediare guadagnandomi la stima di tutti con comportamenti irreprensibili. Nel giro di pochi giorni mi sembrò di essere tornata, insieme a Nino Sarratore, che era in terzo liceo e quell’anno avrebbe fatto la maturità, in cima alla lista degli alunni più promettenti del nostro scalcagnato liceo.
Non finì lì. Qualche settimana dopo Nino mi chiese senza preamboli, con la sua aria ombrosa, di scrivere in gran fretta una mezza pagina di quaderno in cui raccontavo lo scontro col prete.
«Per farne che?».
Mi disse che collaborava a una rivistina che si chiamava Napoli Albergo dei poveri. Aveva raccontato l’episodio in redazione e gli avevano detto che se ne avessi fatto un resoconto in tempo avrebbero provato a inserirlo nel prossimo numero. Mi mostrò la rivista. Era un fascicolo di una cinquantina di pagine, di un grigio sporco. Nell’indice figurava lui, nome e cognome, con un articolo intitolato Le cifre della miseria. Mi venne in mente suo padre, la soddisfazione, la vanità con cui mi aveva letto ai Maronti l’articolo stampato sul Roma.
«Scrivi anche poesie?» gli chiesi.
Sembrò offendersi, negò con disgustata energia. Gli promisi subito:
«Va bene, ci provo, scrivo».
Tornai a casa agitatissima. Mi sentivo già la testa piena delle frasi che avrei scritto e per strada ne parlai dettagliatamente ad Alfonso. Entrò in ansia per me, mi scongiurò di non scrivere niente.
«Lo firmeranno col tuo nome?».
«Sì».
«Lenù, il prete si arrabbierà di nuovo e ti farà bocciare: tirerà dalla sua parte quella di chimica e quello di matematica».
Mi trasmise la sua ansia e persi fiducia. Ma appena ci separammo l’idea di poter mostrare presto la rivista, il mio articoletto, il mio nome stampato, a Lila, ai miei genitori, alla maestra Oliviero, al maestro Ferraro, prese il sopravvento. Dopo avrei ricucito. Era stato molto galvanizzante schierarmi contro chi mi pareva peggiore (il prete, la professoressa di chimica, il professore di matematica) e ricevere il plauso di chi mi pareva migliore (la Galiani, Nino). Era stata una prova di accortezza comportarmi intanto con gli avversari in modo da non perderne la simpatia e la stima. Mi sarei adoperata perché la cosa si ripetesse all’uscita dell’articolo.
Passai il pomeriggio a scrivere e a riscrivere. Trovai frasi sintetiche e dense. Cercai di dare alla mia posizione il massimo della dignità teorica ricorrendo a parole difficili. Scrissi: “Se Dio è presente ovunque, che bisogno ha di diffondersi tramite lo Spirito Santo?”. Ma la mezza pagina si consumava presto, nella sola premessa. E il resto? Ricominciavo. E poiché ero allenata dalle elementari a tentare e ritentare cocciutamente, alla fine raggiunsi un risultato apprezzabile e passai a studiare le lezioni per il giorno dopo.
Ma nel giro di mezz’ora mi tornarono i dubbi, sentii il bisogno di conferme. A chi potevo far leggere il mio testo per avere un parere? A mia madre? Ai miei fratelli? Ad Antonio? Naturalmente no, l’unica era Lila. Ma rivolgermi a lei significava seguitare a riconoscerle una superiorità, quando in effetti ero io, ormai, a saperne più di lei. Così all’inizio feci resistenza. Temevo che avrebbe liquidato la mia mezza pagina con una battutina minimizzante. Temevo ancor più che quella battutina mi avrebbe comunque lavorato nella testa, sospingendomi verso pensieri eccessivi che avrei finito per trascrivere nella mia mezza pagina sbilanciandone l’equilibrio. Eppure alla fine cedetti e corsi da lei sperando di trovarla. Era a casa dei suoi genitori. Le dissi della proposta di Nino e le diedi il quaderno.
Guardò la pagina senza voglia, come se la scrittura le ferisse gli occhi. Esattamente come Alfonso mi chiese:
«Ci metteranno il tuo nome?».
Feci cenno di sì.
«Proprio Elena Greco?».
«Sì».
Mi tese il quaderno:
«Non sono capace di dirti se è buono o no».
«Ti prego».
«No, non sono capace».
Dovetti insistere. Le dissi, pur sapendo che non era vero, che se non le piaceva, se addirittura si fosse rifiutata di leggerlo, non l’avrei dato a Nino per stamparlo.
Alla fine lesse. Mi sembrò che si contraesse tutta, come se le avessi scaraventato addosso un peso. Ed ebbi l’impressione che stesse facendo uno sforzo doloroso per liberare da qualche fondo di sé la vecchia Lila, quella che leggeva, scriveva, disegnava, progettava con l’immediatezza, la naturalezza di una reazione istintiva. Quando ci riuscì tutto sembrò piacevolmente leggero.
«Posso cancellare?».
«Sì».
Cancellò molte parole e una frase intera.
«Posso spostare una cosa?».
«Sì».
Mi cerchiò un periodo e lo spostò con una linea ondulata in cima al foglio.
«Ti posso ricopiare tutto su un altro foglio?».
«Faccio io».
«No, fammelo fare a me».
Ci mise un po’ a ricopiare. Quando mi restituì il quaderno, disse:
«Sei assai brava, per forza che ti mettono sempre dieci».
Sentii che non c’era ironia, che era un complimento vero. Poi aggiunse con improvvisa durezza:
«Non voglio leggere più niente di quello che scrivi».
«Perché?».
Ci pensò.
«Perché mi fa male» e si colpì il centro della testa con le dita scoppiando a ridere.