54.

Tornai a casa felice. Mi chiusi nel cesso per non disturbare il resto della famiglia e studiai fin verso le tre di notte, quando finalmente andai a dormire. Mi tirai su alle sei e mezza per ri­copiare il testo. Prima però lo lessi nella bella grafia tonda di Lila, una grafia rimasta ferma alla scuola elementare, molto di­versa ormai dalla mia, che si era rimpicciolita e semplificata. Nella pagina c’era esattamente ciò che avevo scritto, ma più lim­pido, più immediato. Le cancellature, gli spostamenti, le pic­­cole aggiunte e, in qualche modo, la sua stessa grafia mi diedero l’impressione che io fossi scappata da me e che ora corressi cento passi più avanti con un’energia e insieme un’armonia che la persona rimasta indietro non sapeva di avere.

Decisi di lasciare il testo nella grafia di Lila. Lo portai a Nino a quel modo per trattenere la traccia visibile della presen­za di lei dentro le mie parole. Lui lo lesse battendo più volte le lun­ghe ciglia. Alla fine disse, con un’improvvisa inattesa tristezza:

«La Galiani ha ragione».

«In cosa?».

«Sai scrivere meglio di me».

E sebbene io protestassi imbarazzata, ripeté quella frase un’altra volta, poi mi girò le spalle senza salutarmi e se ne andò. Non mi disse nemmeno quando sarebbe uscita la rivista o co­me avrei potuto procurarmela, né io ebbi il coraggio di chiederglielo. Fu un comportamento che m’infastidì. Tanto più che mentre si allontanava riconobbi per pochi secondi l’andatura di suo padre.

Finì a questo modo quel nostro nuovo incontro. Sba­gliam­mo tutto ancora una volta. Nino per giorni continuò a comportarsi come se scrivere meglio di lui fosse una colpa che andava espiata. Io mi indispettii. Quando di colpo mi riassegnò corpo, vita, presenza, e mi chiese di fare un tratto di strada in­sie­me, gli risposi fredda che ero già impegnata, veniva a prendermi il mio fidanzato.

Per un po’ dovette credere che il fidanzato fosse Alfonso, ma il dubbio gli passò quando una volta, all’uscita, si affacciò sua sorella Marisa, che aveva da dirgli non so cosa. Non ci ve­de­vamo dai tempi di Ischia. Mi corse incontro, mi festeggiò moltissimo, mi disse quanto si era dispiaciuta perché non ero tornata a Barano quell’estate. Poiché mi trovavo in compagnia di Al­fon­so glielo presentai. Lei insistette, visto che il fratello se n’era già andato, per fare quattro passi insieme a noi. Prima ci raccontò tutte le sue sofferenze d’amore. Poi, quando si rese conto che io e Alfonso non eravamo fidanzati, cessò di rivolgermi la parola e si mise a chiacchierare con lui al suo modo accattivante. Al ritorno a casa, di sicuro raccontò al fratello che tra me e Alfonso non c’era niente, perché lui il giorno dopo, prontamente, tornò a girarmi intorno. Ma ora il solo vederlo mi innervosiva. Era fatuo come suo padre, anche se lo detestava? Credeva che gli altri non potessero fare a meno di volerlo, di amarlo? Era così pieno di sé da non tollerare altre virtù che le proprie?

Chiesi ad Antonio di venirmi a prendere a scuola. Mi ob­bedì subito, disorientato e insieme gratificato da quella ri­chiesta. Ciò che dovette stupirlo di più fu che lì in pubblico, davanti a tutti, gli presi la mano e intrecciai le mie dita alle sue. Mi ero sempre rifiutata di passeggiare a quel modo, sia nel rione che fuori, perché mi sembrava di essere an­cora bambina e di andare a passeggio con mio padre. Quella volta lo feci. Sapevo che Nino ci guardava e volevo che capisse chi ero. Scrivevo meglio di lui, avrei pubblicato sulla rivista su cui pubblicava lui, ero brava a scuola quanto e più di lui, avevo un uomo, eccolo: e perciò non sarei mai corsa dietro a lui come una bestiola fedele.