Lo faccio di nuovo adesso, con l’immaginazione, mentre comincio a raccontare il suo viaggio di nozze non solo come me ne parlò lì sul pianerottolo, ma come poi ne lessi sui suoi quaderni. Ero stata ingiusta con lei, avevo voluto credere a una sua resa facile per poterla degradare come mi ero sentita degradata io quando Nino aveva lasciato la sala della festa, avevo voluto rimpicciolirla per non sentirne la perdita. Eccola lì, invece, a ricevimento ormai terminato, chiusa nella decappottabile, il cappellino blu, il tailleur pastello. Aveva gli occhi bruciati dalla rabbia e non appena l’auto si mosse aggredì Stefano con i vocaboli e le frasi più insopportabili che si potessero rivolgere a un maschio del nostro rione.
Lui incassò gli insulti secondo il suo solito, con un sorriso tenue, senza dire una parola, e lei alla fine tacque. Ma il silenzio durò poco. Lila riattaccò calma, solo con un leggero affanno. Gli disse che non voleva stare in quell’automobile nemmeno un minuto di più, che le faceva ribrezzo respirare l’aria che respirava lui, che voleva scendere, subito. Stefano le vide davvero il ribrezzo in viso, tuttavia seguitò a guidare senza dire niente, tanto che lei tornò ad alzare la voce per imporgli di fermarsi. Allora lui accostò, ma quando Lila cercò davvero di aprire la portiera, l’afferrò per un braccio saldamente.
«Ora stammi a sentire» disse piano, «ci sono ragioni serie per quello che è successo».
Le spiegò con pacatezza com’erano andate le cose. Per evitare che il calzaturificio chiudesse prima ancora di aprire sul serio i battenti, era stato necessario entrare in società con Silvio Solara e figli, gli unici capaci di assicurare non solo la collocazione delle calzature nei migliori negozi della città, ma addirittura l’apertura in piazza dei Martiri, entro l’autunno, di un negozio esclusivamente di scarpe Cerullo.
«Che me ne fotte a me delle tue necessità» lo interruppe Lila divincolandosi.
«Le mie necessità sono le tue, sei mia moglie».
«Io? Io non sono più niente per te, e neppure tu per me. Lasciami il braccio».
Stefano le lasciò il braccio.
«Anche tuo padre e tuo fratello non sono niente?».
«Quando parli di loro sciacquati la bocca, non sei degno nemmeno di nominarli».
Stefano invece li nominò. Disse che l’accordo con Silvio Solara era stato voluto da Fernando in persona. Disse che il maggiore ostacolo era stato Marcello, arrabbiatissimo con Lila, con tutta la famiglia Cerullo e soprattutto con Pasquale, Antonio, Enzo che gli avevano fatto a pezzi la macchina e dato un sacco di mazzate. Disse che era stato Rino a rabbonirlo, che c’era voluta molta pazienza e che insomma, quando Marcello aveva detto: allora voglio le scarpe che ha fatto Lina, Rino gli aveva risposto va bene, prenditi le scarpe.
Fu un momento brutto, Lila sentì una trafittura in petto. Ma ugualmente gridò:
«E tu che hai fatto?».
Stefano ebbe un momento di imbarazzo.
«Che dovevo fare? Litigare con tuo fratello, rovinare la tua famiglia, lasciare che cominciasse una guerra contro gli amici tuoi, perdere tutti i soldi che ho investito?».
A Lila ogni parola sembrò per tonalità e contenuti un’ammissione ipocrita di colpa. Non lo lasciò nemmeno finire, cominciò a colpirgli una spalla coi pugni, strillando:
«Quindi hai detto pure tu va bene, sei andato a prendere le scarpe e gliele hai date».
Stefano la lasciò fare e solo quando lei provò ancora ad aprire la portiera per scappare, le disse freddo: càlmati. Lila si girò di scatto: calmarsi dopo che lui aveva gettato la colpa su suo padre e suo fratello, calmarsi quando tutt’e tre l’avevano trattata come una pezza per lavare il pavimento, come una mappina? Non mi voglio calmare, gridò, strunz, riportami subito a casa mia, quello che hai detto adesso lo devi ripetere davanti a quegli altri due uomini di merda. E solo quando pronunciò quell’espressione in dialetto, uommen’e mmerd, si accorse di aver spezzato la barriera dei toni compassati di suo marito. Un attimo dopo Stefano la colpì in faccia con la mano robusta, uno schiaffo violentissimo che le sembrò un’esplosione di verità. Lei sussultò per la sorpresa e per la sfiammata dolorosa sulla guancia. Lo guardò incredula mentre lui rimetteva in moto e diceva, con una voce che per la prima volta da quando aveva cominciato a farle la corte non era più tranquilla, anzi gli tremava:
«Vedi che mi costringi a fare? Ti rendi conto che esageri?».
«Abbiamo sbagliato tutto» mormorò lei.
Ma Stefano negò con decisione, come se non volesse prendere neanche in considerazione quella possibilità, e le fece un discorso lungo, un po’ minaccioso, un po’ didascalico, un po’ patetico. Disse grosso modo così:
«Non abbiamo sbagliato niente, Lina, dobbiamo solo chiarirci un po’ di cose. Tu non ti chiami più Cerullo. Tu sei la signora Carracci e devi fare quello che ti dico io. Lo so, non sei pratica, non sai cos’è il commercio, ti pensi che i soldi li trovo per terra. Ma non è così. I soldi li devo fare ogni giorno, li devo portare dove possono crescere. Hai disegnato le scarpe, tuo padre e tuo fratello sanno faticare bene, ma voi tre insieme non siete in grado di far crescere i soldi. I Solara sì, e allora – stammi bene a sentire – non me ne fotte niente se quella gente non ti piace. Marcello fa schifo pure a me, e quando ti guarda anche solo di sguincio, quando penso alle cose che ha detto di te, mi viene voglia di ficcargli un coltello nella pancia. Ma se mi serve per far crescere i soldi, allora diventa il migliore amico che ho. E sai perché? Perché se i soldi non crescono, questa macchina non ce l’abbiamo più, questo vestito non te lo posso più comprare, perdiamo pure la casa con tutto quello che c’è dentro, finisce che non fai più la signora, e i nostri figli cresceranno come figli di pezzenti. Quindi azzàrdati un’altra volta sola a dirmi le cose che m’hai detto stasera e questa bella faccia te la rovino in un modo che non potrai più uscire di casa. Ci siamo capiti? Rispondi».
Lila fece gli occhi a fessura. La guancia le era diventata violacea, ma per il resto era pallidissima. Non gli rispose.