14.

Fu difficile convincerlo che ciò che aveva visto con i suoi stessi occhi non era ciò che da tempo si immaginava, ma solo un comportamento amichevole senza altre finalità. «è già fidanzato» gli dissi, «l’hai visto anche tu». Ma dovette captare una traccia di sofferenza in quelle parole e mi minacciò, cominciarono a tremargli il labbro inferiore, le mani. Allora mormorai che mi ero stufata, volevo lasciarlo. Cedette, ci riconciliammo. Ma da quel momento si fidò ancor meno di me e l’ansia di partire militare si saldò in modo definitivo alla paura di lasciarmi a Nino. Abbandonò sempre più spesso il lavoro per correre, diceva, a farmi un saluto. In realtà mirava a cogliermi sul fatto e provare innanzitutto a se stesso che gli ero davvero infedele. Cosa avrebbe fatto dopo, non lo sapeva nemmeno lui.

Un pomeriggio sua sorella Ada mi vide passare davanti alla salumeria, dove ormai lavorava con grande soddisfazione sua e di Stefano. Mi raggiunse di corsa. Aveva un camice bianco straunto che la copriva fin sotto il ginocchio, ma era ugualmente molto graziosa e si capiva dal rossetto, dagli occhi dipinti, dai fermagli nei capelli, che anche sotto il camice doveva essere vestita come se andasse a una festa. Disse che voleva parlarmi, decidemmo di vederci in cortile prima di cena. Arrivò trafelata dal negozio, in compagnia di Pasquale che l’era andata a prendere.

Mi parlarono insieme, una frase imbarazzata l’una, una frase imbarazzata l’altro. Capii che erano molto preoccupati, Antonio s’arrabbiava per niente, non aveva più pazienza con Melina, si assentava senza preavviso dal lavoro. E anche Gallese, il padrone dell’officina, era disorientato perché lo conosceva da quando era un ragazzino e così non lo aveva mai visto.

«Ha paura del servizio militare» dissi.

«Tanto, se lo chiamano, ci deve andare per forza» disse Pasquale, «se no diventa disertore».

«Quando tu gli stai vicino, gli passa tutto» disse Ada.

«Non ho molto tempo» dissi io.

«Le persone sono più importanti dello studio» disse Pasquale.

«Passa meno tempo con Lina e vedi che il tempo lo trovi» disse Ada.

«Quello che posso fare faccio» dissi io piccata.

«È un po’ fragile di nervi» disse Pasquale.

Ada concluse brusca:

«Mi occupo di una pazza da quando sono piccola, due sarebbero veramente troppo, Lenù».

Mi indispettii, mi spaventai. Piena di sensi di colpa, tornai a vedere Antonio molto spesso, anche se non ne avevo voglia, anche se avevo da studiare. Non fu sufficiente. Una sera agli stagni si mise a piangere, mi mostrò una cartolina. Non gli avevano dato l’esonero, sarebbe partito con Enzo, in autunno. E a un certo punto fece una cosa che mi impressionò molto. Cadde per terra e cominciò a ficcarsi freneticamente in bocca manciate di terra. Dovetti abbracciarlo stretto, mormorargli che lo amavo, togliergli la terra di bocca con le dita.

In quale guaio mi sto ficcando, pensai poi a letto senza riuscire a prendere sonno, e scoprii che all’improvviso s’era attenuata la voglia di tirarmi via dalla scuola, di accettarmi per quello che ero, di sposarlo, di vivere a casa di sua madre, coi suoi fratelli, mettendo benzina nelle auto. Decisi che dovevo fare qualcosa per aiutarlo e quando si fosse ripreso, sfilarmi via da quel rapporto.

Il giorno dopo andai da Lila, ero molto spaventata. Lei la trovai fin troppo allegra, entrambe in quel periodo eravamo instabili. Le raccontai di Antonio, della cartolina, e le dissi che avevo preso una decisione: di nascosto da lui, che non mi avrebbe mai dato il permesso, intendevo rivolgermi a Marcello o anche a Michele per chiedere se potevano tirarlo fuori dai guai.

Esagerai la mia determinazione. In realtà ero confusa: da un lato mi sembrava un tentativo obbligato, visto che ero la causa delle sofferenze di Antonio, dall’altro consultavo Lila proprio perché davo per scontato che mi avrebbe detto di non farlo. Ma presa com’ero, in quella fase, dal mio disordine, non misi in conto il suo.

Ebbe una reazione ambigua. Prima mi prese in giro, disse che ero una bugiarda, disse che dovevo voler bene davvero al mio fidanzato, se ero disposta ad andare di persona a umiliarmi con i due Solara, pur sapendo che con tutti i trascorsi che c’erano stati quelli non avrebbero mosso un dito per lui. Subito dopo però cominciò a girarci intorno nervosamente, ridacchiava, diventava seria, tornava a ridere. Alla fine disse: va bene, vacci, vediamo che succede. E poi aggiunse:

«Tutto sommato, Lenù, dove sta la differenza tra mio fratello e Michele Solara o, diciamo, tra Stefano e Marcello?».

«Che vuoi dire?».

«Voglio dire che forse avrei dovuto sposare Marcello».

«Non ti capisco».

«Almeno Marcello non dipende da nessuno, fa come gli pare».

«Stai dicendo sul serio?».

Si affrettò a negare ridendo, ma non mi convinse. È impossibile, pensai, che stia rivalutando Marcello: tutte queste risate non sono vere, sono solo segni di brutti pensieri e di sofferenza perché col marito le cose non vanno.

Ne ebbi la prova immediatamente. Diventò seria, ridusse gli occhi a due fessure, disse:

«Ti accompagno».

«Dove».

«Dai Solara».

«A far che».

«A capire se possono aiutare Antonio».

«No».

«Perché».

«Così fai arrabbiare Stefano».

«E chi se ne fotte. Se lui si rivolge a loro, lo posso fare anch’io che sono sua moglie».