69.

Fui accolta da Nella e dalla famiglia Sarratore col solito entusiasmo. Assunsi la mia maschera più mite, la maschera di mio padre quando raccoglieva mance, la maschera elaborata dai miei antenati per scansare il pericolo, sempre spauriti, sempre subalterni, sempre gradevolmente volenterosi, e passai di menzogna in menzogna con modi simpatici. Dissi a Nella che se avevo deciso di arrecarle disturbo non era per scelta ma per necessità. Dissi che i Carracci avevano ospiti, che per me non c’era posto quella notte. Dissi che speravo di non aver esagerato a presentarmi così, all’improvviso, e che se c’erano difficoltà me ne sarei tornata a Napoli per qualche giorno.

Nella mi abbracciò, mi nutrì giurando che avermi in casa le faceva un piacere immenso. Rifiutai di andare al mare con i Sarratore, sebbene i ragazzini protestassero. Lidia insistette perché li raggiungessi presto e Donato dichiarò che mi avrebbe aspettato per fare insieme il bagno. Restai con Nella, l’aiutai a rassettare la casa, a cucinare per il pranzo. Tutto per un poco mi pesò di meno: le bugie, l’immaginazione dell’adulterio che si stava compiendo, la mia complicità, una gelosia che non riusciva a definirsi perché mi sentivo contemporaneamente gelosa di Lila che si dava a Nino, di Nino che si dava a Lila. Nella intanto, a parlarci, mi sembrò meno ostile ai Sarratore. Disse che marito e moglie avevano trovato un equilibrio e poiché stavano bene loro, davano meno fastidio a lei. Mi raccontò della maestra Oliviero: le aveva telefonato apposta per dirle che ero andata a trovarla e l’aveva sentita molto affaticata ma più ottimista. Per un po’, insomma, ci fu un tranquillo flusso di informazioni. Ma bastarono poche frasi, una deviazione inattesa, e il peso della situazione in cui mi ero messa tornò con forza.

«Ti ha lodato moltissimo» disse Nella parlando della Oliviero, «ma quando ha saputo che eri venuta a trovarmi insieme a due tue amiche sposate mi ha fatto molte domande, specialmente sulla signora Lina».

«Che ha detto?».

«Ha detto che in tutta la sua carriera di maestra non ha mai avuto un’alunna così brava».

L’evocazione del vecchio primato di Lila mi disturbò.

«È vero» ammisi.

Ma Nella fece una smorfia di assoluto disaccordo, le si accesero gli occhi.

«Mia cugina è una maestra eccezionale» disse, «eppure secondo me questa volta si è sbagliata».

«No, non si è sbagliata».

«Posso dirti quello che penso?».

«Certo».

«Non è che ti dispiaci?».

«No».

«La signora Lina non mi è piaciuta. Tu sei assai meglio, sei più bella e più intelligente. Ne ho parlato pure con i Sarratore e loro sono d’accordo con me».

«Dite così perché mi volete bene».

«No. Statti attenta, Lenù. Lo so che siete molto amiche, mia cugina me l’ha detto. E io non voglio mettere bocca nelle cose che non mi riguardano. Ma a me basta un’occhiata per giudicare le persone. La signora Lina lo sa che sei meglio di lei e perciò non ti vuole bene come le vuoi bene tu».

Sorrisi fintamente scettica:

«Mi vuole male?».

«Non lo so. Ma lei il male lo sa fare, ce l’ha scritto in faccia, basta guardarle la fronte e gli occhi».

Scossi la testa, repressi il compiacimento. Ah, se fosse stato tutto così lineare. Ma sapevo già – anche se non come lo so oggi – che tra noi due tutto era più aggrovigliato. E scherzai, risi, feci ridere Nella. Le dissi che Lila la prima volta non faceva mai una buona impressione. Fin da piccola pareva un diavolo, e lo era davvero, ma nel senso buono. Aveva una testa pronta e riusciva bene in qualsiasi cosa le capitasse di applicarsi: se avesse potuto studiare sarebbe diventata una scienziata come Madame Curie o una grandissima romanziera come Grazia Deledda, o persino una come Nilde Iotti, la signora di Togliatti. E a sentire quei due ultimi nomi, oh Madonna, esclamò Nella, e si fece ironicamente il segno della croce. Poi le venne un risolino, poi gliene venne un altro e non si trattenne più, volle dirmi all’orecchio una cosa segreta molto divertente che le aveva detto Sarratore. Lila, secondo lui, era di una bellezza quasi brutta, di quelle che i maschi sono sì incantati ma anche si prendono paura.

«Che paura?» chiesi anch’io a bassa voce. E lei, a voce ancora più bassa:

«La paura che non gli funzioni il coso o che gli cada o che lei tira fuori un coltello e glielo taglia».

Rise, cominciò a sussultarle il petto, gli occhi le si riempirono di lacrime. Non riuscì a contenersi per un bel po’ e sentii presto un disagio che con lei non avevo mai provato prima. Non era la risata di mia madre, la risata sconcia della donna che sa. In quella di Nella c’era qualcosa di casto e insieme di sguaiato, era una risata di vergine attempata che m’investì e spinse anche me a ridere, ma forzatamente. Una brava donna come lei, mi dissi, perché si diverte a questo modo? E intanto mi vidi invecchiata, con quella risata di candore malizioso nel petto. Pensai: finirò per ridere anch’io così.