77.

Poi ricominciò la scuola. Solo quando entrai in classe il primo ottobre mi resi conto che ero in terzo liceo, che avevo compiuto diciotto anni, che il tempo degli studi, nel mio caso già miracolosamente lungo, stava per finire. Meglio così. Parlai molto con Alfonso di quello che avremmo fatto dopo la licenza. Ne sapeva quanto me. Faremo dei concorsi, buttò lì, ma in realtà non avevamo idee chiare su cos’era un concorso, dicevamo fare un concorso, vincere un concorso, ma il concetto era vago: bisognava fare un compito scritto, sottoporsi a un’interrogazione? E cosa si vinceva, uno stipendio?

Alfonso mi confidò che pensava di sposarsi, una volta vinto un concorso qualsiasi.

«Con Marisa?».

«Ma sì».

Qualche volta gli chiesi cautamente di Nino, ma a lui non era simpatico, nemmeno si salutavano. Non aveva mai capito cosa ci trovassi. È brutto, diceva, tutto storto, pelle e ossa. Marisa invece gli pareva bella. Ma aggiungeva subito, attento a non ferirmi: «Sei bella anche tu». Gli piaceva la bellezza e soprattutto la cura del corpo. Lui stesso si curava molto, sapeva di barbiere, si comprava vestiti, andava a fare sollevamento pesi tutti i giorni. Mi raccontò che s’era divertito molto, nel negozio di piazza dei Martiri. Non era come la salumeria. Lì potevi metterti elegante, anzi dovevi. Lì potevi parlare in italiano, la gente era perbene, aveva studiato. Lì, anche quando ti inginocchiavi davanti ai clienti e alle clienti per fargli calzare le scarpe, lo potevi fare con bei modi, come un cavaliere dell’amor cortese. Ma disgraziatamente di restare nel negozio non c’era possibilità.

«Perché?».

«Mah».

All’inizio fu vago e io non insistetti. Poi mi raccontò che Pinuccia ormai se ne stava sempre a casa perché non si voleva stancare, le era spuntata una pancia a siluro; e comunque era chiaro che una volta avuto il bambino non avrebbe avuto tempo di lavorare. Questo in teoria avrebbe dovuto spianargli la strada, i Solara erano contenti di lui, magari si sarebbe potuto sistemare lì subito dopo la licenza. Invece non c’era nessuna possibilità, e qui all’improvviso spuntò il nome di Lila. Al solo sentirlo mi sfiammò lo stomaco.

«Che c’entra lei?».

Seppi che era tornata dalla villeggiatura come una pazza. Continuava a non restare incinta, i bagni non erano serviti, dava i numeri. Una volta aveva spaccato tutti i vasi con le piante che teneva sul balcone. Diceva di andare in salumeria, invece lasciava Carmen da sola e se ne andava in giro. La notte Stefano si svegliava e non la trovava nel letto: girava per casa, leggeva e scriveva. Poi si era all’improvviso acquietata. O meglio aveva concentrato tutta la sua capacità di rovinare la vita a Stefano su un unico obiettivo: far assumere Gigliola nella salumeria nuova e occuparsi lei di piazza dei Martiri.

Mi meravigliai molto.

«È Michele che la vuole al negozio» dissi, «ma lei non ci vuole andare».

«Una volta. Adesso ha cambiato idea, sta facendo fuoco e fiamme per sistemarsi lì. L’unico ostacolo è che Stefano è contrario. Ma si sa che alla fine mio fratello fa quello che vuole lei».

Non feci altre domande, non volevo in nessun modo essere riassorbita dai fatti di Lila. Ma per un po’ mi sorpresi a chiedermi: cosa avrà in mente, perché di punto in bianco vuole andare a lavorare in centro? Poi lasciai perdere, presa da altri problemi: la libreria, la scuola, le interrogazioni, i libri di testo. Qualcuno lo comprai, i più li rubai al libraio senza farmi nessuno scrupolo. Ripresi a studiare sodo, soprattutto di notte. Di pomeriggio infatti, fino alle vacanze di Natale, quando mi licenziai, fui impegnata con la libreria. E subito dopo la Galiani stessa mi procurò un paio di lezioni private, alle quali mi dedicai molto. Tra scuola, lezioni e studio non ci fu spazio per nient’altro.

Mia madre, quando a fine mese le davo i soldi che guadagnavo, intascava il denaro senza dire niente, ma la mattina si alzava presto per prepararmi la colazione, a volte persino l’uovo sbattuto, a cui si dedicava con una tale cura – mentre ero ancora a letto assopita, sentivo il cloc cloc del cucchiaio contro la tazza – che mi si scioglieva in bocca come una crema, non c’era nemmeno un granello di zucchero. Quanto ai professori del liceo, pareva che non potessero fare a meno di considerarmi la studentessa più brillante, quasi per una sorta di pigro funzionamento dell’intero polveroso ingranaggio scolastico. Difesi senza problemi il mio ruolo di prima della classe e, andato via Nino, mi collocai tra i migliori dell’intera scuola. Ma mi ci volle poco per capire che la Galiani, pur essendo sempre molto generosa con me, mi attribuiva non so che colpa che le impediva di essere cordiale come in passato. Per esempio, quando le restituii i suoi libri mostrò fastidio perché erano pieni di sabbia e se li portò via senza promettermi che me ne avrebbe dati altri. Per esempio, non mi passò più i suoi giornali e io mi costrinsi per un po’ a comprare Il Mattino, poi smisi, mi annoiava, erano soldi buttati. Per esempio, non successe più che m’invitasse a casa sua, anche se mi sarebbe piaciuto rivedere suo figlio Armando. Tuttavia seguitò a lodarmi pubblicamente, a darmi voti alti, a consigliarmi conferenze e persino film importanti che proiettavano in un posto di preti a Port’Alba. Finché una volta, a ridosso delle vacanze di Natale, mi chiamò all’uscita di scuola e facemmo un tratto di strada insieme. Mi chiese senza preamboli cosa sapevo di Nino.

«Niente» le risposi.

«Dimmi la verità».

«È la verità».

Venne fuori lentamente che Nino, passata l’estate, non s’era mai più fatto vivo né con lei né con sua figlia.

«Ha rotto con Nadia in modo sgradevole» disse con astio di madre, «le ha mandato poche righe per lettera da Ischia e l’ha fatta molto soffrire». Poi si contenne e aggiunse, riassumendo il suo ruolo di professoressa: «Ma pazienza, siete ragazzi, il dolore serve a crescere».

Feci cenno di sì, mi chiese:

«Ha lasciato anche te?».

Diventai rossa.

«Me?».

«Non vi siete visti a Ischia?».

«Sì, ma tra noi non c’è stato niente».

«Sicuro?».

«Assolutamente».

«Nadia è convinta che lui l’ha lasciata per te».

Negai con forza, mi dissi pronta a incontrare Nadia e a dirle che tra me e Nino non c’era mai stato niente e niente ci sarebbe mai stato. Ne fu contenta, mi assicurò che glielo avrebbe riferito. Non accennai a Lila, naturalmente, e non solo perché ero decisa a farmi i fatti miei, ma anche perché parlarne mi avrebbe depressa. Provai a scantonare, ma lei tornò su Nino. Disse che sul suo conto circolavano voci diverse. C’era chi raccontava che non solo non aveva dato esami in autunno, ma che aveva addirittura smesso di studiare; e c’era chi giurava che l’aveva visto un pomeriggio in via Arenaccia, solo, completamente ubriaco, che camminava sbandando e ogni tanto prendeva sorsi da una bottiglia. Ma Nino, concluse, non era simpatico a tutti e forse qualcuno godeva a mettere in giro brutte voci sul suo conto. Se però erano vere, che peccato.

«Sicuramente sono bugie» dissi.

«Speriamo. Ma non si riesce a tener dietro a quel ragazzo».

«Sì».

«È molto bravo».

«Sì».

«Se hai modo di informarti su ciò che combina, fammi sapere».

Ci separammo, corsi a fare lezione di greco a una ragazzina del ginnasio che abitava al Parco Margherita. Ma fu difficile. Nella grande stanza in permanente penombra dov’ero accolta con rispetto, c’erano mobili solenni, tappeti con scene di caccia, vecchie foto di militari d’alto grado, svariati altri segni di una tradizione di autorità e agiatezza che alla mia pallida alunna quattordicenne causavano un torpore del corpo e dell’intelligenza, e a me davano un senso di insofferenza. In quell’occasione dovetti lottare in modo particolare per vigilare su declinazioni e coniugazioni. Mi tornava continuamente in mente la sagoma di Nino come l’aveva evocata la Galiani: giacca consunta, cravatta svolazzante, le gambe lunghe dai passi incerti, la bottiglia vuota che dopo un ultimo sorso andava a spaccarsi sulla pietra dell’Arenaccia. Cos’era successo tra lui e Lila, dopo Ischia? Contrariamente alle mie previsioni, lei evidentemente s’era ravveduta, era tutto finito, era tornata in sé. Nino invece no: da giovane studioso con una risposta ben articolata per ogni cosa s’era mutato in uno sbandato sopraffatto dal mal d’amore per la moglie del salumiere. Pensai di tornare a chiedere ad Alfonso se ne aveva notizie. Pensai di incontrare io stessa Marisa e domandarle del fratello. Ma presto mi obbligai a levarmelo dalla testa. Gli passerà, mi dissi. Mi ha cercata? No. E Lila mi ha cercata? No. Perché devo preoccuparmi di lui, o di lei, quando loro non si curano di me? Tirai avanti con la lezione e andai per la mia strada.