97.

In quel periodo sognai spesso Lila. Una volta era a letto con una camicia da notte tutta pizzi, di colore verde, aveva trecce che nella realtà non s’era mai fatta, teneva tra le braccia una bambina vestita di rosa e diceva di continuo con voce addolorata: «Fatemi una foto ma solo a me, la bambina no». Un’altra volta mi accoglieva contenta e poi chiamava la figlia, che aveva il mio stesso nome. «Lenù» diceva, «vieni a salutare la zia». Ma compariva una gigantessa grassa, molto più vecchia di noi, e Lila mi ordinava di spogliarla e lavarla e cambiarle il pannolino e le fasce. Dopo sogni di quel tipo ero tentata di cercare un telefono e provare a sentire Alfonso per sapere se il bambino era nato bene, se lei era contenta. Ma o avevo da studiare o avevo gli esami, e me ne dimenticavo. Quando in agosto mi liberai di entrambe le incombenze, successe che non tornai a casa. Scrissi un po’ di bugie ai miei genitori e andai con Franco in Versilia, in un appartamentino della sua famiglia. Per la prima volta misi un due pezzi: stava tutto nel pugno di una mano e mi sentii audace.

Fu a Natale che seppi da Carmen quant’era stato brutto il travaglio di Lila.

«Ha rischiato di morire» disse, «tant’è vero che il dottore alla fine le ha dovuto tagliare la pancia, se no il bambino non nasceva».

«Ha avuto un maschio?».

«Sì».

«Sta bene?».

«È bellissimo».

«E lei?».

«S’è allargata».

Seppi che Stefano avrebbe voluto dare al figlio il nome di suo padre, Achille, ma Lila si era opposta e gli strilli di marito e moglie, che non si sentivano da parecchio, erano echeggiati per tutta la clinica, tanto che le infermiere li avevano rimproverati. Alla fine il bambino era stato chiamato Gennaro, cioè Rino, come il fratello di Lila.

Ascoltai, non mi pronunciai. Mi sentivo scontenta e per fronteggiare la scontentezza mi imponevo un atteggiamento distante. Carmen me lo fece notare:

«Parlo parlo, ma tu non dici nemmeno una parola, mi fai sentire come il telegiornale. Non te ne fotte più niente di noi?».

«Ma no».

«Ti sei fatta bella, t’è cambiata persino la voce».

«Avevo una brutta voce?».

«Avevi la voce che abbiamo noi».

«E adesso?».

«Ce l’hai di meno».

Restai al rione dieci giorni, dal 24 dicembre 1964 fino al 3 gennaio 1965, ma non andai mai a far visita a Lila. Non volevo vedere suo figlio, avevo paura di riconoscergli nella bocca, nel naso, nel taglio degli occhi o delle orecchie qualcosa di Nino.

A casa mia ormai mi trattavano come se fossi una persona di riguardo che s’era degnata di passare per un saluto frettoloso. Mio padre mi osservava compiaciuto. Sentivo il suo sguardo soddisfatto addosso, ma se gli rivolgevo la parola s’imbarazzava. Non mi chiedeva cosa studiavo, a cosa serviva, quale lavoro avrei fatto dopo, e non perché non volesse sapere, ma per paura di non capire le mie risposte. Mia madre invece si muoveva per casa rabbiosa e io, nel sentirne il passo inconfondibile, pensavo a quanto avevo temuto di diventare co­me lei. Ma, meno male, l’avevo molto distanziata e lei lo sentiva, me ne voleva. Anche adesso, quando mi parlava, sembrava che fossi colpevole di brutte cose: in ogni circostanza le percepivo nella voce una sfumatura di disapprovazione, ma a differenza che in passato non volle mai che facessi i piatti, che sparecchiassi, che lavassi i pavimenti. Ci fu un po’ di disagio anche coi miei fratelli. Si sforzavano di parlarmi in italiano e spesso si correggevano da soli gli errori, vergognandosi. Ma con loro cercavo di mostrare che ero quella di sempre e piano piano se ne convinsero.

La sera non sapevo come passare il tempo, gli amici di una volta non facevano più gruppo. Pasquale era in pessimi rapporti con Antonio e lo scansava in tutti i modi. Antonio non voleva incontrare nessuno, un po’ perché non aveva tempo (era di continuo mandato qua e là dai Solara), un po’ perché non sapeva di cosa parlare: non poteva raccontare del suo lavoro e non aveva una vita privata. Ada, dopo la salumeria, o correva a occuparsi della madre e dei fratelli o era stanca, depressa, e andava a dormire, tant’è vero che quasi non vedeva più nemmeno Pasquale, cosa che rendeva quest’ultimo molto nervoso. Carmen ormai odiava tutto e tutti, forse anche me: odiava il lavoro nella salumeria nuova, i Carracci, Enzo che l’aveva lasciata, suo fratello che si era limitato solo a litigarci e non gli aveva spaccato la faccia. Sì, Enzo. Enzo, infine – che ora aveva la madre, Assunta, malata di un brutto male e quando non faticava per guadagnarsi la giornata si occupava di lei, anche di notte, e tuttavia a sorpresa era riuscito a prendere il diploma di perito industriale –, Enzo non si faceva trovare mai. Mi incuriosì la notizia che era riuscito in quella cosa difficilissima che era diplomarsi da privatista. Chi l’avrebbe mai detto, pensai. Prima di tornare a Pisa mi misi d’impegno e lo convinsi a fare quattro passi. Gli feci molti complimenti per il risultato che aveva ottenuto, ma lui si limitò a una smorfia minimizzante. Aveva ridotto a tal punto il suo vocabolario che parlai soltanto io, non disse quasi niente. L’unica frase che mi ricordo la pronunciò prima di separarci. Non avevo accennato mai a Lila fino a quel momento, nemmeno una parola. Eppure, come se non avessi fatto altro che parlarne, disse all’improvviso:

«Comunque Lina è la madre migliore di tutto il rione».

Quel comunque mi mise di malumore. Non avevo mai attribuito a Enzo una particolare sensibilità, ma in quell’occasione mi convinsi che, camminandomi a lato, avesse sentito – sentito come se lo declamassi ad alta voce – il lungo elenco muto di colpe che attribuivo alla nostra amica, quasi che il mio corpo lo scandisse con rabbia senza che me ne accorgessi.