Partii, ma non per Parigi. Dopo le elezioni politiche di quell’anno turbolento, Gina mi mandò in giro a promuovere il libro. Cominciai con Firenze. Ero stata invitata al magistero da una professoressa amica di un amico degli Airota e finii in uno di quei controcorsi, diffusi nelle università in agitazione, a parlare a una trentina tra studentesse e studenti. Mi colpì subito che molte delle ragazze erano anche peggio di quelle descritte da mio suocero sul Ponte: malvestite, maltruccate, disordinate nell’esposizione troppo emozionata, arrabbiate con gli esami, coi professori. Spinta dalla professoressa, mi pronunciai sulle manifestazioni studentesche con esibito entusiasmo, soprattutto su quelle in atto in Francia. Sfoggiai ciò che stavo imparando, fui contenta di me. Sentii che mi esprimevo con convinzione e chiarezza, che le ragazze soprattutto mi ammiravano per come parlavo, per le cose che sapevo, per come sfioravo abilmente i problemi complicati del mondo sistemandoli in un quadro coerente. Ma mi resi conto presto che tendevo a evitare ogni accenno al libro. Parlarne mi metteva a disagio, temevo reazioni come quelle del rione, preferivo riassumere a parole mie pensieri dei Quaderni piacentini o della Monthly Review. D’altra parte ero stata invitata per quello, qualcuno già chiedeva la parola. Le prime domande furono tutte sulla fatica del personaggio femminile per sottrarsi all’ambiente in cui era nata. Solo verso la fine una ragazza, che ricordo molto alta e magrissima, mi chiese di spiegare, spezzando le frasi con risate nervose, perché avevo ritenuto necessario scrivere, dentro una storia tutta levigata, un pezzo scabroso.
Mi imbarazzai, forse arrossii, affastellai motivazioni sociologiche. Solo alla fine parlai della necessità di raccontare in modo franco ogni esperienza umana, anche – sottolineai – ciò che pare impronunciabile e che perciò taciamo persino a noi stesse. Quelle ultime parole piacquero, ripresi quota. La professoressa che mi aveva invitata le lodò, disse che ci avrebbe riflettuto, che mi avrebbe scritto.
La sua approvazione mi stabilizzò nella testa quei pochi concetti, che diventarono presto un ritornello. Li usai spesso in pubblico, ora in modo divertito, ora con tono drammatico, ora sinteticamente, ora sviluppandoli con elaborati ghirigori verbali. Mi trovai particolarmente a mio agio una sera in una libreria di Torino, di fronte a un pubblico abbastanza numeroso che affrontai con disinvoltura crescente. Cominciava a sembrarmi naturale che qualcuno mi interrogasse con simpatia o in modo provocatorio sull’episodio di sesso in spiaggia, tanto più che quella mia risposta pronta, rifinita in modo sempre più gradevole, riscuoteva un certo successo.
A Torino mi aveva accompagnata, su mandato della casa editrice, Tarratano, l’anziano amico di Adele. Si disse fiero di aver intuito per primo le potenzialità del mio romanzo e mi presentò al pubblico con le stesse formule entusiastiche che aveva usato tempo prima a Milano. Alla fine della serata si complimentò con me per i grandi progressi che avevo fatto in poco tempo. Poi mi chiese al suo solito modo bonario: perché accetta così di buon grado che le sue pagine erotiche siano definite scabrose, perché lei stessa le definisce in pubblico così? E mi spiegò che non dovevo: innanzitutto il mio romanzo non si esauriva nell’episodio della spiaggia, ce n’erano di più interessanti e di più belli; e poi, se qua e là esso suonava di qualche audacia, ciò accadeva soprattutto perché era stato scritto da una ragazza; l’oscenità, concluse, non è estranea alla buona letteratura e l’arte vera del racconto, se pure passa il limite della decenza, non è mai scabrosa.
Mi confusi. Quell’uomo coltissimo mi stava spiegando con tatto che i peccati del mio libro erano veniali, e che sbagliavo a parlarne ogni volta come se fossero mortali. Esageravo, dunque. Subivo la miopia del pubblico, la sua superficialità. Mi dissi: basta, devo essere meno subalterna, devo imparare a dissentire dai miei lettori, non devo scendere al loro livello. E decisi che alla prima occasione sarei stata più dura con chi tirava in ballo quelle pagine.
A cena, nel ristorante dell’albergo che l’ufficio stampa ci aveva prenotato, mezzo imbarazzata mezzo divertita ascoltai Tarratano che citava, a riprova che ero una scrittrice sostanzialmente casta, Henry Miller o mi spiegava, chiamandomi cara bambina, che non poche dotatissime scrittrici degli anni Venti e Trenta sapevano e scrivevano di sesso come io per il momento nemmeno immaginavo. Ne annotai i nomi nel mio quadernetto, ma intanto cominciai a pensare: quest’uomo, malgrado i complimenti, non mi ritiene di gran talento; ai suoi occhi sono una ragazzina toccata da un successo immeritato; persino le pagine che più attraggono i lettori non le considera rilevanti, possono scandalizzare chi sa poco o niente ma non quelli come lui.
Dissi che ero un po’ stanca e aiutai il mio commensale, che aveva bevuto troppo, ad alzarsi. Era un uomo piccolo ma con un ventre vistoso da buongustaio. Ciuffi di capelli bianchi gli si arruffavano sulle orecchie grandi, aveva un viso tutto rosso rotto da una bocca stretta, un grande naso e occhi vivacissimi, fumava molto, le dita erano gialle. In ascensore cercò di abbracciarmi e baciarmi. Sebbene mi divincolassi stentai a respingerlo, non si arrendeva. Mi sono rimasti impressi il contatto con la sua pancia, l’alito vinoso. All’epoca non mi sarebbe mai venuto in mente che un uomo anziano, così perbene, così colto, quell’uomo tanto amico della mia futura suocera, potesse comportarsi in modo scomposto. Una volta in corridoio si affrettò a chiedermi scusa, diede la colpa al vino, si chiuse in fretta nella sua stanza.