13.

Partii, ma non per Parigi. Dopo le elezioni politiche di quell’anno turbolento, Gina mi mandò in giro a promuovere il li­bro. Cominciai con Firenze. Ero stata invitata al magistero da una pro­fessoressa amica di un amico degli Airota e finii in uno di quei controcorsi, diffusi nelle università in agitazione, a parlare a una tren­tina tra studentesse e studenti. Mi colpì subito che mol­te del­le ragazze erano anche peggio di quelle de­scritte da mio suo­cero sul Ponte: malvestite, maltruccate, disordinate nell’esposizione trop­po emozionata, arrabbiate con gli esami, coi professori. Spin­ta dalla professoressa, mi pronunciai sulle manifestazioni studen­te­sche con esibito entusiasmo, soprattutto su quelle in atto in Fran­cia. Sfog­giai ciò che stavo imparando, fui con­tenta di me. Sen­tii che mi esprimevo con convinzione e chiarezza, che le ra­gaz­ze soprattutto mi ammiravano per come parlavo, per le cose che sapevo, per come sfioravo abilmente i problemi complicati del mondo sistemandoli in un quadro coerente. Ma mi resi conto presto che tendevo a evitare ogni accenno al libro. Parlarne mi met­teva a disagio, temevo reazioni come quelle del rione, preferivo riassumere a parole mie pensieri dei Quaderni piacentini o della Monthly Review. D’altra parte ero stata invitata per quello, qualcuno già chiedeva la parola. Le prime domande furono tutte sulla fatica del personaggio femminile per sottrarsi all’ambiente in cui era nata. Solo verso la fine una ragazza, che ricordo molto alta e magrissima, mi chiese di spiegare, spezzando le frasi con risate nervose, perché avevo ritenuto necessario scrivere, dentro una storia tutta levigata, un pezzo scabroso.

Mi imbarazzai, forse arrossii, affastellai motivazioni sociologiche. Solo alla fine parlai della necessità di raccontare in modo franco ogni esperienza umana, anche – sottolineai – ciò che pare impronunciabile e che perciò taciamo persino a noi stesse. Quelle ultime parole piacquero, ripresi quota. La professoressa che mi aveva invitata le lodò, disse che ci avrebbe riflettuto, che mi avrebbe scritto.

La sua approvazione mi stabilizzò nella testa quei pochi con­cetti, che diventarono presto un ritornello. Li usai spesso in pubblico, ora in modo divertito, ora con tono drammatico, ora sinteticamente, ora sviluppandoli con elaborati ghirigori verbali. Mi trovai particolarmente a mio agio una sera in una libreria di Torino, di fronte a un pubblico abbastanza numeroso che af­frontai con disinvoltura crescente. Cominciava a sembrarmi na­turale che qualcuno mi interrogasse con simpatia o in modo provocatorio sull’episodio di sesso in spiaggia, tanto più che quella mia risposta pronta, rifinita in modo sempre più gradevole, ri­scuo­teva un certo successo.

A Torino mi aveva ac­compagnata, su mandato della casa editrice, Tarratano, l’anziano amico di Adele. Si disse fiero di a­ver intuito per primo le po­tenzialità del mio romanzo e mi pre­­sentò al pubblico con le stesse formule entusiastiche che ave­­va u­sato tempo prima a Milano. Alla fine della serata si com­­pli­men­tò con me per i gran­di progressi che avevo fatto in poco tempo. Poi mi chiese al suo solito modo bonario: perché accetta così di buon grado che le sue pagine erotiche siano de­fi­nite scabrose, perché lei stessa le definisce in pubblico così? E mi spie­­gò che non do­ve­vo: innanzitutto il mio romanzo non si e­sau­riva nell’episodio della spiaggia, ce n’erano di più interessanti e di più belli; e poi, se qua e là esso suonava di qualche au­dacia, ciò accadeva soprattutto perché era stato scritto da una ragazza; l’oscenità, concluse, non è estranea alla buona letteratura e l’arte vera del racconto, se pure passa il limite della de­cenza, non è mai scabrosa.

Mi confusi. Quell’uomo coltissimo mi stava spiegando con tat­to che i peccati del mio libro erano veniali, e che sbagliavo a parlarne ogni volta come se fossero mortali. Esageravo, dunque. Subivo la miopia del pubblico, la sua superficialità. Mi dis­si: ba­sta, devo essere meno subalterna, devo imparare a dissentire dai miei lettori, non devo scendere al loro livello. E decisi che alla prima occasione sarei stata più dura con chi tirava in ballo quelle pagine.

A cena, nel ristorante dell’albergo che l’ufficio stampa ci ave­va prenotato, mezzo imbarazzata mezzo divertita ascoltai Tar­­ra­tano che citava, a riprova che ero una scrittrice sostanzialmente casta, Henry Miller o mi spie­gava, chiamandomi cara bam­bina, che non poche dotatissime scrittrici degli anni Venti e Trenta sa­pevano e scrivevano di sesso come io per il momento nemmeno immaginavo. Ne annotai i nomi nel mio quadernetto, ma in­tan­to cominciai a pensare: quest’uomo, malgrado i complimenti, non mi ritiene di gran talento; ai suoi occhi sono una ragazzina toc­cata da un successo immeritato; persino le pagine che più at­trag­gono i lettori non le considera rilevanti, possono scandalizzare chi sa poco o niente ma non quelli come lui.

Dissi che ero un po’ stanca e aiutai il mio commensale, che aveva bevuto troppo, ad alzarsi. Era un uomo piccolo ma con un ventre vistoso da buongustaio. Ciuffi di capelli bianchi gli si arruffavano sulle orecchie grandi, aveva un viso tutto rosso rot­to da una bocca stretta, un grande naso e occhi vivacissimi, fumava molto, le dita erano gialle. In ascensore cercò di ab­bracciarmi e baciarmi. Sebbene mi divincolassi stentai a re­spin­gerlo, non si arrendeva. Mi sono rimasti impressi il contatto con la sua pancia, l’alito vinoso. All’epoca non mi sarebbe mai venuto in mente che un uomo anziano, così perbene, così col­to, quell’uomo tanto amico della mia futura suocera, potesse comportarsi in modo scomposto. Una volta in corridoio si af­frettò a chiedermi scusa, diede la colpa al vino, si chiuse in fretta nella sua stanza.