21.

A casa non ebbi o non volli avere il tempo di tornare su quella questione. Pietro telefonò, annunciò che sarebbe venuto a conoscere i miei genitori la settimana seguente. Accettai la cosa come una disgrazia inevitabile, mi affannai a trovargli un albergo, a lustrare la casa, ad attenuare l’ansia dei miei familiari. Fati­ca inutile, quest’ultima, la situazione era peggiorata. Nel rione erano aumentate le chiacchiere malevole sul mio libro, su di me, su quel mio continuo viaggiare da sola. Mia madre s’era difesa vantandosi che ero prossima al matrimonio ma, per evitare che le mie scelte contro Dio complicassero la situazione, s’era inventata che non mi sposavo a Napoli ma a Genova. Di conseguenza le chiacchiere erano aumentate, cosa che l’aveva esasperata.

Una sera mi affrontò con estrema durezza, disse che la gen­te leggeva il mio libro, si scandalizzava e le parlava alle spalle. I miei fratelli – mi gridò – avevano dovuto dare mazzate ai figli del macellaio che mi avevano definito una zoccola, e non solo: avevano spaccato la faccia a un compagno di scuola di Elisa che le aveva chiesto di fare cose brutte come faceva sua sorella grande.

«Che hai scritto?» mi strillò.

«Niente, ma’».

«Hai scritto le schifezze che vai facendo in giro?».

«Quali schifezze, leggitelo».

«Non posso perdere tempo».

«Allora lasciami stare».

«Se tuo padre sa cosa si dice di te, ti caccia di casa».

«Non c’è bisogno, me ne vado io».

Era sera, andai a fare quattro passi per non rinfacciarle cose di cui poi mi sarei pentita. Per strada, ai giardinetti, lungo lo stradone, ebbi l’impressione che la gente mi guardasse con in­sistenza, ombre stizzose di un mondo che non abitavo più. A un certo punto mi imbattei in Gigliola che stava tornando dal lavoro. Abitavamo nello stesso palazzo, facemmo la strada in­sieme, ma temetti che prima o poi avrebbe trovato il modo di dirmi qualcosa di irritante. Invece a sorpresa si espresse con timidezza, lei che era sempre aggressiva se non perfida:

«Ho letto il tuo libro, è bello, che coraggio hai avuto a scrivere quelle cose».

Mi irrigidii.

«Che cose?».

«Quelle che fai sulla spiaggia».

«Non le faccio io, le fa il personaggio».

«Sì, ma le hai scritte benissimo, Lenù, proprio come succede, con la stessa sporcizia. Sono segreti che si sanno solo se una è femmina». Quindi mi tirò per un braccio, mi costrinse a fermarmi, mormorò: «Di’ a Lina, se la vedi, che aveva ragione, glie­lo riconosco. Ha fatto bene a fottersene del marito, della mam­ma, del padre, del fratello, di Marcello, di Michele, di tut­ta la merda. Me ne sarei dovuta scappare di qua pure io, prendendo esempio da voi due che siete intelligenti. Ma sono nata stupida e non ci posso fare niente».

Non ci dicemmo nient’altro di rilevante, io mi fermai al mio pianerottolo, lei andò a casa sua. Ma quelle frasi mi restarono in mente. Mi colpì che avesse messo arbitrariamente insieme la caduta di Lila e la mia ascesa, come se, al confronto con la sua condizione, avessero lo stesso grado di positività. Ma mi restò impresso soprattutto come aveva riconosciuto nella sporcizia del mio racconto la sua stessa esperienza di sporcizia. Era un fatto nuovo, non seppi come valutarlo. Tanto più che arrivò Pie­tro e per un po’ me ne dimenticai.