84.

Enzo voleva partire entro le sei, ma già alle quattro del mattino lo sentii muoversi nella sua stanza e mi alzai per preparargli il caffè. A tu per tu, nella casa silenziosa, sparì la lingua dei calcolatori o l’italiano dovuto all’autorità di Pietro, e passammo al dialetto. Gli chiesi del rapporto con Lila. Disse che andava bene, anche se lei non si fermava mai. Ora correva dietro ai problemi di lavoro, ora si azzuffava con la ma­­dre, il padre, il fra­tel­lo, ora aiutava Gennaro a fare i compiti e gira e rigira finiva per aiutare anche i figli di Rino e tutti i bambini che capitavano per casa. Li­la non si riguardava e perciò era molto affaticata, pareva sem­pre vicina a cedere co­me le era già successo, era stanca. Capii presto che la loro cop­pia affiatata, al lavoro gomito a go­mi­to, benedetta da buo­ni stipendi, andava collocata dentro una sequenza più com­plicata. Azzardai:

«Forse dovete mettere un po’ d’ordine: Lina non può esagerare con la fatica».

«Glielo dico continuamente».

«E poi c’è la separazione, il divorzio: non ha senso che re­sti sposata con Stefano».

«Di questo se ne frega».

«Ma Stefano?».

«Non sa nemmeno che ormai si può divorziare».

«E Ada?».

«Ada ha problemi di sopravvivenza. La ruota gira, chi stava sopra finisce sotto. I Carracci non hanno più una lira, solo de­biti con i Solara, e Ada bada ad arraffare quello che può prima che sia tardi».

«Ma tu? Non ti vuoi sposare?».

Capii che lui si sarebbe sposato volentieri, ma Lila era contraria. Non solo non voleva perdere tempo col divorzio – chi se ne fotte che resto sposata a quello lì, sto con te, dormo con te, la sostanza è questa –, ma la sola idea di un altro matrimonio la faceva ridere. Diceva: io e te? Io e te che ci sposiamo? Ma che dici, stiamo bene così, e appena ci scocciamo ognuno se ne va per la sua strada. A Lila la prospettiva di un nuovo matrimonio non interessava, aveva altro a cui pensare.

«Cioè?».

«Lascia stare».

«Dimmi».

«Non te ne ha mai parlato?».

«Di che?».

«Di Michele Solara».

Mi raccontò con frasi brevi, tese, che in tutti quegli anni Mi­chele non aveva mai smesso di chiedere a Lila di lavorare per lui. Le aveva proposto di gestire un negozio nuovo al Vomero. O la contabilità e le tasse. O la segreteria di un amico suo, un politico democristiano importante. Era arrivato persino a of­frir­le uno stipendio di duecentomila lire al mese solo perché si inventasse del­le cose, pensate pazze, tutto quello che le passava per la testa. Lui, anche se abitava a Posillipo, continuava ad ave­re la sede di tut­ti i traffici nel rione a casa di sua madre e di suo padre. Così Lila se lo trovava davanti di continuo, per strada, al mercato, nei ne­go­zi. La fermava, sempre molto amichevole, scher­­zava con Gen­naro, gli faceva regalini. Poi diventava serissimo, e anche quando lei rifiutava i lavori che le offriva, reagiva con pazienza, la salutava sottolineando con la consueta iro­nia: io non m’arrendo, ti aspetto per l’eternità, chiamami quando vuoi e corro. Finché non aveva saputo che lei lavorava per l’IBM. Questo l’aveva fatto ar­rab­biare, era arrivato a muovere gente che conosceva per far to­gliere Enzo dalla piaz­za dei con­sulenti, e quindi anche Lila. Non aveva ottenuto alcun ri­sul­tato, l’IBM aveva bisogno urgente di tecnici e i tecnici bravi come Enzo e Lila erano pochi. Però il clima era cambiato. En­zo s’era trovato i fascisti di Gino sotto casa e se l’era ca­vata solo perché aveva guadagnato in tempo il portone chiudendoselo alle spalle. Ma poco dopo a Gennaro era successo un fatto pre­occupante. La ma­­dre di Lila lo era andato a prendere a scuola come al solito. Era­no usciti tutti gli scolari e il bambino non s’era visto. La mae­stra: stava qua un minuto fa. I compagni: sta­va qua e poi è sparito. Nunzia, spaventatissima, aveva chiama­to la figlia al la­vo­ro e Lila era tornata subito, s’era messa a cercare Gennaro. L’a­ve­va trovato su una pan­china dei giardinetti. Il bambino se ne stava quieto, il grembiule, il fiocco, la cartella, e alle domande: dove sei andato, che cosa hai fatto, rideva con gli occhi vuo­ti. Lei voleva andare subito da Michele e ammazzarlo, sia per il tentativo di pestaggio che per il sequestro del figlio, ma Enzo gliel’aveva impedito. I fascisti davano addosso a chiunque fos­se di sinistra e niente provava che era stato Miche­le a ordinare l’agguato. Quanto a Gennaro, lui stesso aveva riconosciuto che la sua bre­ve assenza era stata solo una disobbedien­za. Ad ogni modo En­zo, calmata Lila, ave­va deciso per con­to suo di andare a parlare con Mi­chele. S’era pre­sentato al bar So­lara e Michele l’aveva ascoltato senza battere ciglio. Poi gli aveva detto a oc­chio e croce: non so di che cazzo parli, Enzù: io a Gennaro sono affezionato, chi lo tocca è morto, ma tra tutte le sciocchez­ze che hai detto l’unica cosa vera è che Lina è brava ed è un peccato che lei sciupi la sua in­telligenza, sono anni che le chiedo di la­vorare con me. Quindi aveva proseguito: questo ti rompe il caz­­zo? Chi se ne fotte. Pe­rò sbagli, se le vuoi bene la devi incoraggiare a impiegare le sue grandi capacità. Vie­ni qua, siediti, prenditi un caffè e una pa­sta­rella, raccontami a che servono questi vostri calcolatori. E non era finita lì. Si erano incontrati due o tre volte, casualmente, e Michele aveva mostrato sempre più interesse per il Si­ste­ma 3. Un giorno gli era arrivato a di­re, di­ver­tito, che aveva chie­sto a uno dell’IBM chi fosse più bravo, lui o Lila, e quello gli aveva detto che Enzo era sicuramen­te bravo, ma la mi­glio­re sulla piazza era Lila. Dopodiché in un’altra occasione l’aveva fermata per strada e le aveva fatto una pro­po­sta im­por­tante. Era intenzionato a prendere a no­leggio il Sistema 3 e a im­­pie­gar­lo in tutte le sue attività commerciali. Conse­guen­za: la vo­leva co­me capocentro, a quattrocentomila lire al mese.

«Nemmeno questo t’ha raccontato?» mi chiese cautamente Enzo.

«No».

«Si vede che non ti vuole disturbare, tu hai la tua vita. Però capisci che per lei personalmente sarebbe un salto di qualità, e per noi due insieme sarebbe una fortuna: arriveremmo a settecentocinquantamila lire al mese in due, non so se è chiaro».

«Ma Lina?».

«Deve dare una riposta a settembre».

«E che farà?».

«Non lo so. Sei mai riuscita a capire in anticipo cosa c’è nel­la sua testa?».

«No. Ma tu cosa pensi che dovrebbe fare?».

«Io penso quello che pensa lei».

«Anche se non sei d’accordo?».

«Anche».

Lo accompagnai all’automobile. Per le scale mi venne in men­­te che forse dovevo dirgli ciò che sicuramente non sapeva, cioè che Michele nutriva per Lila un amore a tela di ragno, un amore pericoloso che non aveva a che fare col possesso fisico e nemmeno con una devota subalternità. E fui lì lì per farlo, gli ero affezionata, non volevo che credesse di avere di fronte solo un mezzo camorrista che progettava da tempo di comprare l’intelligenza della sua donna. Quando era già al volante gli chiesi:

«E se Michele te la vuole prendere?».

Restò impassibile:

«Lo ammazzo. Ma comunque non la vuole, ha già un’aman­te e lo sanno tutti».

«Chi è?».

«Marisa, l’ha messa un’altra volta incinta».

Lì per lì mi sembrò di non aver capito.

«Marisa Sarratore?».

«Marisa la moglie di Alfonso».

Mi ricordai la conversazione col mio compagno di scuola. Ave­va cercato di dirmi quanto la sua vita fosse complicata e io m’ero ritratta, colpita più dalla superficie della sua rivelazione che dalla sostanza. Anche in quell’occasione il suo malessere mi sembrò confuso – per far chiarezza avrei dovuto parlare di nuovo con lui, e forse nemmeno allora avrei capito –, tuttavia mi entrò dentro con una dolorosa sgradevolezza. Chiesi:

«E Alfonso?».

«A lui non gliene frega, dicono che è ricchione».

«Chi lo dice?».

«Tutti».

«Tutti è molto generico, Enzo. Che altro dicono tutti?».

Mi guardò con un guizzo di ironia complice:

«Tante cose, il rione è una chiacchiera continua».

«Cioè?».

«Sono ritornate a galla vecchie storie. Dicono che ad am­maz­zare don Achille fu la madre dei Solara».

Partì, e sperai che si portasse via anche le sue parole. Ma ciò che avevo saputo durò, mi fece preoccupare, mi fece ar­rab­bia­re. Per liberarmene mi attaccai al telefono, parlai con Lila e me­scolai ansie e rimostranze: perché non mi hai detto niente delle offerte di lavoro di Michele, specialmente di quest’ultima; perché hai rivelato il segreto di Alfonso; perché hai messo in giro quella storia della madre dei Solara, era un no­stro gioco; perché m’hai mandato Gennaro, sei preoccupata per lui, dimmelo con chiarezza, ne ho il diritto; perché una vol­ta tanto non mi dici cosa ti passa davvero per la testa? Fu uno sfogo, ma di frase in fra­se, dentro di me, sperai che non ci saremmo fermate lì, che si sarebbe realizzato, anche se solo per telefono, il vecchio desiderio di affrontare l’intero nostro rapporto e riesaminarlo e far chia­rezza e averne piena coscienza. Mi auguravo di provocarla e catturarla con altre domande, sempre più personali. Ma Lila s’infastidì, mi trattò abbastanza freddamente, non era di buonu­mo­re. Rispose che io me n’ero an­data da anni, che avevo ormai una vita dentro cui i Solara, Ste­fano, Marisa, Al­fon­so, non significavano niente, contavano me­no di zero. Stat­te­ne in villeggiatura, mi disse tagliando corto, scrivi, fa’ l’intellettuale, qua siamo rimasti troppo terra terra per te, sta’ lontano; e mi raccomando, fai prendere un po’ di sole a Gennaro, che se no mi viene rachitico come suo padre.

L’ironia della voce, il tono minimizzante, quasi sgarbato, le­va­rono spessore al racconto di Enzo e cancellarono ogni even­tua­lità di tirarla dentro ai libri che leggevo, alle parole che ave­vo im­pa­rato da Mariarosa e dal gruppo fiorentino, alle questio­ni che stavo cercando di pormi e che, una volta che le avessi fornito i concetti di fondo, avrebbe di sicuro saputo affrontare meglio di tutte noi. Ma sì, pensai, io mi faccio i fatti miei e tu i tuoi: se ti pia­ce, non crescere, continua a giocare nel cortile anche adesso che stai per fare trent’anni; basta, me ne vado al mare. E così feci.