Ormai si avvicinava la data della partenza, ma con Pietro le cose non miglioravano, ogni accordo, foss’anche solo per quel viaggio a Montpellier, pareva impossibile. Se te ne vai, diceva, non ti farò mai più vedere le bambine. Oppure: se ti porti le bambine mi ammazzo. Oppure: ti denuncerò per abbandono del tetto coniugale. Oppure: facciamo un viaggio noi quattro, andiamocene a Vienna. Oppure: bambine, vostra madre preferisce il signor Nino Sarratore a voi.
Cominciai a non poterne più. Mi ricordai delle resistenze che aveva fatto Antonio quando l’avevo lasciato. Ma Antonio era un ragazzo, aveva ereditato la testa labile di Melina e soprattutto non gli era stata impartita l’educazione di Pietro, non era addestrato fin dall’infanzia a individuare regole nel caos. Forse, pensavo, ho attribuito un peso esagerato all’uso coltivato della ragione, alle buone letture, alla lingua ben governata, all’appartenenza politica; forse, di fronte all’abbandono, siamo tutti uguali; forse nemmeno una mente molto ordinata può reggere alla scoperta di non essere amata. Mio marito – c’era poco da fare – era convinto di dovermi proteggere a tutti i costi dal morso velenoso dei miei desideri e quindi, pur di restare mio marito, era pronto a ricorrere a ogni mezzo, anche al più abietto. Lui che aveva voluto il matrimonio civile, lui che era sempre stato a favore del divorzio, per un suo sgovernato movimento interno pretendeva che il nostro legame durasse in eterno come se ci fossimo sposati davanti a Dio. E poiché io insistevo a voler mettere fine alla nostra storia, prima tentava tutte le vie della persuasione, poi rompeva cose, si prendeva a schiaffi, di colpo cominciava a cantare.
Quando eccedeva a quel modo mi faceva arrabbiare, gli gridavo insulti. E lui al solito cambiava di colpo come una bestiola atterrita, mi si metteva accanto, mi chiedeva scusa, diceva che non ce l’aveva con me, era la sua testa che non funzionava. Adele – mi rivelò una notte tra le lacrime – aveva sempre tradito suo padre, era una scoperta che aveva fatto da piccolo. A sei anni l’aveva vista baciare un uomo enorme, vestito di blu, nel grande soggiorno di Genova che affacciava sul mare. Ricordava tutti i dettagli: l’uomo aveva grandi baffi che erano come una lama scura; sui pantaloni spiccava una macchia brillante che pareva una moneta da cento lire; sua madre, contro quel tale, pareva un arco così teso che rischiava di spezzarsi. Io lo ascoltai in silenzio, cercai di consolarlo: càlmati, sono falsi ricordi, lo sai che è così, non te lo devo dire io. Ma lui tornò a insistere: Adele aveva un prendisole rosa, una spallina le era scivolata dalla spalla abbronzata; le unghie lunghe parevano di vetro; s’era fatta una treccia nera che le pendeva dalla nuca come una serpe. Disse alla fine, passando dalla sofferenza all’ira: capisci cosa mi hai fatto, capisci dentro quale orrore m’hai precipitato? E io pensai: anche Dede ricorderà, anche Dede griderà qualcosa di simile, da grande. Ma poi mi tirai via, mi convinsi che Pietro mi stesse raccontando di sua madre solo adesso, dopo tanti anni, apposta per indurmi a quel pensiero e ferirmi e trattenermi.
Tirai avanti stremata, giorno e notte, non si dormiva più. Se mio marito mi tormentava, Nino a suo modo non era da meno. Quando mi sentiva provata dalle tensioni e dalle preoccupazioni, invece di consolarmi si innervosiva, diceva: tu pensi che per me sia più facile, ma qui è un inferno come da te, ho paura per Eleonora, ho paura per ciò che può fare, quindi non pensare che io non sia nei guai quanto te, lo sono forse anche di più. Ed esclamava: però io e te insieme siamo più forti di chiunque altro, la nostra unione è una necessità imprescindibile, ti è chiaro questo, dimmelo, lo voglio sentire, ti è chiaro? Mi era chiaro. Ma quelle sue parole non mi erano di grande aiuto. Traevo tutta la mia forza, piuttosto, dall’immaginazione del momento in cui finalmente lo avrei rivisto e saremmo volati in Francia. Devo resistere fino ad allora, mi dicevo, poi si vedrà. Per adesso ambivo solo a una sospensione dello strazio, non ce la facevo più. Dissi a Pietro, al culmine di un litigio violentissimo sotto gli occhi di Dede ed Elsa:
«Basta. Parto per cinque giorni, soltanto cinque giorni, poi tornerò e vedremo cosa fare. Va bene?».
Lui si rivolse alle bambine:
«Vostra madre dice che sarà assente per cinque giorni, ma voi ci credete?».
Dede fece cenno di no con la testa, e anche Elsa.
«Non ti credono nemmeno loro» disse allora Pietro, «lo sappiamo tutti che ci lascerai e non tornerai più».
E intanto, come per un segnale convenuto, sia Dede che Elsa mi si gettarono contro, abbracciandomi le gambe, supplicandomi di non partire, di restare con loro. Non ressi. Mi inginocchiai, le cinsi per la vita, dissi: va bene, non parto, voi siete le mie bambine, resto con voi. Quelle parole le calmarono, piano piano si calmò anche Pietro. Me ne andai nella mia stanza.
Oh Dio santo, com’era tutto fuori sesto: loro, io, il mondo intorno: una tregua era possibile solo dicendo bugie. Mancavano un paio di giorni alla partenza. Scrissi prima una lunga lettera a Pietro, poi una breve a Dede con la raccomandazione di leggerla anche a Elsa. Preparai una valigia, la misi nella stanza degli ospiti, sotto il letto. Comprai di tutto, stipai il frigo. Preparai per pranzo e per cena i piatti che Pietro adorava, lui mangiò con gratitudine. Le bambine, sollevate, ricominciarono a litigarsi ogni cosa.