23.

Tagliai fuori Lila da tutto quello che seguì.

Ero ferita, non perché mi aveva rivelato che Nino da oltre due anni mi raccontava bugie sullo stato del suo matrimonio, ma perché era riuscita a dimostrarmi ciò che di fatto mi aveva detto fin dal primo momento: che la mia scelta era sbagliata, che io ero stupida.

Poche ore dopo incontrai Nino ma feci finta di niente, mi limitai soltanto a sottrarmi ai suoi abbracci. Ero assorbita dal rancore. Me ne stetti tutta la notte a occhi sbarrati, il desiderio di stringermi a quel corpo lungo di maschio si era guastato. Il giorno dopo lui volle portarmi a vedere un appartamento in via Tasso, e accettai che mi dicesse: se ti piace non ti preoccupare per l’affitto, ci penserò io, sto per avere un incarico che risolverà tutti i nostri problemi economici. Solo in serata non ce la feci più ed esplosi. Eravamo nella casa di via Duomo, il suo amico al solito non c’era. Gli dissi:

«Domani voglio incontrare Eleonora».

Mi guardò perplesso.

«Perché?».

«Devo parlarci. Voglio sapere cosa sa di noi, quando sei an­dato via di casa, da quando non dormite più insieme. Voglio sa­pere se avete chiesto la separazione legale. Voglio che mi dica se suo padre e sua madre sanno che il vostro matrimonio è finito».

Restò calmo.

«Chiedi a me: se qualcosa non ti è chiaro te lo spiego».

«No, mi fido solo di lei, tu sei un bugiardo».

A quel punto cominciai a gridare, passai al dialetto. Cedette subito, non avevo dubbi che Lila mi avesse detto la verità, lui ammise ogni cosa. Lo colpii a pugni chiusi sul petto e mentre lo facevo mi sentii come se ci fosse una me scollata da me che voleva fargli ancora più male, che voleva schiaffeggiarlo, sputargli in faccia come avevo visto fare da piccola nei litigi di rione, gridargli uomo di merda, graffiarlo, strappargli gli occhi. Mi meravigliai, mi spaventai. Sono sempre io quest’altra così furiosa? Io qui, a Napoli, in questa casa lurida, io che se potessi ucciderei quest’uomo, gli ficcherei con tutte le mie forze un coltello nel cuore? Devo trattenere quest’ombra – mia madre, tutte le nostre antenate –, o devo scatenarla? Gridavo, lo colpivo. E lui in principio parò i colpi fingendo di divertirsi, poi all’improvviso si incupì, cadde seduto su una poltrona, non si difese più.

Rallentai, il cuore stava per scoppiarmi. Lui mormorò:

«Siediti».

«No».

«Dammi almeno la possibilità di spiegarti».

Mi accasciai su una sedia il più lontano possibile, lo lasciai parlare. Sai benissimo – cominciò con voce strozzata – che prima di Montpellier avevo detto tutto a Eleonora e che la rottura era insanabile. Ma al ritorno, mormorò, le cose si erano complicate. Sua moglie era diventata pazza, anche la vita di Albertino gli era sembrata in pericolo. Perciò, per poter continuare aveva dovuto dirle che non ci vedevamo più. La bugia per un po’ aveva retto. Ma poiché le spiegazioni che dava a Eleonora per tutte le sue assenze erano sempre più inverosimili, le scenate erano ricominciate. Una volta sua moglie aveva afferrato un coltello e aveva cercato di colpirsi nella pancia. Un’altra volta aveva spalancato il balcone e si voleva buttare giù. Un’altra volta ancora se n’era andata di casa portandosi il bambino. In quell’occasione era sparita per un’intera giornata e lui era morto di paura. Ma quando finalmente l’aveva rintracciata a casa di una sua zia cui era molto legata, si era accorto che Eleonora era cambiata. Aveva cominciato a trattarlo senza rabbia, solo con una venatura di disprezzo. Una mattina – disse Nino affannato – mi ha chiesto se ti avevo lasciata. Le ho risposto di sì. E lei ha detto solo: va bene, ti credo. Ha detto proprio così e da quel momento ha cominciato a fingere di credermi, fingere. Adesso viviamo dentro questa finzione e va tutto bene. Infatti, come vedi, io sono qui con te, dormo con te, se voglio parto con te. E lei sa tutto, ma si comporta come se non sapesse niente.

Qui prese fiato, si schiarì la voce, cercò di capire se lo stavo ascoltando o covavo solo rabbia. Continuai a non dire niente, guardai da un’altra parte. Dovette pensare che mi stessi arrendendo e seguitò con maggiore determinazione a spiegarsi. Parlò e parlò come sapeva fare lui, ce la mise tutta. Fu suadente, autoironico, sofferente, disperato. Ma quando cercò di avvicinarsi, lo respinsi gridando. Allora non resse più e scoppiò a piangere. Gesticolava, si protendeva col busto nella mia direzione, mormorava tra le lacrime: non voglio che mi giustifichi, desidero solo essere capito. Lo interruppi più arrabbiata che mai, urlai: hai mentito a lei e hai mentito a me, e non lo hai fatto per amore di nessuna delle due, l’hai fatto per te, perché non hai il coraggio delle tue scelte, perché sei un vigliacco. Poi passai a parole ripugnanti in dialetto, e lui si lasciò insultare, balbettò soltanto qualche frase di rammarico. Presto mi sentii soffocare, annaspai, tacqui, cosa che gli permise di tornare alla carica. Riprovò a dimostrarmi che mentirmi era stato l’unico modo per evitare una tragedia. Quando gli parve di esserci riuscito, quando mi sussurrò che ora, grazie all’acquiescenza di Eleonora, potevamo senza problemi provare a vivere insieme, gli dissi calma che tra noi era finita. Partii, tornai a Genova.