18.

Per lei uscire, girovagare era ormai la soluzione a tutte le tensioni e i problemi dentro cui si dibatteva. Sempre più spesso andava via la mattina e tornava la sera, senza curarsi di Enzo che non sapeva come fronteggiare la clientela, di Rino, degli impegni che pure prendeva con me quando partivo lasciandole le mie figlie. Era ormai inaffidabile, bastava una contrarietà e mollava tutto senza pensare alle conseguenze.

Carmen sostenne una volta che Lila si rifugiava nel vecchio cimitero sulla Doganella, dove si era scelta una tomba di bambina per pensare a Tina che la tomba non l’aveva, e poi passeggiare tra i vialetti alberati, le piante, i vecchi loculi, soffermandosi davanti alle foto più sbiadite. I morti – mi disse – sono una sicurezza, hanno la lapide, la data di nascita e di morte, mentre sua figlia no, sua figlia resterà per sempre con la sola data di nascita, e questo è brutto, quella povera bambina non avrà mai una conclusione, un punto fisso dove sua madre si potrà sedere e calmare. Ma Carmen aveva una propensione per le fantasie mortuarie e perciò le davo poco retta. Io mi immaginavo che Lila percorresse la città a piedi senza far caso a niente, solo per stordire il dolore che dopo anni continuava ad avvelenarla. O ipotizzavo che avesse deciso davvero, al suo modo sempre estremo, di non dedicarsi più a niente e a nessuno. E poiché sapevo che la sua testa aveva bisogno esattamente del contrario, temevo che le saltassero i nervi, che si scatenasse alla prima occasione contro Enzo, contro Rino, contro di me, contro le mie figlie, contro un passante che la importunava, contro chi le lanciava uno sguardo di troppo. In casa potevo litigarci, acquietarla, controllarla. Ma per strada? Ogni volta che usciva temevo che si ficcasse nei guai. Ma sempre più spesso, quando avevo da fare e sentivo la porta di sotto che sbatteva e il suo passo per le scale, poi giù in strada, tiravo un sospiro di sollievo. Non sarebbe salita da me, non mi sarebbe piombata in casa con parole provocatorie, non avrebbe punzecchiato le ragazze, non avrebbe svalutato Imma, non avreb­be cercato in tutti i modi di farmi male.

Tornai con insistenza a pensare che era tempo di andar via. Ormai era insensato, per me, per Dede, per Elsa, per Imma, restare al rione. Lila stessa del resto, dopo il ricovero in ospedale, dopo l’operazione, dopo gli squilibri del suo corpo, aveva cominciato a dire sempre più spesso ciò che prima diceva sporadicamente: vattene, Lenù, che ci fai qui, guardati, pare che ci stai solo perché hai fatto un voto alla Madonna. Voleva ricordarmi che non ero stata all’altezza delle sue aspettative, che la mia residenza al rione era solo una messinscena per intellettuali, che di fatto a lei, al luogo dove eravamo nate – con tutti i miei studi, con tutti i miei libri – non ero servita e non servivo. Io m’indispettivo e pensavo: mi tratta come se volesse li­cen­ziarmi per scarso rendimento.