35.

Per parecchio tempo fu difficile capire di che cosa fosse accusato. Lila smise ogni atteggiamento ostile nei suoi confronti, raccolse le forze, si occupò solo di lui. In quella nuova prova fu silenziosa e determinata. Si arrabbiò solo quando scoprì che lo stato – poiché lei non aveva contratto con Enzo nessun legame ufficiale e in più non si era mai separata da Stefano – non le voleva riconoscere uno statuto equivalente a quello di moglie e di conseguenza la possibilità di vederlo. Passò allora a spendere parecchi soldi per fargli sentire la sua vicinanza e il suo sostegno attraverso canali non ufficiali.

Io intanto tornai a rivolgermi a Nino. Sapevo da Marisa che aspettarsi un po’ di aiuto da lui era del tutto inutile, non muoveva un dito nemmeno per il padre, la madre e i fratelli. Ma con me s’impegnò di nuovo prontamente, forse per fare bella figura con Imma, forse perché si trattava di mostrare a Lila, an­che se in modo mediato, il suo potere. Nemmeno lui, comunque, riuscì a capire con precisione quale fosse la situazione di Enzo e mi diede in momenti diversi versioni diverse a cui lui stesso attribuiva scarsissima affidabilità. Cosa era successo? Di certo Nadia, nel corso delle sue confessioni a singhiozzo, aveva fatto il nome di Enzo. Di certo aveva riesumato il periodo in cui Enzo aveva frequentato insieme a Pasquale il collettivo operai-studenti in via dei Tribunali. Di certo aveva attribuito a entrambi piccole azioni dimostrative, compiute in anni ormai lontani, contro i beni di ufficiali della Nato residenti in via Manzoni. Di certo gli inquirenti stavano provando a coinvolgere anche Enzo in molti dei crimini che avevano attribuito a Pasquale. Ma a questo punto le certezze finivano e cominciavano le supposizioni. Forse Nadia aveva affermato che Enzo aveva fatto ricorso a Pasquale per delitti di natura non politica. Forse Nadia aveva sostenuto che alcune di quelle azioni sanguinose – in particolare l’assassinio di Bruno Soccavo – erano state compiute da Pasquale e pianificate da Enzo. Forse Nadia aveva detto di aver saputo da Pasquale stesso che a uccidere i fratelli Solara erano stati in tre: lui, Antonio Cappuccio, Enzo Scanno, amici d’infanzia che si erano decisi a quel crimine mossi da una lunghissima solidarietà e da un altrettanto lungo rancore.

Erano anni complicati. L’ordine del mondo dentro cui eravamo cresciuti si stava dissolvendo. Le vecchie competenze dovute allo studio e alla scienza della giusta linea politica sembravano di colpo un modo insensato di impegnare il tem­po. Anarchico, marxista, gramsciano, comunista, leninista, trotz­­­kista, maoista, operaista stavano velocemente diventando etichette attardate o, peggio, un marchio di bestialità. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e la logica del massimo profitto, che prima erano ritenuti un abominio, erano tornati a essere ovunque i cardini della libertà e della democrazia. Intanto, per via legale e illegale, tutti i conti rimasti aperti dentro lo stato e dentro le organizzazioni rivoluzionarie si stavano chiudendo con mano pesante. Si finiva facilmente ammazzati o in galera e tra la gente comune era cominciato il fuggi fuggi. Quelli come Nino – che sedeva in parlamento –, o quelli come Armando Galiani –, che aveva ormai una sua fama grazie alla televisione – avevano intuito per tempo che il clima stava cambiando e si erano velocemente adattati alla nuova stagione. Quanto a quelli come Nadia, evidentemente erano stati ben consigliati e si stavano lavando la coscienza con uno sgocciolio di delazioni. Ma le persone come Pasquale ed Enzo no. Loro con tutta probabilità continuarono a pensare, a esprimersi, ad attaccare, a difendersi, rifacendosi a parole d’ordine che avevano imparato negli anni Sessanta e Settanta. Pasquale in verità portò avanti anche dentro il carcere la sua guerra e ai servitori dello stato non disse una parola, né per accusare né per discolparsi. Enzo invece di sicuro parlò. Al solito modo stentato, misurando con cura ogni parola, espose i suoi sentimenti di comunista ma rigettò contemporaneamente tutte le accuse che gli venivano mosse.

Lila, dal canto suo, concentrò il suo acume, il suo pessimo carattere e avvocati costosissimi nella battaglia per tirarlo fuori dai guai. Stratega Enzo? Combattente? E quando, se lavorava da anni, dalla mattina alla sera, alla Basic Sight? Come gli sarebbe stato possibile uccidere i Solara insieme ad Antonio e a Pasquale, se lui in quelle stesse ore si trovava ad Avellino e Antonio era in Germania? Oltretutto, anche ammesso che fosse stato possibile, i tre amici erano stranoti al rione e ma­scherati o no li avrebbero riconosciuti.

Ma ci fu poco da fare, la macchina della giustizia, come si dice, andò avanti e a un certo punto temetti che anche Lila sa­rebbe stata arrestata. Nadia faceva nomi su nomi. Arre­sta­rono alcuni di quelli che avevano fatto parte del collettivo di via dei Tribunali – uno lavorava alla Fao, uno era impiegato in banca –, e toccò anche all’ex moglie di Armando, Isabella, una tranquilla casalinga sposata a un tecnico dell’Enel. Nadia risparmiò soltanto due persone: suo fratello e, malgrado i timori diffusi, Lila. Forse la figlia della professoressa Galiani dovette pensare che coinvolgendo Enzo l’avesse già colpita in profondità. O forse la odiava e insieme la rispettava, tanto che dopo molte incertezze decise di tenerla fuori. O forse ne aveva paura, e temette un confronto diretto con lei. Ma io preferisco l’ipotesi che avesse saputo della storia di Tina e ne avesse avuto pena, o, meglio ancora, avesse pensato che se una madre s’imbatte in un’esperienza come quella, non c’è più niente che possa davvero ferirla.

Intanto piano piano le accuse contro Enzo si rivelarono senza sostanza, la giustizia perse colpi, si stancò. A conti fatti, dopo molti mesi, restò in piedi pochissimo a suo carico: la vecchia amicizia con Pasquale, la militanza nel comitato operai-studenti ai tempi di San Giovanni a Teduccio, il fatto che il casale in pessime condizioni sopra le montagne del Serino, quello dentro cui si era nascosto Pasquale, era in affitto a uno dei suoi parenti avellinesi. Di passaggio giudiziario in passaggio giudiziario quello che era stato considerato un capo pericoloso, l’ideatore ed esecutore di crimini efferati, fu degradato a simpatizzante della lotta armata. Quando finalmente anche quelle simpatie si rivelarono generiche opinioni che non erano mai arrivate a mutarsi in azioni criminali, Enzo tornò a casa.

Ma ormai erano passati quasi due anni dal suo arresto e al rione gli si era consolidata intorno una fama di terrorista di gran lunga più pericoloso di Pasquale Peluso. Pasquale – diceva la gente per le strade e nei negozi – lo conosciamo tutti fin da bambino, ha sempre lavorato, l’unica sua colpa è stata quella sua coerenza di uomo integro che, pur di non svestire anche dopo il crollo del muro di Berlino la divisa del comunista co­me gliel’aveva cucita addosso suo padre, s’è preso le colpe di altri e non si arrenderà mai. Enzo invece – dicevano – è molto intelligente, si è ben camuffato coi suoi si­lenzi e coi miliardi della Basic Sight, soprattutto ha alle spalle, a guidarlo, Lina Ce­rullo, la sua anima nera, più sveglia e più pericolosa di lui: loro due sì che dovevano aver fatto cose orribili. Così, di chiacchiera astiosa in chiacchiera astiosa, restò stampato addosso a en­trambi il marchio di chi non solo aveva versato sangue, ma era stato così furbo da farla franca.

In quel clima la loro azienda, già in difficoltà per la svogliatezza di Lila e per i tanti soldi che lei aveva speso in avvocati e altro, non riuscì a rimettersi in marcia. Di comune accordo la vendettero e sebbene Enzo avesse ipotizzato spesso che valesse un miliardo di lire, racimolarono a stento un paio di centinaia di milioni. Nella primavera del 1992, quando ormai non litigavano più, si separarono sia come soci in affari che come coppia di conviventi. Enzo lasciò buona parte del denaro a Lina e andò a cercare lavoro a Milano. A me disse un pomeriggio: restale vicino, è una donna che non sta bene con se stessa, avrà una brutta vecchiaia. Per un po’ mi scrisse assiduamente, io feci altrettanto. Un paio di volte mi telefonò. Poi basta.