Veramente la legge con che Amore
1840 il suo imperio governa eternamente
non è dura, né obliqua; e l’opre sue,
Con i suoi poco più di centocinquanta versi, l’atto finale risulta il più breve dell’Aminta, nel segno di una scrittura che muove dall’espansione verso la contrazione. Un’unica scena, e solo due personaggi: Elpino, ora presente di persona dopo essere stato menzionato nel primo e nel terzo atto, racconta al Coro il felice esito della vicenda. Aminta infatti non è morto, per una fortunata coincidenza, e si è ora ricongiunto con Silvia, che finalmente ricambia il suo amore; dunque nulla più si oppone al matrimonio dei giovani. Mé-nage, pp. 321-323, non risparmia le critiche all’ultimo atto: fra le altre osservazioni, rimprovera Tasso per non avere introdotto i due protagonisti a parlare direttamente e per l’inutilità di Elpino, la cui funzione poteva essere svolta da Tirsi (ma dato che nella figura di Elpino è ben riconoscibile Giovan Battista Pigna, non è difficile comprendere che lo spazio a lui concesso risponde anche a ben precise ragioni di opportunità legate alla vita di corte).
piene di providenza e di mistero,
altri a torto condanna. Oh con quant’arte,
e per che ignote strade egli conduce
1845 l’uom ad esser beato, e fra le gioie
del suo amoroso paradiso il pone,
quando ei più crede al fondo esser de’ mali!
Ecco, precipitando, Aminta ascende
al colmo, al sommo d’ogni contentezza.
1850 Oh fortunato Aminta, oh te felice
tanto più, quanto misero più fosti!
Or co ’l tuo essempio a me lice sperare,
quando che sia, che quella bella ed empia,
che sotto il riso di pietà ricopre
1855 il mortal ferro di sua feritate,
sani le piaghe mie con pietà vera,
che con finta pietate al cor mi fece.
Quel che qui viene è il saggio Elpino, e parla
così d’Aminta come vivo ei fosse,
1860 chiamandolo felice e fortunato:
dura condizione de gli amanti!
Forse egli stima fortunato amante
chi muore, e morto al fin pietà ritrova
nel cor de la sua ninfa; e questo chiama
1865 paradiso d’Amore, e questo spera.
Di che lieve mercé l’alato dio
i suoi servi contenta! Elpin, tu dunque
in sì misero stato sei, che chiami
1870 de l’infelie Aminta? e un simil fine
Amici, state allegri,
ché falso è quel romor che a voi pervenne
de la sua morte.
Oh che ci narri, e quanto
ci racconsoli! E non è dunque il vero
che si precipitasse?
ma fu felice il precipizio: e sotto
gli recò vita e gioia. Egli or si giace
nel seno accolto de l’amata ninfa,
1880 quanto spietata già, tanto or pietosa;
e le rasciuga da’ begli occhi il pianto
con la sua bocca. Io a trovar ne vado
Montano, di lei padre, ed a condurlo
colà dov’essi stanno; e solo il suo
1885 volere è quel che manca, e che prolunga
il concorde voler d’ambidue loro.
Pari è l’età, la gentilezza è pari,
e concorde il desio; e ’l buon Montano
vago è d’aver nipoti e di munire
1890 di sì dolce presidio la vecchiaia:
sì che farà del lor voler il suo.
Ma tu, deh, Elpin, narra qual dio, qual sorte
nel periglioso precipizio Aminta
Io son contento: udite,
1895 udite quel che con quest’occhi ho visto.
Io era anzi il mio speco, che si giace
presso la valle, e quasi a piè del colle,
dove la costa face di sé grembo:
quivi con Tirsi ragionando andava
1900 pur di colei che ne l’istessa rete
lui prima e me dapoi ravvolse e strinse,
e proponendo a la sua fuga, al suo
libero stato il mio dolce servigio,
quando ci trasse gli occhi ad alto un grido:
1905 e ’l veder rovinar un uom dal sommo
e ’l vederlo cader sovra una macchia
fu tutto un punto. Sporgea fuor del colle,
poco di sopra a noi, d’erbe e di spini
e d’altri rami strettamente giunti
1910 e quasi in un tessuti, un fascio grande.
Quivi, prima che urtasse in altro luogo,
a cader venne: e bench’egli co’l peso
lo sfondasse, e più in giuso indi cadesse,
quasi su’ nostri piedi, quel ritegno
1915 tanto d’impeto tolse a la caduta,
ch’ella non fu mortal; fu nondimeno
grave così, ch’ei giacque un’ora e piue
stordito affatto e di se stesso fuori.
Noi muti di pietate e di stupore
1920 restammo a lo spettacolo improviso,
riconoscendo lui; ma conoscendo
ch’egli morto non era, e che non era
per morir forse, mitighiam l’affanno.
Allora Tirsi mi diè notizia intiera
1925 de’ suoi secreti ed angosciosi amori.
Ma mentre procuriam di ravvivarlo
con diversi argomenti, avendo in tanto
già mandato a chiamar Alfesibeo,
a cui Febo insegnò la medica arte
1930 allor che diede a me la cetra e ’l plettro,
sopragiunsero insieme Dafne e Silvia,
che, come intesi poi, givan cercando
quel corpo che credean di vita privo.
Ma come Silvia il riconobbe, e vide
1935 le belle guance tenere d’Aminta
iscolorite in sì leggiadri modi
che viola non è che impallidisca
sì dolcemente, e lui languir sì fatto
che parea già ne gli ultimi sospiri
1940 essalar l’alma, in guisa di baccante
gridando e percotendosi il bel petto,
lasciò cadersi in su ’l giacente corpo:
e giunse viso a viso e bocca a bocca.
Or non ritenne adunque la vergogna
1945 lei, ch’è tanto severa e schiva tanto?
La vergogna ritien debile amore:
ma debil freno è di potente amore.
Poi, sì come ne gli occhi avesse un fonte,
inaffiar cominciò co ’l pianto suo
1950 il colui freddo viso, e fu quell’acqua
di cotanta virtù, ch’egli rivenne:
e gli occhi aprendo, un doloroso “ohimè”
de la sua cara Silvia, e fu raccolto
da la soave bocca: e tutto quivi
1960 Or chi potrebbe dir come in quel punto
rimanessero entrambi, fatto certo
ciascun de l’altrui vita, e fatto certo
Aminta de l’amor de la sua ninfa,
e vistosi con lei congiunto e stretto?
1965 Chi è servo d’Amor, per sé lo stimi.
Ma non si può stimar, non che ridire.
Aminta è sano sì, ch’egli sia fuori
Aminta è sano,
se non ch’alquanto pur graffiat’ha ’l viso,
1970 ed alquanto dirotta la persona;
ma sarà nulla, ed ei per nulla il tiene.
Felice lui, che sì gran segno ha dato
d’amore, e de l’amor il dolce or gusta,
a cui gli affanni scorsi ed i perigli
1975 fanno soave e dolce condimento;
ma restate con Dio, ch’io vo’ seguire
il mio viaggio, e ritrovar Montano.
che provato ha costui servendo, amando,
raddolcito puot’esser pienamente
e più si gusta dopo ’l male il bene,
1985 io non ti cheggio, Amore,
questa beatitudine maggiore;
bea pur gli altri in tal guisa:
dopo brevi preghiere e servir breve;
L’intervento conclusivo del Coro, auspicante per sé un amore meno tormentato di quello di Aminta, costituisce una sorta di controcanto “leggero” alla voce commossa di Elpino, e rappresenta bene la visione non univoca, ma dialettica che emerge dall’intera opera.
Metro: lassa di 19 settenari ed endecasillabi con varie rime; nella prima parte prevalgono le rime baciate, nella seconda i versi irrelati, prima del distico conclusivo ancora a rima baciata.
non sì gravi tormenti,
1995 risse e guerre a cui segua,
reintegrando i cori, o pace o tregua.
1839. con che: ‘con cui’.
1840. il suo imperio: ‘il suo regno’, ‘il popolo a lui soggetto’; eternamente: a chiudere un distico aperto da un altro avverbio di modo, con una corrispondenza fonica.
1841. obliqua: ‘iniqua’, ‘ingiusta’. Petrarca, Tr. Cup., III 148-150: «Dura legge d’Amor! ma benché obliqua, / servar convensi, però ch’ella aggiunge / di cielo in terra, universale, antiqua»; è la legge che impone di amare anche se non si viene ricambiati.
1842. piene … mistero: Tasso applica qui ad Amore concetti religiosi cristiani, affermando che egli agisce in senso provvidenziale e attraverso vie misteriose per gli uomini.
1843. altri: cioè, ad esempio, tutta la secolare tradizione letteraria (tra cui l’appena citato Petrarca) che si querela delle ingiuste sofferenze provocate dal dio; arte: ‘sapienza’, ‘abilità’.
1844. ignote: all’uomo; egli: Amore.
1846. amoroso paradiso: come nel Coro immediatamente precedente, viene tratteggiata una condizione di felicità “celeste” creata dalla concordia amorosa, ma in chiave meno spirituale e più concreta.
1847. quando … mali: ‘quando egli crede di essere nel punto più profondo dei propri mali’.
1848. precipitando … ascende: gioco ossimorico tra la caduta fisico-spaziale di Aminta e la sua “salita” psicologica e sentimentale: cfr., in proposito, le considerazioni di Gigliucci 2002. Anche questa espressione ribalta una formula di Petrarca, Tr. Cup., IV 144, secondo cui in amore «più scende chi più sale».
1850-1851. felice … fosti: la presente felicità di Aminta sarebbe accresciuta dal ricordo della sofferenza passata, all’inverso di quanto afferma la massima stoica ripresa in Inf., V 121-123 («Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria»): è la beatitudine maggiore che verrà prosaicamente rifiutata dal Coro finale dell’atto.
1852. co ’l tuo … sperare: la lieta conclusione della vicenda di Aminta, resa possibile dalla conversione di Silvia dalla durezza alla pietà, autorizza Elpino a sperare in un analogo esito per il proprio amore sfortunato.
1853. quando che sia: ‘in un qualsiasi futuro’. Cfr. Dante, Inf., I 119-120: «speran di venire / quando che sia a le beate genti»; Boccaccio, Filostrato, Proemio, 24: «speranza di dovervi pure quando che sia rivedere, e nella prima felicità […] ritornare»; quella … empia: Licori, di cui si è parlato ai vv. 272-322.
1854-1855. sotto … feritate: ‘sotto un pietoso sorriso nasconde l’arma mortale della propria crudeltà’.
1856-1857. sani … fece: ‘guarisca con la vera pietà le ferite che mi fece nel cuore con la pietà finta’. Chiasmo e antitesi (pietà vera/finta pietate), che fanno seguito a una prima occorrenza del sostantivo pietà a distanza ravvicinata. Cfr. il sonetto tassiano per la Bendidio da cui provengono i vv. 320-322 dell’Aminta, segnalato nella nota a questo passo da Varese, p. 127 (Rime, 88, 9-11): «Né pietà vera ne’ begli occhi accoglie / ma crudeltà, ch’in tal sembianza or mostri, / perché l’alma ingannata arda e consumi».
1858-1871. Quel … vorresti?: poiché Elpino non ha ancora dichiarato in maniera esplicita che Aminta è scampato alla morte, il Coro equivoca le sue parole. La battuta è pronunciata “a parte” fino a metà del v. 1867, quindi rivolta all’interlocutore in scena.
1858-1859. parla … come: ‘parla di Aminta come se’.
1861. dura condizione: cfr. il v. 374.
1863-1864. morto … ninfa: era questo il “petrarchesco” desiderio di Aminta, nell’impossibilità di essere ricambiato in vita.
1865. spera: per sé.
1866-1867. Di che … contenta!: ‘con quale piccola ricompensa Amore ripaga chi gli ubbidisce!’.
1868. in sì … sei: ‘sei tanto disperato’.
1868-1869. chiami / fortunata: per la terza volta, come già ai vv. 1860 e 1864-1865, il Coro ripete le parole appena usate da Elpino.
1869. miserabile: ‘compassionevole’.
1870. un … fine: ‘una morte analoga’.
1871. sortir: ‘ottenere in sorte’.
1872. romor: ‘voce’.
1874. il vero: ‘la verità’.
1875. pur: ‘proprio’.
1876. fu … precipizio: ‘la sua caduta fu fortunata’.
1876-1877. sotto … morte: ‘sotto una dolorosa apparenza di morte’. Cfr. la medesima antitesi in Rime, 28, 7-8: «ne l’imagine di morte / trovò l’egro mio cor salute e vita» (Varese, p. 128); Liberata, XIV 65, 6: «imagine di morte».
1879. nel seno: ‘nel grembo’, ‘fra le braccia’.
1880. quanto … pietosa: verso costruito secondo lo schema a b c/a’ c’ b’, in cui b e b’ sono elementi antitetici.
1884-1886. solo … loro: ‘è solo la sua volontà che manca, e che ritarda l’attuazione del loro comune desiderio’; si attende cioè soltanto l’approvazione di Montano per ufficializzare l’unione tra i due giovani celebrando le nozze. Cfr. Inf., II 139: «un sol volere è d’ambedue» (Varese, p. 129). Il volere concorde di Silvia e Aminta ristabilisce finalmente l’armonia che regnava fra loro nella fanciullezza, e l’aggettivo si aggiunge a una serie di lessemi caratterizzati dalla medesima radice, comparsi nel testo fra il v. 412 e il 421 (compagnia, congiunti, conforme, commune).
1887. Pari … pari: ennesimo verso chiastico (a b c/c’ b a); Pari è l’età: come dichiarato da Aminta al v. 416; gentilezza: ‘nobiltà di sangue’ (cfr. le parole di Dafne, vv. 176-180).
1889. vago: ‘desideroso’.
1889-1890. munire … vecchiaia: ‘proteggere con un così dolce sostegno la propria vecchiaia’ (ma la terminologia è militaresca: letteralmente ‘fortificare con un presidio’). Cfr. Liberata, III 35, 3-4: «vecchiezza […] munita / di duo gran figli» (Cerboni Baiardi, pp. 117-118).
1891. farà … suo: Purg., II 97: «di giusto voler lo suo si face» (Varese, p. 129); Ecloghe, IV 102: «Farai de ’l tuo volere il mio».
1892. sorte: ‘caso fortuito’.
1893. precipizio: ‘caduta’, come sopra.
1894. son contento: ‘acconsento volentieri a narrarlo’.
1895. quel … visto: Petrarca, Tr. Cup., IV 86-87: «quel che con questi occhi / vidi» (Ménage, p. 326).
1896. anzi … speco: ‘davanti a casa mia’, letteralmente ‘alla mia grotta’: «è un termine della finzione arcadica per indicare l’abitazione» (Varese, p. 129), così come antro; si giace: ‘si trova’, ‘è situata’.
1898. dove … grembo: ‘dove la costa della collina forma una rientranza’. Ripresa integrale di Purg., VII 68.
1899. ragionando andava: ‘stavo discorrendo’.
1900. pur: ‘ancora’.
1900-1901. colei … strinse: Licori/Lucrezia, che catturò nella propria rete amorosa prima il Tasso e poi il Pigna (cfr. atto I, scena I). Cfr. Petrarca, RVF, 34, 8: «tu prima, et poi fu’ invescato io» (Solerti, p. 282).
1902-1903. proponendo … servigio: ‘[stavo] dichiarando di preferire alla fuga di Tirsi e alla sua condizione di libertà la mia dolce servitù’. Tirsi infatti non è più innamorato, come egli stesso ha affermato ai vv. 961-965, mentre Elpino lo è tuttora.
1904. ci trasse … grido: ‘un grido attirò il nostro sguardo verso l’alto’.
1905. rovinar: ‘precipitare’.
1906. una macchia: è l’intrico di arbusti descritto di seguito.
1907. tutto un punto: ‘tutt’uno’, ‘una cosa sola’.
1909-1910. strettamente … tessuti: ‘fittamente congiunti fra loro, quasi fossero stati tessuti insieme’.
1913. giuso: ‘giù’; indi: più probabilmente un’indicazione di luogo (‘da quel punto’, ‘di lì’) che non di tempo.
1914. ritegno: ‘freno’, ‘ostacolo’.
1915. impeto: ‘violenza’, ‘slancio’.
1917. piue: ‘più’, con epitesi, «per evitare l’endecasillabo tronco» (Cerboni Baiardi, p. 119).
1918. stordito … fuori: ‘del tutto tramortito e privo di sensi’.
1919. di pietate … stupore: nuovo binomio, dove lo stupore per lo spettacolo imprevisto prende il posto della tema e dell’orrore espressi dai narratori precedenti, Nerina ed Ergasto; la sostituzione appare d’altronde perfettamente logica, poiché qui non siamo in presenza di una situazione tragica, ma anzi il racconto di Elpino è avviato verso il lieto fine. In Speroni, Canace, 1239, Eolo «muto dallo stupore» guarda la regina svenuta (Basile, p. 129); Ecloghe, IV 156: «vinto da stupore e da pietate».
1921. riconoscendo … conoscendo: chiasmo fonico.
1921-1923. conoscendo … affanno: ‘accorgendoci che non era morto, e che forse non sarebbe morto, calmammo il nostro dolore’.
1924. mi diè … intiera: dei secreti sentimenti d’amore di Aminta infatti solo Tirsi e Dafne erano interamente a conoscenza; ma anche Elpino spesso lo consolava delle sue angosce (cfr. vv. 1316-1320).
1925. amori: plurale letterario, da intendersi con valore di singolare. Cfr. Liberata, VII 19, 5: «e de’ suoi strani ed infelici amori», vicino per ritmo e struttura (Varese, p. 130).
1926. ravvivarlo: ‘farlo tornare in sé’.
1927. argomenti: ‘rimedi’, ‘accorgimenti’; in tanto: ‘nel frattempo’.
1928. Alfesibeo: dietro l’identità pastorale si può probabilmente riconoscere un altro personaggio della corte ferrarese, Girolamo Brasavola (1536-1594), protomedico di Alfonso II e cognato del Pigna; figlio di Antonio Musa Brasavola, medico a sua volta e celebre naturalista, forse ricordato in Liberata, XI 70 con il nome di Erotimo.
1929. Febo: dio della medicina, oltre che della poesia.
1930. cetra: simboleggia qui l’arte poetica in generale; plettro: è la piccola lamina usata ancora oggi per suonare alcuni strumenti a corda.
1932. givan: ‘andavano’.
1932-1933. cercando … privo: come detto sul finire dell’atto precedente.
1934. come: ‘non appena’.
1936. iscolorite … modi: belle pur avendo perso il loro colore naturale; è il tópos dell’avvenenza che si mantiene anche nella morte (qui soltanto apparente), per il quale cfr., ad esempio, Petrarca, Tr. Mort., I 166-172; Liberata, XII 69, 1-2 e 8.
1937-1938. viola … dolcemente: ‘non esiste viola il cui colore pallido sia altrettanto dolce’. La viola in poesia è il fiore pallido per antonomasia, a partire dalle «pallentis violas» di Virgilio, Buc., II 47, per continuare, tra gli altri, con Orazio, Petrarca, Sannazaro; in Liberata, XII 69, 2 è secondo termine di una similitudine riferita a Clorinda morente, e ancora per un giovane creduto morto l’immagine è utilizzata in Ecloghe, IV 213.
1938. lui languir: retto sempre da vide (v. 1934): ‘lo vide giacere ferito, sofferente’; sì fatto: ‘in modo tale’.
1939-1940. ne gli ultimi … l’alma: ‘sul punto di spirare’.
1940. in guisa di baccante: cioè come un’invasata; tali erano le donne che partecipavano ai riti orgiastici in onore di Bacco. Non si potrebbe dare capovolgimento più completo per Silvia, già algida e altera e ora preda del furor.
1941. percotendosi … petto: in segno di afflizione.
1942. lasciò cadersi: ‘si lasciò cadere’.
1943. giunse: ‘congiunse’. Cfr. Liberata, XVIII 32, 7: «giungi i labri a le labra, il seno al seno» (Ménage, p. 329).
1944-1945. non … lei: ‘il pudore dunque non la trattenne’.
1945. tanto … tanto: ancora un ostentato chiasmo. La battuta del Coro sottolinea la distanza psicologica tra la vecchia e la nuova Silvia.
1946-1947. La vergogna … amore: ‘il pudore può trattenere un amore debole, ma è freno troppo debole per un amore forte’. Elpino risponde al Coro con una massima densa di ripetizioni, antitesi e sinonimi, prima di riprendere la narrazione dei fatti.
1948. sì come … fonte: il soggetto, ovviamente, è ancora Silvia. Cfr. Petrarca, RVF, 161, 4: «occhi non già, ma fonti», con ricordo di Ier 9, 1: «Quis dabit […] oculis meis fontem lacrymarum?».
1950. colui: con ellissi della preposizione ‘di’: il freddo viso di Aminta; acqua: ‘liquido’, cioè il pianto.
1951. virtù: ‘efficacia’; rivenne: ‘rinvenne’. Allo stesso modo, le lacrime di Erminia fanno riprendere i sensi a Tancredi in Liberata, XIX 109, 3-5, e quelle di Rinaldo ad Armida in XX 129, 1-6 (Ménage, p. 329).
1953. spinse … interno: ‘emise dal profondo del petto’.
1954-1959. quell’“ohimè” … raddolcissi: il lamento di Aminta, proferito quando egli, semincosciente, non si è ancora accorto della presenza di Silvia, termina in un bacio di quest’ultima, trasformandosi all’istante da amaro in dolce. Il culmine amoroso della scena è puntualmente segnalato da una rima fra i vv. 1955 e 1959.
1954-1955. amaro … partissi: ‘uscì tanto amaro dal cuore’.
1956. spirto: ‘respiro’.
1960. chi potrebbe dir: topica dichiarazione di ineffabilità dell’esperienza d’amore: qui compare in veste di domanda retorica, e verrà poi ribadita in forma negativa dall’ultimo verso della battuta.
1960-1961. come … rimanessero: ‘in che stato d’animo si siano trovati in quel momento’.
1962. ciascun: il pronome, così come entrambi al verso precedente, sottolinea anche sul piano linguistico la reciprocità finalmente raggiunta dalla coppia dei protagonisti; de … vita: ‘che l’altro era vivo’.
1965. Chi … stimi: ‘chi è innamorato lo giudichi da sé’. Per i servi d’Amore, cfr. la nota ai vv. 1275-1277.
1966. non che ridire: ‘e non soltanto esprimere a parole’. Cfr. Petrarca, RVF, 221, 13: «i’ nol so ripensar, nonché ridire».
1967-1968. sano … vita?: ‘abbastanza sano da non essere in pericolo di vita?’.
1970. dirotta … persona: ‘contuso il resto del corpo’.
1971. sarà nulla: ‘non avrà conseguenze’; per … tiene: ‘non vi dà alcuna importanza’.
1972. Felice: dopo che innumerevoli volte Aminta, nel corso del dramma, è stato definito misero, infelice, meschino, ora Elpino insiste sul suo ribaltamento di fortuna.
1972-1973. sì gran … gusta: articolato chiasmo sintattico a b c/c a’ b’, dove a ed a’ sono i complementi oggetto, b e b’ i predicati; segno: ‘prova’ (ma allo stesso gran segno […] d’amore qui esaltato da Elpino ha esplicitamente negato il proprio assenso il Coro che conclude l’atto terzo).
1974. scorsi: ‘passati’, ‘superati’.
1975. condimento: di dolcezze d’amore e relativi ‘condimenti’ hanno già dibattuto Dafne e Tirsi ai vv. 947-951: Elpino mostra di condividere il punto di vista della prima, il Coro finale che sta per intervenire quello del secondo.
1976. restate … Dio: formula di congedo; seguire: ‘proseguire’.
1978. Non so: il Coro esordisce, non senza ironia, mettendo in dubbio la commossa “morale” che Elpino ha appena tratto da tutta la vicenda; amaro: l’intero discorso appare giocato su una serie di antitesi equivalenti: amaro/dolce, male/bene, tormenti/beatitudine, guerre/pace.
1979. costui: Aminta.
1979-1980. servendo … disperando: una successione di gerundi per descrivere il comportamento dell’amante supplichevole anche al v. 157 e in Petrarca, RVF, 265, 12-13.
1982. alcun … presente: ‘qualsiasi attuale dolcezza’. Varese, p. 133, propone di interpretare presente anche come ‘regalo’, basandosi sul raffronto con Rime, 39, 9-10: «dono […] / ond’addolcisca il molto amaro».
1983-1984. se … bene: riprende esattamente il senso dei vv. 1850-1851; caro: ‘gradito’.
1985. cheggio: ‘chiedo’.
1987. bea … guisa: ‘rendi pure felici gli altri in questo modo’; invito quasi beffardo, che ricorda il tono dell’esortazione all’Onore del primo Coro affinché se ne vada presso coloro che sono in grado di apprezzare la sua grandezza (vv. 710-718).
1988. me … accoglia: ‘la mia ninfa accetti l’amore che le offro’.
1989. brevi … breve: con ripetizione dello stesso termine nelle posizioni estreme del chiasmo, a sottolineare l’idea principale.
1990-1991. condimenti … dolcezze: altra risposta diretta alle affermazioni di Elpino (vv. 1973-1975).
1993-1994. soavi … ripulse: cioè, leggere schermaglie amorose e non forti resistenze; ripulse: ‘rifiuti’. Cfr. Petrarca, RVF, 205, 1: «dolci sdegni»; ivi, 351, 1-3: «Dolci durezze, et placide repulse, / […] / leggiadri sdegni»; Liberata, XVI 25, 1-2: «Teneri sdegni, e placide e tranquille / repulse» (Ménage, pp. 333-334).
1996. reintegrando: ‘facendo tornare interi’. Nonostante il sapore disimpegnato dell’ultimo Coro, l’Aminta si chiude con un probabile riferimento “alto”; il testo qui sembra infatti alludere al mito dell’androgino originario, le cui parti aspirano alla ricongiunzione, narrato da Aristofane nel Simposio platonico (189c-193e). Nel dialogo Il Cataneo overo de le conclusioni amorose Tasso lega al ricordo del mito la citazione di un passo del Bembo che impiega proprio questo verbo: «Ma peraventura quelli che furono già uniti, secondo la favola d’Aristofane desiderano di ricongiungersi: però si legge in alcun de’ nostri che poetò a guisa di gentile: “Però che noi non siamo cosa integra, / né voi; ma è ciascun del tutto il mezzo: / Amore è poscia quel che ne rintegra / e ne congiunge come parte al mezzo” [cfr. Bembo, Stanze, 47, 1-4]» (p. 805). L’«antica favola di Aristofane» è menzionata dal Tasso anche nella lettera-trattatello in lode del matrimonio inviata nel 1585 al cugino Ercole (Lettere, II, p. 411). Sulla “reintegrazione” susseguente alle risse e guerre, cfr. infine Terenzio, Andria, III 555: «amantium irae amoris integratiost».