Napoleone e il bonapartismo
di Alberto Mario Banti
1. Parigi, 3 gennaio 1798
Luci accese all’Hôtel de Galliffet. Carrozze che arrivano. Bella gente che ne esce. Domestici che si occupano dell’accoglienza. C’è un ricevimento in corso. Lo ha organizzato Talleyrand, che è il padrone di casa. Uomo affascinante e inquietante, questo Talleyrand. Il «diavolo zoppo», lo chiamano. Zoppo perché, a causa di un incidente occorsogli quando era bambino, un piede non lo sorregge a dovere. E se lui in persona non è un diavolo, almeno un qualche tipo di accordo con Satana deve averlo sottoscritto: perché, vivendo in tempi tremendamente turbinosi, sembra dotato della capacità di restare sempre nelle prime file, tra gli uomini che contano, qualunque sia il regime che domina, qualunque sia il potente di turno.
Certo, è nato bene, nel 1754, in una delle più importanti famiglie dell’aristocrazia francese. Poi ha fatto gli studi giusti, anche se non sono quelli che avrebbe voluto fare: per imposizione dei genitori ha studiato in seminario, e nel 1779, all’età di 25 anni, è stato ordinato sacerdote. La sua vocazione non è per niente solida e quindi, nonostante la sua ordinazione, conduce una vita estremamente dissoluta. Ma è anche una vita ricca di relazioni con gente influente, prelati, intellettuali, politici in vista, le massime autorità dello Stato addirittura, tanto che nel 1789, a 35 anni, viene nominato vescovo di Autun grazie all’intervento diretto di Luigi XVI. In quello stesso anno, quando ormai la marea della crisi rivoluzionaria sta per sommergere la Francia, viene eletto tra i rappresentanti del clero agli Stati generali. Da allora diventa una delle personalità di spicco dell’esperienza rivoluzionaria, tra i protagonisti dell’Assemblea costituente, e tra i maggiori sostenitori della Costituzione civile del clero, tanto che nel 1791 viene scomunicato da papa Pio VI. Poi le cose si fanno complicate anche per uno come lui: la radicalizzazione del clima politico lo induce a chiedere e ottenere un incarico diplomatico in Inghilterra, che gli permette di allontanarsi dalla Francia proprio quando i giacobini stanno per imporre la loro politica del terrore. Le cose sembrano comunque mettersi male: dall’Inghilterra viene espulso, ed è costretto a trasferirsi negli Stati Uniti, dove la sua nascita e le sue relazioni non sembrano valere molto. Nel 1796, però, il nuovo governo della Repubblica francese, che ha rovesciato Robespierre e i giacobini, lo autorizza a ritornare in patria; e nel 1797 Paul Barras, uno dei leader del Direttorio (che è il nome assunto dal governo della Repubblica francese), fa in modo che venga nominato ministro degli Esteri.
In effetti l’Hôtel de Galliffet, dove il 3 gennaio del 1798 si svolge il ricevimento, è la sede del ministero degli Esteri della Repubblica francese. In quell’occasione tra gli ospiti c’è anche Vivant Denon, un cinquantenne che ha fatto carriera come diplomatico sia sotto Luigi XV che sotto Luigi XVI; poi è riuscito a mantenersi in sella anche dopo lo scoppio della Rivoluzione, un po’ come ha fatto Talleyrand. Anzi, durante la Rivoluzione è riuscito a coltivare la sua vera passione, che è l’arte, e in particolare l’arte antica. Già mentre era ambasciatore a Napoli (1782-87) si era interessato degli scavi in corso a Pompei. Poi, al suo ritorno a Parigi, è diventato amico di Jacques-Louis David, il dominatore dell’arte francese di questi anni.
Adesso Denon è davanti al buffet, dove ha preso un bicchiere di limonata. Voltandosi quasi si scontra con un giovane magro, piuttosto basso, con i capelli lunghi e gli occhi brillanti, che il buffet, invece, non riesce a raggiungerlo. Si narra che Denon gli abbia offerto il suo bicchiere di limonata e che i due abbiano fatto amicizia.
Quel giovane è il nostro uomo: Napoleone Bonaparte.
All’epoca del ricevimento ha 29 anni ma è già una celebrità: e il ricevimento in corso è proprio per lui, per omaggiarlo come la nuova brillante stella della Grande Nation. In effetti già nel 1793, quando aveva appena 24 anni, si era distinto come comandante dell’artiglieria durante l’assedio di Tolone, operazione con la quale si era meritato i gradi di generale. Nel 1795, poi, aveva coordinato la repressione militare di una ribellione filomonarchica scoppiata a Parigi, un’azione per la quale gli uomini del Direttorio – e Barras in primo luogo – gli devono riconoscenza. Non è comunque esattamente per queste gesta che è diventato famoso. La sua vera fama nasce nel 1796. È allora che sposa la donna di cui si è innamorato perdutamente, Joséphine Beauharnais. Costei è un’affascinante vedova creola che è stata in precedenza amante di Barras. Grazie ai buoni uffici di Joséphine, e all’apprezzamento che Barras già nutre per lui, all’inizio di marzo del 1796 Napoleone Bonaparte viene nominato capo dell’Armata d’Italia. Il nome roboante di questa sezione dell’esercito francese non deve nascondere la realtà della situazione: l’Armata d’Italia è un esercito non molto numeroso e male attrezzato, destinato a svolgere un ruolo secondario nel piano d’attacco all’Austria e alle altre potenze antifrancesi che il Direttorio sta meditando. Ma qui la genialità di Napoleone Bonaparte emerge in tutto il suo splendore. Agendo in buona misura di testa sua, in un anno – dall’aprile del 1796 all’aprile del 1797 – Bonaparte trasforma l’Armata d’Italia in un esercito di micidiale efficacia, che riesce a battere piemontesi e austriaci e a dilagare nella Valle Padana, occupando Milano e spingendosi fino ben dentro i confini dell’Impero austriaco, non lontano da Vienna.
In questa impresa Bonaparte mostra tutte le sue qualità e i suoi difetti: è chiaro che è un abilissimo comandante, capace di parlare ai suoi soldati, di conquistarne la fiducia e di guidarli in modo geniale sul campo di battaglia. È chiaro che è anche un politico accorto e assolutamente privo di scrupoli: quando deve negoziare la pace con Vienna non ha alcun problema a fare di Venezia una pura e semplice pedina nelle trattative diplomatiche, cedendola all’Austria in cambio del dominio indisturbato sul resto della Pianura Padana e sull’intera penisola. Comunque sia, i suoi successi sono indiscussi. E difatti, quando torna a Parigi, nel dicembre del 1797, viene accolto come un trionfatore.
Ai primi del 1798, però, quando si svolge il ricevimento da Talleyrand, Bonaparte è inquieto. Il rapporto con sua moglie Joséphine è già a pezzi. Lui, innamorato pazzo, ha saputo che lei lo ha ripetutamente tradito mentre era impegnato nella campagna d’Italia; e sebbene senta attrazione e tenerezza per lei, il sogno di un appassionato amore romantico, che per qualche tempo Napoleone ha accarezzato, è già andato in frantumi. Accanto a queste non trascurabili inquietudini private, altre ombre lo minacciano. Sono ombre alimentate dall’evoluzione della scena pubblica francese. Il governo della Repubblica celebra Napoleone Bonaparte ma – al tempo stesso – lo teme. Troppo osannato. Toppo bravo come generale. Troppo amato dalle sue truppe. In sostanza: i leader del momento hanno paura che Bonaparte possa usare tutte queste sue risorse per imporsi politicamente. Però, per il momento, tutte queste preoccupazioni sono francamente eccessive. Nel 1798 Bonaparte non ha ancora ambizioni politiche. Pensa a se stesso come a un capo militare e vuole solo la gloria delle armi. Perciò ritiene che una sua troppo lunga permanenza a Parigi senza far niente di speciale possa dissipare tutto il capitale di prestigio che si è conquistato in Italia nei mesi precedenti. E quindi medita una qualche nuova impresa, che rinnovi la sua gloria nel modo più clamoroso possibile. Proprio nel gennaio del 1798 scrive a un suo amico d’infanzia: «A Parigi non si conserva il ricordo di niente. Se resto a lungo ozioso, sono perduto. [...] non voglio restare [a Parigi]; qui non c’è nulla da fare. Vedo che se resto, tra poco affondo. Tutto si logora qui. La mia gloria è già superata. Questa piccola Europa non offre abbastanza. Bisogna andare in Oriente, tutte le grandi glorie vengono di là. Andrò in Egitto».
Chissà se nel corso del ricevimento all’Hôtel de Galliffet parla di questo suo progetto alla sua nuova conoscenza, Vivant Denon. Fatto sta che quando Napoleone si decide a organizzare la spedizione in Egitto – una spedizione che Talleyrand appoggia con entusiasmo, pur di togliersi dai piedi l’ingombrante giovane generale – Denon è tra coloro che partono con Bonaparte. Anzi, diventerà ben presto il suo collaboratore principale nel campo della politica artistica, alla quale Napoleone tiene molto. In Egitto Denon ha modo di preparare il suo Voyage dans la Basse et la Haute Égypte pendant les campagnes du général Bonaparte, uno dei più importanti resoconti delle scoperte geografiche e archeologiche compiute durante la spedizione, pubblicato nel 1802. In quello stesso 1802 Denon sarà anche nominato responsabile del Musée Napoléon, primo nucleo di quello che diventerà poi il Museo del Louvre. Ed è in ricordo del suo primo direttore che ancora oggi una delle ali del Louvre porta il nome di «Padiglione Denon».
2. Saint-Cloud, 10 novembre 1799
Primo pomeriggio. Palazzo di Saint-Cloud, appena fuori Parigi, oltre il Bois de Boulogne. In una delle sue sale è in corso una riunione della Camera alta del Parlamento della Repubblica francese, che si chiama Consiglio degli Anziani. Al centro della sala nella quale è riunita l’assemblea c’è Napoleone. Che ci fa lì, lui che non è un membro del Parlamento? Pallido, stravolto, sta cercando di arringare i membri del Consiglio. Il suo discorso è confuso e le sue frasi sconnesse, ma si capisce comunque quel che vuole dire: propone agli Anziani l’autoscioglimento del Parlamento, perché venga sostituito da un’autorità provvisoria di cui egli, Napoleone, farebbe ovviamente parte. Il trambusto è massimo. Gli Anziani non vogliono ascoltarlo. Napoleone si confonde, dice frasi inarticolate. Un suo stretto collaboratore, Bourrienne, dopo avergli detto: «Uscite, Generale, voi non sapete più quel che dite», lo prende per un braccio e lo porta via di lì.
Napoleone è sconvolto e seriamente preoccupato. Decide allora di giocarsi il tutto per tutto e di recarsi presso i membri della Camera bassa del Parlamento, riuniti in una stanza vicina. Presidente dell’Assemblea dei Cinquecento – così si chiama la Camera bassa – è suo fratello Luciano. Napoleone entra, seguito da quattro granatieri armati, ma, appena i deputati lo vedono entrare, non gli lasciano nemmeno aprire bocca. Al grido di «Abbasso il tiranno! Abbasso il dittatore! Fuori Cromwell!» escono dagli scranni e gli sono addosso. Napoleone, protetto dai granatieri ma bianco come un cencio e visibilmente turbato, è costretto a uscire in tutta fretta e a recarsi in una stanza attigua dove Joseph-Emanuel Sieyès lo sta aspettando con ansia.
Che significa tutta questa scena? Che sta succedendo? Succede che la situazione politica e militare della Repubblica francese sta precipitando. Tra il maggio del 1798 e l’ottobre del 1799 Napoleone è stato impegnato in Egitto in una spedizione militare che aveva come obiettivo la conquista di una base che potesse consentire di minacciare da vicino il dominio inglese in Asia: ma la spedizione, nonostante i grandi successi scientifici, e nonostante alcune importanti vittorie militari, è stata fallimentare.
Intanto il quadro militare, oltre che sul marginale territorio egiziano, si è capovolto anche sul più cruciale quadrante europeo. Alla fine del 1798 la Seconda coalizione antifrancese, alla quale aderiscono Russia e Austria, a fianco della Gran Bretagna, ha avviato una controffensiva in grande stile. Uno dei principali teatri di guerra è la penisola italiana; e lì, ancora prima dell’arrivo dell’esercito austro-russo, scoppiano dure rivolte popolari antifrancesi. Nel marzo del 1799, quando gli eserciti austriaco e russo sferrano una poderosa offensiva contro i francesi nella Pianura Padana, sono preceduti o seguiti da una quantità di insurrezioni che scoppiano in varie parti della penisola, nel Polesine, in Toscana (dove operano le armate dei «Viva Maria»), in Piemonte, e nel Napoletano (dove il cardinale Fabrizio Ruffo riesce a costituire un’armata, detta della «Santafede», composta da contadini e da civili, e a condurla vittoriosamente dalla Calabria a Napoli). Gli eserciti francesi sono in ritirata dovunque.
In Francia, intanto, il Direttorio è profondamente in crisi. In realtà è da almeno quattro anni che l’assetto politico della Repubblica è travagliato da una costante instabilità. E così, nella mente di diversi uomini politici di spicco si fa strada l’idea della necessità di un colpo di Stato che porti alla formazione di un più solido sistema di governo. Il più deciso a muoversi in questa direzione è Emmanuel-Joseph Sieyès. Nato nel 1748, Sieyès ha studiato in seminario e nel 1774 è stato ordinato sacerdote. Nel 1789 è stato inviato agli Stati generali come rappresentante del Terzo Stato. Proprio all’inizio di quell’anno ha pubblicato un importantissimo pamphlet intitolato Che cos’è il Terzo Stato, che gli ha dato grande fama e gli ha permesso di svolgere un ruolo di primo piano nell’Assemblea nazionale costituente; lì ha dato un contributo essenziale sia alla redazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), sia alla redazione della prima Costituzione francese (1791). Nel maggio del 1799 Sieyès è riuscito a diventar membro del Direttorio e ha abbracciato con la massima decisione l’idea di un colpo di Stato capace di restituire forza e autorità alle istituzioni della Repubblica. Ha però bisogno di «una spada», cioè di un generale che sia in grado di far schierare l’esercito dalla parte dei golpisti. Nell’autunno del 1799 Sieyès, d’accordo con altre importanti personalità politiche tra le quali Talleyrand, ha deciso di puntare su Napoleone. Il generale sta tornando dall’Egitto, dove ha appena conseguito una spettacolare, ma strategicamente inutile, vittoria sull’esercito ottomano, che le gazzette francesi elogiano anche al di là del suo vero significato militare. Ma sta di fatto che Napoleone Bonaparte sta tornando in Francia circondato da una solidissima aura di gloria che lo rende di nuovo estremamente popolare.
Tornato a Parigi, Bonaparte si incontra con Sieyès, col quale si accorda per realizzare il colpo di Stato, che deve aver luogo tra il 18 e il 19 brumaio (9-10 novembre 1799). Solo che adesso Napoleone ha maturato ambizioni politiche proprie, e non si vuol contentare di fare il brutale esecutore della linea stabilita dal politico di turno: vuole un ruolo di primo piano nel regime che nascerà dopo il colpo di Stato. Tuttavia, nei giorni che precedono il colpo di Stato, il braccio di ferro su questo punto tra Sieyès e Bonaparte resta in sospeso: i conti li regoleranno dopo. Adesso la cosa essenziale è che Napoleone disponga di una forza armata che gli consenta di agire militarmente contro il Parlamento. E la ottiene la mattina del 18 brumaio, convocando a casa sua i principali generali di stanza a Parigi e convincendoli, in ragione del suo prestigio, a collaborare a quella che lui, Bonaparte, presenta come un’importante operazione di polizia interna, necessaria per la sicurezza nazionale. Poco più tardi il Consiglio degli Anziani, ignaro del complotto ma orientato con successo da Sieyès, nomina anche formalmente Bonaparte responsabile delle forze armate di stanza a Parigi. Tutto dunque è pronto per il colpo di Stato.
L’operazione deve svolgersi in due fasi. La prima, il 18 brumaio, consiste nel far spostare tutti i parlamentari, sia della Camera alta che della Camera bassa, in un unico palazzo fuori Parigi, a Saint-Cloud, con il pretesto di un pericolo di insurrezione che potrebbe scoppiare in città. Questa prima fase dell’operazione, compiuta sotto la scorta dell’esercito comandato da Napoleone, avviene senza problemi. La seconda fase, che deve aver luogo il 19 brumaio, prevede che Napoleone, forte della sua autorità, riesca a convincere i parlamentari a sciogliere il Parlamento e a costituire un governo provvisorio incaricato di scrivere una nuova Costituzione. I golpisti sperano che la sola presenza dell’esercito, schierato fuori del Palazzo di Saint-Cloud, basti a intimidire i parlamentari e che Napoleone riesca – grazie al suo prestigio e al suo carisma – a convincerli: in tal modo il colpo di Stato avrebbe una parvenza di legalità che metterebbe i golpisti al riparo da accuse di tradimento o da eventuali rischi di reazioni antigolpiste. Ma qui – come abbiamo visto – le cose non vanno come previsto.
Torniamo dunque sulla scena del 19 brumaio. Napoleone esce stravolto dalla sala dei Cinquecento, dove sono riuniti i deputati che lo hanno aggredito e cacciato. È profondamente turbato. Non sa neanche più quello che dice: si rivolge a Sieyès, che è un abate, dicendogli: «Generale! Vogliono mettermi fuori legge!». Sieyès, che ha intuito cosa sta succedendo, è sbigottito quanto lui. Intanto sopraggiunge anche Luciano Bonaparte, il fratello di Napoleone, non meno sconvolto degli altri, perché ha capito che l’Assemblea dei Cinquecento è intenzionata a votare una condanna formale per Napoleone, decisione che – secondo le procedure dell’epoca – non sarebbe altro che l’anticamera della ghigliottina. I tre uomini si guardano. Sanno che stanno per perdere la partita. Alla fine è Sieyès il primo a riprendere animo, e rivolgendosi a Napoleone gli dice: «Quelli là ci mettono fuori legge! Ebbene, generale, chiamate i vostri soldati e buttate fuori tutti i parlamentari!».
A queste parole è come se Napoleone e Luciano riprendessero vita. Balzano a cavallo e si recano davanti ai soldati della 79a demi-brigade che aspettano fuori dal palazzo di Saint-Cloud. Lì giunti, è Luciano Bonaparte a parlare ai soldati, che lo conoscono come presidente in carica dell’Assemblea dei Cinquecento: «Soldati – dice Luciano –, alcuni parlamentari, al soldo degli inglesi, hanno tirato fuori i coltelli e minacciano l’assemblea. Bisogna schiacciarli! Seguite Napoleone!», e per dar vigore alle sue parole, con uno straordinario coup de théâtre, tira fuori un coltello e puntandolo al petto di suo fratello Napoleone grida: «Giuro che ucciderei mio fratello se mai attentasse alla libertà dei francesi».
Tutta questa scena ottiene un grande effetto. I granatieri, che non hanno motivo di sospettare che Luciano e Napoleone stiano dicendo il falso, al grido di «Viva Bonaparte» entrano nel palazzo, incitati dal generale Murat che urla: «Forza, forza: sbattetemi fuori tutta quella gente!». I soldati, dunque, fanno irruzione. I deputati scappano da ogni passaggio, porte, finestre, qualunque cosa. In pochissimo tempo le sale del palazzo di Saint-Cloud sono vuote. Napoleone e Sieyès sono i padroni del campo. Una giornata che stava per essere il momento di uno scacco fatale per i golpisti si trasforma invece nel giorno del loro trionfo.
Del «loro» trionfo? In realtà, il vero e unico vincitore della giornata è Napoleone. Non che lo sia stato veramente. In quel 19 brumaio del 1799, non fosse stato per Luciano, o per Sieyès, o per Murat, Napoleone Bonaparte avrebbe fatto una ben misera figura. Ma alla fine appare il trionfatore. Del resto è lui il vincitore di tante battaglie. È in suo nome che i soldati hanno ascoltato Luciano o Murat e sono entrati dentro il palazzo di Saint-Cloud per disperdere i parlamentari. E ora è lui che esce da questa rocambolesca giornata come l’uomo forte della situazione. Questa volta, infatti, Napoleone non si smarrisce e capitalizza tutto il prestigio e l’autorità che gli derivano dal colpo di Stato. Fin dalla sera del 19 brumaio, con una mossa retoricamente audace, egli si presenta all’opinione pubblica come il «Salvatore della patria», colui che ha provvidenzialmente abbandonato la «gloriosa conquista» dell’Egitto per ripristinare la legalità in Francia. «Al mio ritorno a Parigi – dice Bonaparte nel proclama diramato la sera del 19 brumaio –, ho trovato il dissenso in tutte le autorità e l’accordo su questo punto, che la Costituzione era a mezzo distrutta e non poteva salvare la libertà. Tutti i partiti sono venuti a me a confidarmi i loro disegni, a svelarmi i loro segreti ed hanno domandato il mio appoggio: ho rifiutato di essere l’uomo d’un partito»; perché? Perché io sono del «grande partito del popolo francese»; e lo sono in quanto capo dell’esercito, la più pura, la migliore espressione del «popolo in armi»; è per questo – aggiunge Bonaparte – che intendo agire attraverso un vero e proprio programma di rinascita nazionale, finalizzato alla creazione di un governo «autenticamente rappresentativo, perché espressione della totalità dei francesi».
In breve, già in questo proclama, Napoleone Bonaparte pone le fondamenta di quell’esperienza politica che poi verrà definita «bonapartismo». Si tratta di un modo di concepire la politica che possiamo descrivere sinteticamente indicandone quattro elementi essenziali: (a) il bonapartismo è una concezione della politica che non abbandona del tutto le premesse «democratiche» fondate dall’esperienza rivoluzionaria; (b) tuttavia le interpreta in forma rigidamente «monistica»: partendo dal presupposto che il popolo/nazione è uno solo, se ne fa derivare che anche la sua «volontà» politica non possa che essere una sola, espressa da un’unica forza politica, o meglio ancora da un uomo solo al comando; (c) in questa prospettiva i partiti – o anche le «fazioni», come pure si dice all’epoca – sono considerati come una specie di «peste della democrazia», e si è convinti che sia stata proprio la loro divisione a precipitare la Repubblica francese nel baratro di una grave crisi politico-militare; (d) ancor prima che attraverso forme di consultazione elettorale – che pure ci sono e sono importanti – è attraverso la compattezza dell’esercito, raccolto sotto la guida dell’unico condottiero, che si esprime quella particolare «democrazia autoritaria» che è il bonapartismo: ed è chiaro che non si tratta solo di una questione simbolica, perché l’esercito è ora, e resterà sempre, il vero «braccio armato» del bonapartismo.
Tradotto in atti concreti, il programma bonapartista di rinascita nazionale prende la forma di una nuova Costituzione che entra in vigore il 25 dicembre 1799. Questa Costituzione stabilisce che il governo sia affidato a tre «consoli», uno dei quali – il «primo console» – ha tuttavia una somma speciale di poteri. Naturalmente, sulla base della nuova Costituzione, Napoleone Bonaparte viene proclamato primo console. Gli altri due consoli (Cambacérès e Lebrun) hanno solo un pallido ruolo consultivo. Sieyès, lo stratega originario, viene politicamente emarginato e non riemerge più come figura di spicco. L’eterno Talleyrand ottiene l’incarico di ministro degli Affari Esteri.
Dopo che la Costituzione è già entrata in vigore viene organizzato un plebiscito di approvazione: sia per questo particolare sia per le modalità di esecuzione (caratterizzate da evidenti irregolarità e dal fatto che il voto è palese), il plebiscito è pilotato verso un risultato obbligato, che tuttavia è meno lusinghiero di quanto Napoleone si sarebbe aspettato. I risultati proclamati il 7 febbraio del 1800 dicono che 3.001.007 hanno approvato la nuova Costituzione; che solo 1.562 l’hanno respinta; e che ci sono stati ben 4.000.000 di elettori che non sono andati a votare. Ma, in definitiva, per Bonaparte tutti questi milioni di «renitenti al voto» sono un semplice dettaglio; quello che importa veramente è che l’esercito è tutto con lui; che chi è andato a votare lo ha fatto come ci si aspettava; e che la nuova Costituzione apre la strada a un futuro che il primo console spera radioso per lui e per la Francia.
3. Parigi, 2 dicembre 1804
Parigi. Chiesa di Notre-Dame. È mattina e tutto è pronto per l’incoronazione di Napoleone a Imperatore dei francesi. Ne è passato del tempo dalla sera del 19 brumaio 1799. Sono cinque anni, e il giovane generale (adesso, ormai, un po’ meno giovane) ne ha fatta di strada. L’Italia è stata completamente riconquistata. Dal 1802 il consolato è diventato ereditario. Negli ordinamenti interni della Francia sono state introdotte importantissime riforme, tra le quali la riorganizzazione degli apparati statali, la stipula del Concordato col pontefice Pio VII (1801) e l’approvazione del Codice civile, un libro organico delle leggi che regolano i rapporti tra le persone, approvato all’inizio del 1804. Intanto le libertà politiche, all’interno della Francia come all’interno degli Stati satelliti che sono stati creati man mano che l’esercito francese ha conquistato nuovi territori, sono state completamente annullate: la stampa è sotto un rigido regime di censura e la polizia veglia attentamente sull’incolumità dell’imperatore, che nonostante tutto è effettivamente minacciato da alcuni attentati che qualche oscuro oppositore riesce a organizzare. Comunque sia, il potere di Napoleone (come ora si fa chiamare, senza più menzione del cognome) è molto solido. Talmente solido che gli sembra sia giunto il momento di dargli la più clamorosa delle sanzioni ufficiali, combinando genialmente tradizione e innovazione. E così, il 18 maggio 1804 viene pubblicato un nuovo testo costituzionale che proclama Napoleone e i suoi discendenti titolari della dignità imperiale. Coerentemente, il massimo del potere si concentra nelle mani del neoimperatore Napoleone I, mentre gli altri organi previsti dalla Costituzione non hanno che funzioni di supporto e di cooperazione. Anche questa modifica viene sottoposta a plebiscito confermativo: i voti favorevoli sono oltre 3.000.000, i contrari 2.569, e di nuovo moltissimi sono coloro che non vanno a votare. Ma questa volta a Napoleone il plebiscito non basta. In forma singolarmente ibrida, l’esercizio della volontà popolare viene affiancato dalla messa in scena di un rito antico, quello dell’incoronazione dell’imperatore, che deve completare il trapasso istituzionale dalla Repubblica all’Impero. Il ricorso al cerimoniale tardomedievale fa parte di una strategia che intende sottolineare il carattere dichiaratamente neomonarchico del potere riconosciuto a Napoleone. Però Napoleone non è un monarca per diritto ereditario. Lui ne è perfettamente consapevole e se ne vanta perfino, tanto che nel 1805 fa scrivere sul «Moniteur», un organo di stampa ufficiale: «Le ricerche genealogiche sulla famiglia Bonaparte sono una fanciullaggine. È facilissimo rispondere alla domanda ‘donde trae origine questa famiglia?’: dal 18 brumaio. Si può essere forse tanto importuni e mancare talmente di rispetto all’imperatore da annettere qualche importanza ai suoi antenati? Soldato, cittadino, sovrano, egli deve tutto alla propria spada e all’amore del popolo». D’accordo, dunque: non è un sovrano per diritto divino. Ma, nel tardo Medioevo, la cerimonia dell’incoronazione era stata elaborata proprio per esprimere quel concetto: ovvero che la sovranità politica è un dono divino che si trasmette per via ereditaria. Con Napoleone le cose palesemente non stanno così. E allora è necessario che nella cerimonia di incoronazione siano introdotte alcune varianti capaci di esprimere, in modo spettacolare, le peculiarità della nuova potestà imperiale. Quali sono?
Torniamo alla mattina del 2 dicembre del 1804. La cattedrale di Notre-Dame è affollata fino all’inverosimile. Militari, prelati, membri della famiglia Bonaparte, notabili e gente del popolo, tutti vogliono assistere al grande evento. Il papa, Pio VII, è stato fatto venire apposta da Roma e si appresta a seguire il protocollo tradizionale, salvo qualche essenziale variante, di cui è già stato informato. L’unica cosa sulla quale ha voluto discutere con Napoleone è stata la regolarizzazione dell’unione matrimoniale tra lui e Joséphine, che nel 1796 si sono sposati solo civilmente. Alla fine Napoleone ha ceduto alle insistenze del pontefice e il giorno prima dell’incoronazione la coppia è stata unita in matrimonio anche col rito religioso. A parte questo altre discussioni non ce ne sono state, e la mattina del 2 dicembre 1804 tutto sembra scorrere secondo la tradizionale ritualità. Napoleone presta il giuramento che i sovrani francesi erano soliti pronunciare durante la consacrazione. Poi lui e sua moglie, inginocchiati davanti al papa, vengono unti con l’olio impiegato per l’ordinazione degli ecclesiastici: è il segno della sacralizzazione del sovrano e un auspicio di fertilità per la sovrana. Fin qui, tutto secondo le regole. Ma è a questo punto che nel rito viene introdotta un’inaudita innovazione. Le corone imperiali non vengono poste dal papa sulle teste della coppia imperiale inginocchiata davanti a lui, come tutti si aspettano avvenga. Al momento giusto è invece Napoleone che si alza in piedi, prende la corona nelle sue mani, si volta verso il pubblico e, dando le spalle al papa, incorona se stesso; dopodiché pone la corona anche sulla testa di sua moglie inginocchiata davanti a lui.
Bonaparte incorona se stesso e la sua consorte dentro una chiesa sotto gli occhi di un annichilito e impotente pontefice, ma secondo un antico rito sacralizzante: è una rappresentazione che in una forma altamente sintetica esprime un modo di intendere la politica che unisce tradizione e innovazione. Napoleone è un sovrano che vuole conservare l’aura sacralizzante che da secoli è propria del potere, minimizzando però il ruolo di mediazione svolto dal vicario di Cristo; da lui riceve ancora la sacra unzione, ma la vera legittimazione, il senso vero della sacralità che gli deriva da quel rito, Napoleone pensa di doverla solo a se stesso e alla forza che gli è stata data da atti molto terreni, come le vittorie militari, i colpi di Stato, i plebisciti: e così interiorizza l’aura sacrale che tradizionalmente appartiene alla figura del sovrano, facendola derivare principalmente da se stesso, come a voler sottolineare che tale aura è una funzione delle sue gesta più che l’effetto della mediazione papale e della benevolenza divina.
Il sistema politico consacrato dall’incoronazione ha tratti fortemente autoritari, sia dal punto di vista politico che dal punto di vista sociale. Da questa prospettiva, uno dei testi normativi più influenti è il Codice civile, che fissa le norme fondamentali che regolano i rapporti fra i cittadini. La commissione di giuristi incaricata di prepararlo ha cominciato a lavorare sin dall’agosto del 1800; quattro anni più tardi, il 21 marzo 1804, il Codice è definitivamente approvato. Due aspetti della normativa che vi è contenuta sono particolarmente rilevanti.
Da un lato, il diritto individuale di proprietà, già indicato dal Proclama del 15 dicembre 1799 come un «sacro diritto», è posto al centro dell’elaborazione normativa del Codice civile (al tema sono riservati ben 1.786 articoli, contro i 515 riservati alla definizione dei diritti delle persone); idealmente è il principio guida che struttura la giurisprudenza della società napoleonica. Qui siamo ormai sideralmente lontani dai tentativi di dare una sostanza effettiva all’ideale di eguaglianza, tragicamente messi in atto durante la Rivoluzione con l’esperienza giacobina.
Dall’altro lato, il matrimonio è riconosciuto come la cellula fondamentale delle relazioni che devono strutturare la società. Come spiegano gli stessi redattori del Codice, «solo le virtù private possono garantire le virtù pubbliche; ed è dalla piccola patria, che è la famiglia, che ci si affaccia alla grande; sono i buoni padri, madri, figli, che fanno i buoni cittadini». Peraltro, la società familiare disegnata dal Codice è alquanto asimmetrica. Il padre è riconosciuto come il capo della famiglia; nei confronti dei figli minori esercita la «patria potestà», che lo autorizza anche a chiedere il loro imprigionamento in caso di comportamento ribelle; il suo consenso è necessario perché un figlio o una figlia possano sposarsi; ed è lui che amministra i beni dei figli minori o della moglie. Lo squilibrio è netto anche fra uomo e donna, o fra marito e moglie, come vuole espressamente Napoleone, il quale sostiene che «il marito deve poter dire a sua moglie: signora, lei mi appartiene corpo e anima; signora, lei non può uscire; signora, non andrete a teatro; signora, non potrete vedere quella o quell’altra persona». Coerentemente, l’art. 213 del Codice stabilisce che «Il marito deve protezione alla moglie, e la moglie deve obbedienza al marito». In concreto, questo principio si traduce nel fatto che una donna non può né sottoscrivere un contratto (di affitto, di vendita, di acquisto) né avviare un’azione legale se non in presenza del marito. Quanto alle controversie tra moglie e marito, il Codice prevede che possano essere risolte con un divorzio, quando esso sia chiesto consensualmente dai due coniugi; ma c’è una differenza notevole nel caso di divorzi richiesti per adulterio: il marito può chiederlo per l’adulterio della moglie, in qualunque forma e luogo sia avvenuto; ma la moglie ha la stessa possibilità solo quando il marito abbia introdotto la sua amante nel domicilio della famiglia. Tali norme restringono ulteriormente l’ambito dei diritti riconosciuti alle donne, e sono da affiancare alla assoluta esclusione delle donne da ogni tipo di attività politica o amministrativa, così come – ça va sans dire – da ogni tipo di attività militare.
4. Austerlitz, 2 dicembre 1805
Il potere di Napoleone origina proprio dalla forza del suo esercito e, un anno esatto dopo la grande cerimonia di incoronazione, Napoleone è di nuovo un generale alla guida dei suoi soldati. Un po’ è il suo modo di intendere la politica che lo porta a calcare di nuovo i campi di battaglia. Un po’ sono le circostanze internazionali che ce lo spingono. Tra l’aprile e l’agosto del 1805, infatti, si è formata la Terza coalizione antifrancese, alla quale partecipano Austria, Russia e Gran Bretagna. Non riuscendo a battere quest’ultima, Napoleone volge le sue forze contro gli austriaci. Il 20 ottobre 1805 l’esercito austriaco è sconfitto a Ulm (nella Germania meridionale). Il 13 novembre i francesi entrano a Vienna. Il 1° dicembre ad Austerlitz (in Moravia, oggi Repubblica Ceca) l’esercito francese, composto da 74.000 uomini, incontra l’estrema resistenza dell’esercito austriaco, in questa occasione coadiuvato da un forte corpo di spedizione russo (85.000 soldati in totale). Al comando delle truppe francesi c’è Napoleone in persona. Dall’altra parte ci sono l’imperatore austriaco – Francesco d’Asburgo – e lo zar di Russia – Alessandro I –. Da qui il nome di «Battaglia dei tre imperatori» con la quale Austerlitz è ricordata.
Anche in occasione della battaglia di Austerlitz, come per ogni altra, Napoleone dirama un proclama ai suoi soldati prima dello scontro. Il dialogo costante con le sue truppe è uno degli elementi essenziali del potere di Napoleone, la sua vera base di consenso; oltre a ciò, i «Bollettini di guerra» e i «Proclami», ristampati e fatti circolare largamente in Francia, servono da straordinari strumenti di propaganda, che amplificano e rilanciano l’enormità delle gesta di Napoleone e dei suoi soldati. Dice Napoleone nel suo «Proclama al grande esercito prima della battaglia di Austerlitz», del 1° dicembre 1805:
SOLDATI. L’esercito russo si presenta innanzi a voi per vendicare l’esercito austriaco di Ulm. Sono gli stessi battaglioni che avete sconfitto ad Hollabrunn e inseguiti costantemente sin qui. Le posizioni da noi occupate sono formidabili; mentre essi marceranno per aggirarmi a destra, si scopriranno di fianco. Soldati. Dirigerò io stesso tutti i battaglioni; mi terrò lontano dal fuoco se, col vostro solito valore, porterete il disordine e la confusione nelle file nemiche: ma se la vittoria fosse un sol momento incerta, vedrete il vostro Imperatore esporsi ai primi colpi, perché in questo giorno si decide dell’onore della fanteria francese che tanto importa all’onore di tutta la nazione. Che col pretesto di ricondurre i feriti non si vuotino le file e ciascuno abbia fitto in mente questo pensiero; esser necessario battere i prezzolati d’Inghilterra, animati da sì grande odio contro di noi. Questa vittoria chiuderà la campagna e noi potremo riprendere i nostri quartieri invernali, dove a noi si congiungeranno i nuovi eserciti che si formano in Francia; allora la pace ch’io farò sarà degna del mio popolo, di voi e di me.
La battaglia viene ingaggiata la mattina del 2 dicembre 1805, alle 7.00. Nel vivo delle operazioni, però, Napoleone non usa la tattica annunciata nel proclama. L’esercito austro-russo attacca effettivamente il fianco destro francese, che resiste; ma quando gli austro-russi sono impegnati nell’offensiva laterale, Napoleone comanda un attacco frontale al centro dello schieramento nemico, che viene sfondato. Gli austro-russi, che si aspettavano un contrattacco sull’ala opposta, sono colti di sorpresa. Il centro del loro schieramento è messo in fuga. E così l’esercito austro-russo viene spezzato in due tronconi, attaccati separatamente dai francesi, rimasti compatti. A quel punto gli austro-russi cominciano a ritirarsi e poi a fuggire disordinatamente. Quando Napoleone vede che a sud la fanteria nemica fugge in direzione del lago palustre che si trova nelle vicinanze, ordina all’artiglieria di sparare sulle lastre di ghiaccio che lo ricoprono, cosicché almeno 200 soldati in ritirata cadono in acqua e muoiono annegati o assiderati (ma David G. Chandler ipotizza che in questo specifico frangente i morti siano stati almeno 2.000). Il resto dello schieramento austro-russo è messo in fuga dall’avanzare rapido della cavalleria francese e dall’incedere sicuro dei reparti di fanteria.
Il giorno dopo la vittoria Napoleone la può celebrare in primo luogo con i suoi soldati, dicendo nel «Proclama della vittoria d’Austerlitz», del 3 dicembre 1805:
SOLDATI. Sono contento di voi. Voi avete nella giornata d’Austerlitz giustificato quanto io attendevo dalla vostra intrepidezza; avete decorato le aquile vostre d’una gloria immortale. Un esercito di centomila uomini, comandato dagl’Imperatori di Russia e d’Austria, è stato in meno di quattro ore o distrutto o disperso. Quelli che sfuggirono al ferro annegarono nei laghi. Quaranta bandiere, gli stendardi della guardia imperiale di Russia, centoventi pezzi di cannone, venti generali, più che trentamila prigionieri, ecco il risultato di una giornata già famosa. Questa fanteria così vantata e superiore di numero non ha potuto resistere al vostro urto, e ormai non avete più rivali temibili. In due mesi la terza coalizione è stata vinta e distrutta. La pace non può essere lontana; ma, come ho promesso al mio popolo prima di passare il Reno, farò solo una pace che ci dia garanzie e assicuri un compenso ai nostri alleati. Soldati. Quando il popolo francese pose sul mio capo la corona imperiale, confidai in voi per mantenerla sempre nello splendore di gloria che solo poteva darle pregio ai miei occhi. Ma nello stesso momento i nostri nemici pensavano a distruggerla e avvilirla! E questa ferrea corona, conquistata col sangue di tanti Francesi, volevano costringermi a porla sulla testa dei nostri più crudeli nemici! Propositi temerari e insensati, che il giorno stesso dell’anniversario dell’incoronazione [2 dicembre 1804-2 dicembre 1805] avete annientati e confusi! Voi avete insegnato che è più facile sfidarci e minacciarci che vincerci. Soldati. Quando ciò che è necessario al benessere e alla prosperità della patria sarà compiuto, vi ricondurrò in Francia; là a voi dedicherò le mie più tenere cure. Il mio popolo vi rivedrà con gioia e basterà dire: Ero alla battaglia di Austerlitz, perché si risponda: Ecco un valoroso!
Forte delle sue capacità di generale e dello strettissimo rapporto che ha saputo costruire con i suoi eserciti, Napoleone, dal 1805 al 1812, arriva a controllare tutta l’Europa continentale. Nel 1812, ad esclusione del Portogallo, della Gran Bretagna, dell’Impero Ottomano e della Russia, tutto il resto d’Europa è sotto il controllo – diretto o indiretto – della Francia imperiale.
Frattanto, nel 1810, Napoleone, con l’aiuto dei suoi diplomatici, è riuscito a mettere a segno un colpo degno della diplomazia matrimoniale delle più grandi case regnanti d’ancien régime: ha ripudiato la moglie Joséphine e ha convinto l’imperatore d’Austria, Francesco I, a concedergli la mano di sua figlia Maria Luisa. Il matrimonio, che viene celebrato il 1° aprile 1810, è il riconoscimento simbolico della forza della Francia imperiale, le cui armate hanno a più riprese travolto il temibile esercito austriaco.
Napoleone adesso sembra l’indiscusso padrone d’Europa. Potrebbe tranquillamente limitarsi ad amministrare il suo vasto potere. Ma il suo è un potere che ha tratti propriamente imperialisti, nel senso che impone ai territori occupati sistemi di controllo che sono politicamente, economicamente e culturalmente oppressivi. La presenza di forze d’occupazione francesi, di funzionari politici e civili francesi, la pressione fiscale e le requisizioni cui l’esercito francese ricorre per mantenersi, oppure l’obbligo di usare la lingua francese per tutti gli atti ufficiali nei territori direttamente annessi alla Francia, come accade in Piemonte, in Liguria, a Parma e Piacenza o in Toscana, suscitano molte sdegnate reazioni che – in qualche caso – prendono il carattere di un’aperta resistenza nazionalista antifrancese, come accade in Spagna, quando sin dal 1808 scoppiano rivolte che continuano fino alla caduta di Napoleone; ma anche in Italia il sentimento antinapoleonico comincia a serpeggiare e le sètte carbonare animate da sentimenti antinapoleonici o antifrancesi cominciano a diffondersi rapidamente.
Quindi Napoleone, se vuole controllare il suo Impero, deve mobilitare costantemente il suo esercito. Ma, a parte questo, il punto è che l’intero sistema napoleonico si basa strutturalmente sui trionfi militari. Il sistema bonapartista è un sistema che si nutre incessantemente di successi militari; ne ha bisogno come principale elemento di legittimazione, poiché, sin dall’inizio, è l’esercito il vero asse portante del potere napoleonico. E alla fine è proprio questa dinamica a tradire Napoleone, quando pretende di realizzare un’aggressione militare alla Russia che si rivela troppo ambiziosa e troppo frettolosamente preparata. La spedizione in Russia, avviata nel 1812, si rivela un tremendo errore; la sconfitta che ne segue è catastrofica. Tanto più catastrofica perché animata da una rivolta nazionalista antifrancese che scoppia nei territori prussiani e tedeschi nel 1813, durante la ritirata della Grande Armée. L’esercito napoleonico ne esce distrutto. I soldati della Grande Armée morti in questa campagna sono 570.000; i soldati russi caduti sono almeno 150.000, una cifra alla quale andrebbero aggiunte anche le morti dei civili russi (ma non ci sono cifre attendibili al riguardo). Il bilancio è comunque impressionante: almeno 820.000 morti, una stima probabilmente inferiore alla realtà delle cose. All’epoca sembra (ed è) una terrificante carneficina.
È un’intera epoca che cambia la sua fisionomia. Napoleone, sconfitto, è esiliato dalle grandi potenze vincitrici all’Isola d’Elba, dove arriva il 4 marzo 1814. Dopodiché, dal 1° novembre 1814 i rappresentanti delle grandi potenze europee si riuniscono a Vienna (la Francia è ammessa, e c’è il solito Talleyrand a guidarne la delegazione, in rappresentanza di Luigi XVIII di Borbone). La carta geopolitica dell’Europa napoleonica comincia a essere completamente ridisegnata. Tuttavia Napoleone è ancora in grado di spaventare sovrani e plenipotenziari riuniti a Vienna. Mentre il Congresso è in corso, un brivido di paura percorre la schiena di tutti loro quando giunge la notizia che il 1° marzo 1815 Napoleone è fuggito dall’Isola d’Elba e si sta dirigendo a Parigi, dove effettivamente arriva il 20 marzo. Una grandissima popolarità lo circonda ancora. Ora, però, Napoleone si è fatto più ragionevole che nel 1812. Fa sapere ai rappresentanti delle grandi potenze, riuniti a Vienna, che gli basterebbe conservare il potere sulla Francia, e che non aspira certo a ricostruire il suo impero, né vuole aggredire militarmente nessuno: intanto, però, sta anche riorganizzando un suo nuovo esercito (che sarà composto da 120.000 uomini). I governi delle altre potenze non si fanno incantare dalle sue dichiarazioni, né si fanno spaventare dal suo nuovo esercito, e subito ricostituiscono una nuova coalizione, composta da Gran Bretagna, Prussia, Russia e Austria, che decide di attaccarlo immediatamente. L’atto conclusivo del Napoleone condottiero va in scena a Waterloo, il 18 giugno 1815, dove le sue truppe sono sconfitte dai soldati di Wellington e di Blücher. Nove giorni prima, il 9 giugno del 1815, in uno slancio di grande ottimismo, i delegati delle grandi potenze hanno firmato l’atto conclusivo del Congresso di Vienna. La loro è stata una scommessa vincente: la battaglia di Waterloo rende quell’atto operativo e la carta geopolitica dell’Europa comincia ad essere ridisegnata per davvero.
Che ne è, infine, di Napoleone? Per un attimo sogna di poter fuggire, magari negli Stati Uniti. Ma poi abbandona il progetto e con grandissima dignità il 15 luglio 1815 si consegna alle truppe inglesi, che lo fanno salire sul Bellerofont, vascello della marina militare britannica ancorato a Rochefort (Charente). Da Rochefort viene trasportato a Plymouth, dove viene trasferito sul Northumberland, che è il vascello che lo conduce alla sua destinazione finale, l’Isola di Sant’Elena, nel bel mezzo del niente, nell’Atlantico meridionale, 2.000 chilometri al largo delle coste dell’Africa. E lì arriva il 15 ottobre 1815.
5. Sant’Elena (Atlantico meridionale), primavera del 1821
Isola di Sant’Elena, da qualche parte nel bel mezzo dell’Atlantico. Napoleone vi è recluso ormai da sei anni. Da tempo non si sente bene. Nell’aprile del 1821 le sue condizioni sono peggiorate. I dolori allo stomaco lo devastano. Quasi non riesce a mangiare più niente. Ce la fa a malapena a scrivere la versione definitiva del suo testamento. Ai primi di maggio le sue condizioni precipitano. Il 4 maggio entra in agonia. Nelle ore seguenti non si riprende più. Alle 17.40 del 5 maggio il sole tramonta su Sant’Elena. Nove minuti più tardi Napoleone cessa di respirare. Quattro giorni dopo, il 9 maggio 1821, Napoleone viene sepolto in un angolo dell’isola.
Per quanto recluso a Sant’Elena, lontano da tutto e da tutti, Napoleone non muore certo dimenticato. La sua fama non ha smesso di crescere, anche dopo la sua caduta. Una parte della cultura europea non ha smesso di odiare il tiranno. Ma un’altra parte sembra incantata di fronte alla figura del grande uomo che guida le folle, com’è incantata anche dall’alone di tragedia romantica che circonda la sua fine. È tipico della cultura romantica celebrare gli eroi sfortunati, più che quelli trionfanti, e il 5 maggio di Manzoni è lì a ricordarcelo. Negli anni seguenti un fiume di pubblicazioni – a favore o contro Napoleone – continua a tener viva la sua memoria, che nel maggio del 1840 riceve una grande e trionfale consacrazione ufficiale, proprio nel cuore della città che ha assistito ai suoi più grandi trionfi.
Il 12 maggio 1840 il governo della monarchia liberale francese, la monarchia nata dalla rivoluzione del 1830, la monarchia di Luigi Filippo, comunica al Parlamento la decisione di trasferire il corpo di Napoleone da Sant’Elena a Parigi. Il ministro dell’Interno, Rémusat, spiega in questo modo le ragioni della decisione: «Signori, Napoleone fu imperatore e re; fu sovrano legittimo del nostro paese. [Per questo lo rivogliamo sul nostro suolo]. Ma a Napoleone non si addice l’ordinaria sepoltura dei re. Bisogna che egli regni e comandi ancora là dove vanno a riposarsi i soldati della patria e dove andranno sempre a ispirarsi quelli che saranno chiamati a difenderla. La sua spada sarà deposta sulla sua tomba». Il luogo scelto per la sepoltura, a cui allude Rémusat, è l’Hôtel des Invalides, un complesso che svolge la funzione di ospizio e ospedale militare.
Ottenuto l’assenso dalle autorità britanniche, l’8 ottobre del 1840 la delegazione francese arriva a Sant’Elena. Il 15 ottobre viene effettuata l’esumazione del cadavere dell’ex imperatore. Il 18 ottobre il vascello che lo riporta in patria parte dall’isola. Il 30 novembre arriva a Cherbourg. Nei giorni seguenti viene organizzato il trasferimento a Parigi. Finalmente, il 15 dicembre del 1840 a Parigi si svolge la fastosa cerimonia della traslazione delle spoglie di Napoleone. Un imponente carro funebre attraversa tutta la città per arrivare all’Hôtel des Invalides. Lì viene deposta la salma. Successivamente la bara che la contiene viene trasferita nella Cappella di Saint-Jérôme, in attesa della costruzione della tomba vera e propria, posta in una cripta ricavata nel pavimento della cattedrale di Saint-Louis des Invalides. La tomba, tutt’oggi visibile, viene costruita negli anni seguenti, ed è inaugurata il 2 aprile 1861, quando sulla Francia domina un altro imperatore, Napoleone III.
Da allora il monumento parigino diviene costante meta di pellegrinaggio di fedeli bonapartisti o semplicemente di visitatori intimoriti e affascinati dall’aura di gloria che circonda il personaggio. È un monumento che vuole celebrare il fascino del grande condottiero, dell’uomo solo al comando, dell’uomo magneticamente carismatico.
Sin dalla fine del XVIII secolo si sono imposte nuove teorie politiche, che affermano che la sovranità politica è possesso esclusivo del popolo o della nazione: come recita la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 1789, «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani espressamente». Per tutto il XIX secolo il prestigio acquistato dalle istituzioni parlamentari britanniche non ha fatto che crescere: dovunque in Europa esse sono considerate il sistema istituzionale meglio in grado di preservare le libertà politiche. Eppure, nonostante tutto questo, il mito del grande dittatore, del condottiero capace di guidare masse di uomini al macello e alla gloria, non smette di brillare; e, ciò che è di più, è un mito che assume paradossali valenze «democratiche».
Il dittatore bonapartista non è più il sovrano di antico regime. È un uomo uscito dall’oscurità del popolo, capace di farsi da sé, di imporsi per le sue doti magnetiche e carismatiche. È anche un «vero uomo», dominatore di donne, che lui usa e sostanzialmente disprezza. È un leader che trova nell’esercizio della violenza bellica la massima espressione della sua mascolinità. Soprattutto, è un capo che vuole incessantemente ostentare il consenso popolare che sostiene la sua autorità: non importa se quel consenso è – in misura maggiore o minore – estorto con la repressione del dissenso o con la costante esibizione della forza militare: questo consenso è ciò che fa della dittatura bonapartista una sorta di dittatura «voluta» o «benedetta» dal popolo, e quindi ne fa qualcosa che potrebbe essere definito una «dittatura democratica».
Ecco, questi sono i tratti di una figura e di un sistema politico che nascono con Napoleone, e che dopo la sua morte non smettono di esercitare il loro potere di fascinazione. In definitiva, la vera importanza storica di Napoleone consiste proprio nel fatto che con lui nasce la figura del dittatore contemporaneo, un «dittatore democratico» che, se non è propriamente «voluto» dal popolo, pretende sempre di parlare e di agire «in nome del popolo»: e, com’è piuttosto evidente, si tratta di una figura politica che sotto varie e diverse incarnazioni non ha mai smesso di abitare i sogni e gli incubi dell’Occidente e dell’America Latina, dai primi dell’Ottocento fino ai giorni nostri.