Hitler e il nazismo

di Vittorio Vidotto

Berlino agli inizi degli anni Trenta era una grande città moderna di straordinaria vivacità culturale, politica ed economica. Brillava nelle arti tradizionali e in quelle di avanguardia, cinema, letteratura, pittura, poesia, teatro. Celebrata nel suo modernismo con il ritmo delle immagini nel film Berlin, die Symphonie der Großstadt (Berlino, sinfonia di una grande città, 1927) di Walther Ruttmann e nel suo dinamismo sociale in Menschen am Sonntag (Gente di domenica, 1929) di Robert Siodmak e Billy Wilder (due cineasti destinati a grande fortuna a Hollywood), Berlino con le sue numerose ferrovie metropolitane sotto e sopra il livello stradale, il traffico intenso e la grande animazione appariva come la più americana delle città europee. Una forte componente di ebrei largamente assimilati primeggiava nelle arti, nelle professioni e nelle attività imprenditoriali. Con quasi quattro milioni e mezzo di abitanti racchiudeva tutte le tensioni e le conflittualità di oltre un decennio di esasperata violenza politica. La presa del potere nazista avrebbe spento le avanguardie, annientato le opposizioni, ma non avrebbe rallentato la modernizzazione della città culminata nel grande successo organizzativo delle Olimpiadi del 1936. Nove anni dopo Berlino era un ammasso di rovine, occupata da eserciti stranieri, con una popolazione ridotta e stremata, vittima di ogni possibile violenza e rappresaglia (fig. 1).

Fig. 1. Le rovine di Berlino alla fine della seconda guerra mondiale.

Non solo Berlino ma anche Amburgo, Colonia, Essen, Lipsia, Dresda, città antiche e recenti insediamenti industriali, erano stati largamente distrutti. La Germania aveva perso su tutti i fronti 3.250.000 soldati, ma più alto, 3.600.000, era il numero dei civili caduti. Mentre le vittime sovietiche della guerra tedesca assommavano a 10.000.000 di caduti in azione, a cui dovevano aggiungersi i 3.300.000 morti in prigionia e nei lavori forzati nei territori controllati dai tedeschi e i 7.000.000 di civili. In questa ecatombe vanno contati anche 6.000.000 di polacchi e infine 6.000.000 di ebrei di ogni parte di Europa1.

Il vento della distruzione, partito dalla Germania, aveva attraversato tutta l’Europa e coinvolto parte del Pacifico e dell’Asia orientale. Come era potuto accadere?

Nella visione semplicistica della dinamica di quegli anni la Germania e Adolf Hitler, il dittatore tedesco al potere dal gennaio 1933, portano per intero la responsabilità dello scatenamento della seconda guerra mondiale.

La questione della responsabilità unica o prevalente non è il terreno su cui preferiscono misurarsi gli storici, inclini invece alla ricerca di spiegazioni più articolate, legate alla varietà e complessità delle forze interagenti sulla scena del mondo. Tuttavia di fronte a eventi così drammatici e distruttivi il fascino di una interpretazione semplice e forte rimane intatto per l’opinione diffusa, rafforzato dall’esito dei processi istituiti dai vincitori dopo la guerra.

Semmai un nodo interpretativo che non ha perso la sua forza è quello relativo alla particolarità della storia tedesca nel suo insieme, caratterizzata secondo l’opinione di molti, pubblicisti più che storici, da fattori permanenti e antichissimi che giustificherebbero gli esiti finali del nazismo. Così il problema delle responsabilità potrebbe essere riformulato secondo l’interrogativo: fu la colpa di un uomo solo, affiancato da un’élite politica e partitica, o quella invece di un intero popolo?

A questo riguardo è illuminante un breve testo, tratto dalla voce dedicata a Hitler nella seconda appendice dell’Enciclopedia Italiana (Treccani) del 1948, scritta quindi a poca distanza dagli avvenimenti.

I giudizî sul fenomeno H. si imperniano su due posizioni estreme e antitetiche: chi vede in esso il satanico spirito del male, piombato a turbare il corso della storia tedesca e a corromperne l’anima, imponendosi con la violenza di una «gang» catilinaria; chi vede in esso l’espressione, portata a gradi parossistici, di tendenze che sarebbero immanenti all’animo tedesco e alla sua storia. La prima interpretazione vuole scagionare la nazione tedesca da ogni colpa, vittima essa per prima della tirannide nazista; la seconda coinvolge in una stessa responsabilità H., nazismo, nazione tedesca. Ma se è vero che H. fu una forza elementare, ossessiva nel caparbio martellare su alcuni pochi concetti non originali razzolati nel ciarpame della sua scarsa e dozzinale cultura, figura di «meneur» di folle quale può sorgere presso ogni popolo, non è men vero che il modo e la misura in cui quella forza si impose, fu accettata, si svolse ed operò, rispondevano ad atteggiamenti tipici dello spirito tedesco, quale si era venuto formando storicamente, anche nelle sue doti migliori: il senso del dovere, lo spirito di obbedienza e di sacrificio, la volontà di riscatto dalle umiliazioni di Versailles, doti che H. e il nazismo piegarono ai lor fini, esasperarono, pervertirono fino all’epilogo nibelungico di Berlino2.

Le due posizioni enunciate in questo testo tendono in genere a sovrapporsi collocandosi saldamente nelle opinioni diffuse sulla Germania e sui tedeschi. Tuttavia oggi sono ormai diversi gli strumenti di analisi che gli storici mettono in campo per analizzare l’ascesa del nazismo, la conquista del potere, il consenso e la repressione, la guerra, lo sterminio, la sconfitta. Credo quindi sia opportuno abbandonare il terreno degli stereotipi, e provare a ragionare sui fondamenti del potere e le dinamiche del consenso in un’epoca segnata dal protagonismo delle masse e dalla utilizzazione consapevole ed efficiente dei mezzi di comunicazione. Senza la radio, e prima ancora senza il microfono per l’amplificazione della voce, e senza il cinema, non è neppure pensabile l’ascesa e il successo politico di Hitler.

Ma prima ancora è nella guerra mondiale e nel suo esito che va individuato l’evento periodizzante per l’Europa, per la Germania e per la stessa biografia di Hitler.

Hitler era nato nel 1889 da una famiglia della piccola borghesia provinciale austriaca, da poco uscita dal mondo contadino. Dopo la scuola dell’obbligo si trasferì a Vienna, nella speranza di iniziarvi una carriera artistica di pittore o architetto, ma non fu ammesso all’Accademia delle Belle Arti. Era un autodidatta e assorbì, nell’atmosfera viennese, quell’antisemitismo radicale che era così diffuso nella capitale dell’Impero e che sarebbe rimasto l’elemento dominante e ossessivo della sua ideologia. Era un irregolare, uno spostato, un originale, ostile a ogni forma di disciplina, tant’è vero che, quando fu il momento di rispondere alla leva militare, si trasferì nella vicina Germania, a Monaco di Baviera. Fuggì dunque da un obbligo di disciplina, ma qui, travolto dagli entusiasmi per lo scoppio della guerra, si arruolò volontario in un reggimento della fanteria bavarese. Combatté come portaordini sul fronte occidentale, fu ferito due volte – una volta alla gamba e una volta agli occhi – e ottenne due decorazioni, la Croce di Guerra di II classe e quella di I classe, decorazioni diffuse, certamente, ma non tanto a livello dei sottufficiali di truppa, com’era il caporale Adolf Hitler.

A guerra finita Hitler rimane a Monaco, nell’esercito, con compiti di informatore e di sorveglianza delle nuove forze politiche che si stavano formando nella convulsa situazione tedesca di quegli anni. Per i gruppi sciovinisti e nazionalisti di quel periodo, ma in generale per gran parte dell’opinione pubblica tedesca, valeva la leggenda del Dolchstoss, il colpo di pugnale alla schiena inferto alla Germania dalle forze rivoluzionarie di sinistra, socialisti e comunisti: una nazione sconfitta dunque non sul campo, ma dal nemico interno e poi mutilata nei suoi territori e umiliata dal Trattato di Versailles che aveva imposto alla Germania di riconoscere la propria responsabilità e quella dei suoi alleati per aver causato tutte le perdite e i danni della Grande Guerra.

Agli inizi del 1920, Hitler aderisce alla Deutsche Arbeiterpartei (Dap) un partito che si trasforma poco dopo nel Partito Nazionalsocialista, Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei (Nsdap), iniziando quindi non più giovanissimo – doveva compiere 31 anni – la sua attività politica. A questo punto però era già avvenuta la svolta della sua vita: il 12 settembre del 1919 Hitler partecipa in una birreria a un incontro della Dap, interviene nel dibattito e scopre, con sua stessa grande sorpresa, la sua capacità di parlare, di travolgere ed entusiasmare il pubblico. Hitler è dunque un agitatore, un organizzatore di spedizioni punitive, ed è tra i capi del putsch, cioè del colpo di Stato, che si tentò a Monaco nel novembre 1923, nell’illusione di ripetere quello che poco tempo prima era stato fatto in Italia con la Marcia su Roma. Il putsch dell’8-9 novembre, organizzato dai nazisti, fu represso dalla forza pubblica, e 16 furono i caduti di quella giornata. Se guardiamo alla professione delle vittime possiamo in parte capire qual era la composizione di quel partito: quattro commercianti, un ingegnere, uno studente, vari artigiani. Quattordici caddero durante la marcia verso la Feldherrnhalle, un edificio simile alla Loggia dei Lanzi, che è proprio nel centro della città bavarese. E qui, in questa occasione, per la prima volta si manifesta quella fortuna sfacciata, che accompagnò Hitler per tutta la vita. Camminava, Hitler, anzi marciava in prima fila tenendo al braccio il compagno di lotte e suo amico personale, Max Erwin von Scheubner-Richter. Quest’ultimo fu colpito e stramazzò al suolo trascinando con sé Hitler che si slogò un braccio. Se quel proiettile della polizia bavarese avesse deviato solo di pochi centimetri la storia della Germania e del mondo sarebbe stata diversa3.

Dopo il putsch, Hitler fu arrestato, processato e condannato. Trascorse alcuni mesi in prigione dove cominciò a scrivere il Mein Kampf – la mia lotta – che è insieme la sua biografia politica e il suo programma politico4.

Dunque un oratore, un rivoluzionario della parola. Hitler – ha scritto lo storico tedesco Hagen Schulze – riusciva a «stregare la gente, gli elettori, togliendo dall’inconscia, irrazionale profondità della coscienza collettiva i loro desideri, le loro paure e i loro pregiudizi, portandoli alla luce e rivestendoli delle parole giuste»5.

Ma i talenti di Hitler erano anche altri: una fiducia sconfinata in se stesso, un dogmatismo senza incertezze, una memoria straordinaria e una straordinaria capacità di volgarizzazione e di semplificazione. E un fascino personale legato al suo aspetto, allo sguardo magnetico dei grandi occhi azzurri. Come scrisse Goebbels nei suoi diari, ricordando il suo primo incontro con Hitler del novembre 1925: «Eccolo di fronte a noi, ci stringiamo la mano come vecchi amici, e quegli occhi, quei grandi occhi azzurri, come stelle» (fig. 2).

Fig. 2. Adolf Hitler nel 1925. Fotografia di Heinrich Hoffmann da Hitler wie ihn keiner kennt: 100 Bild-Dokumente aus dem Leben des Führers, 1932.

L’attenzione all’immagine è un segno della modernità del potere fondato anche sulla comunicazione visiva. Fin dai primissimi tempi un ruolo di grande importanza ha Heinrich Hoffmann, fotografo personale e curatore dell’immagine di Hitler, non solo nelle fotografie, ma nei francobolli, nei libri, negli innumerevoli strumenti della propaganda visiva. In un primo tempo si afferma l’icona di Hitler oratore rivoluzionario e trascinatore delle folle (fig. 3) cui si sovrappone in seguito quella dell’uomo di Stato, capo politico e militare insieme. In un contesto comunicativo che vede sempre ostentato il rapporto del capo con le masse, ordinate e adoranti, prima di militanti poi di cittadini.

Fig. 3. Hitler al termine di un comizio, 1930. Fotografia di Heinrich Hoffmann da Hitler wie ihn keiner kennt, cit.

L’importanza dei mezzi di comunicazione non può far trascurare evidentemente i fondamenti ideologici del nazismo. Al primo posto metterei il social-darwinismo, una teoria fondata sulla supremazia dei popoli superiori, delle razze superiori su quelle inferiori; poi la comunità di popolo, la Volks­gemeinschaft, concetto diverso da quello della nazione borghese, liberale, aperta ai diritti degli altri popoli: un concetto che forse si definisce meglio in negativo, ricordando che gli ebrei e gli avversari politici ne erano drasticamente esclusi; e poi l’antisemitismo e ancora lo spazio vitale, il Lebensraum, per garantire con l’ampliamento territoriale verso est lo sviluppo demografico, economico e sociale della comunità di popolo; e infine il Führerprinzip, il principio del Führer, caratteristico di un sistema piramidale che fa discendere dal suo vertice il comando unico e supremo del movimento e del partito: un modello gerarchico che si diffonderà dal partito a tutta la struttura dello Stato.

Per riassumere: la storia come lotta di razze, un antisemitismo radicale e una prospettiva politica per la Germania legata strettamente alla conquista dello spazio vitale. I tre elementi convergevano nella lotta al marxismo internazionalista e al bolscevismo giudaico (la connotazione razziale e antisemita del comunismo di matrice e ispirazione russa/orientale), mentre l’antisemitismo rimaneva un elemento costante di coagulazione e di aggregazione. Nazione e razza sono strettamente intrecciate. Nel programma nazista di politica estera prima bisognava liberarsi dalle catene del Trattato di Versailles, poi iniziare l’espansione a est, dopo essersi garantiti alle spalle o un’alleanza politica o una vittoria militare sul fronte occidentale.

Il nome del partito, Partito nazionalsocialista degli operai tedeschi, non è senza significato e giustifica l’attenzione alla classe operaia e la diffidenza nei confronti della borghesia.

Il 30 novembre 1928, durante un comizio, un cittadino chiese a Hitler perché avesse appena detto di avere una grandissima fede nei lavoratori tedeschi, ottenendo la risposta seguente: «[...] perché non mi dicono niente né la raffinatezza né i toni aristocratici. Quando oggi un proletario mi esprime brutalmente la sua opinione, ho la speranza che un giorno questa brutalità possa essere rivolta verso l’esterno. Quando invece un borghese mi cinguetta in modo ultraraffinato la sua opinione, mi accorgo che qui c’è puzza di debolezza e di viltà. Quando un borghese si culla nei suoi sogni meravigliosi e parla soltanto di cultura e civiltà e della realizzazione estetica del mondo, mi sento in dovere di rispondergli: ‘Tu sei perso, per tutta la nazione tedesca, sei adatto per la parte occidentale di Berlino, va lì, in quel lerciume, e crepaci! Balla la tua danza da negro fino alla fine’»6.

Dunque il partito nazista è un partito di popolo, un partito radicato nel popolo e insieme un partito milizia, come il fascismo italiano, un movimento di giovani, un fenomeno dai caratteri quasi religiosi, che fa leva sulla crisi morale ed economica del paese7. Raccoglie voti da tutti i ceti, soprattutto dai piccoli borghesi, ma anche dagli artigiani e dagli operai, tra i cattolici ma in particolare tra i protestanti. Nella fase iniziale, e praticamente fino al 1933, le sue risorse economiche derivano largamente dall’autofinanziamento e dai piccoli produttori. Solo in seguito si stabilirà un legame strettissimo con la grande industria.

La Nsdap mira a riunificare gradualmente tutto il popolo tedesco, e cioè tutti i ceti sociali e professionali, e non, come gli altri, a fare agitazione soltanto tra singoli gruppi della popolazione8.

E ancora, un manifesto elettorale del 1930 chiarisce, con maggiore nitidezza forse, quale fosse il suo programma.

Il movimento nazionalsocialista supererà con la sua vittoria il vecchio spirito di classe e di casta. Dal pregiudizio sociale e dalla demenza classista esso farà sorgere un nuovo popolo, esso porterà questo popolo ad una ferrea determinazione, esso supererà la democrazia e ripristinerà nei suoi diritti il prestigio della personalità9.

Si noti come in queste due ultime espressioni, «supererà la democrazia» e «ripristinerà il principio e il prestigio della personalità», sia definito il nucleo dell’azione politica. Hitler, quando andrà al potere, nel giro di pochi mesi spazzerà via ogni forma di democrazia, fondando la sua forza e il prestigio del suo movimento sul rilancio della personalità, sull’affermazione del principio del Führer. E infatti, già fra il ’25 e il ’28 si forma il partito carismatico dittatoriale e per tutti i militanti diviene obbligatorio il saluto Heil Hitler!, salute a Hitler.

Una componente fondamentale del partito era la milizia delle Sturmabteilungen (SA, gruppi di assalto), e la milizia – non c’è dubbio – accresceva il senso di appartenenza, mentre le manifestazioni, i simboli, le divise, le bandiere, i canti e le sfilate conferivano un marchio fortissimo di identificazione consolidando emozionalmente l’identità e la forza del partito.

Alcuni protagonisti della «nuova politica», quella fondata su un forte coinvolgimento irrazionale ed emotivo di gruppo, avevano già sottolineato il ruolo dei simboli. Theodor Herzl, il fondatore del movimento sionista, era consapevole, a fine ’800 del potere trascinante dei simboli:

Sapete da cosa è scaturito l’impero di Germania? Da sogni, da inni, da fantasie, da coccarde bianche, rosse e gialle... Con una bandiera, è possibile mettersi alla testa degli uomini e condurli ovunque si voglia, persino nella Terra Promessa [...] una bandiera è la sola cosa per la quale gli uomini sono pronti a morire in massa, se qualcuno li trascina a farlo10.

A molti anni di distanza, con l’abituale ironia e incisività, il grande storico Eric J. Hobsbawm ricorderà la sua partecipazione a una manifestazione comunista a Berlino del 1933, quando aveva tra i 15 e i 16 anni:

Dopo il sesso, l’attività che permette di combinare al massimo grado esperienze corporee con intense emozioni è la partecipazione a una manifestazione di massa in tempi di grande esaltazione pubblica. Ma al contrario del sesso, che è essenzialmente individuale, una manifestazione di massa è un’esperienza per sua natura collettiva e al contrario dell’orgasmo – almeno per gli uomini – la si può prolungare per ore. D’altro canto, al pari del sesso, implica un’azione fisica – marciare, urlare slogan, cantare – attraverso la quale si esprime la fusione dell’individuo nella massa e questa è l’essenza dell’esperienza collettiva11.

Amburgo e soprattutto Berlino sono luoghi di una conflittualità politica permanente, di scontri tra le milizie naziste e le milizie comuniste, di continui conflitti di piazza. Secondo il ministro degli Interni prussiano nel 1929 non c’è giorno in cui non si spari o non si accoltelli o non si bastoni un avversario politico. Ma Berlino nel 1929 era anche il simbolo della modernità urbana, di stili di vita più disinvolti, stili di vita che sopravvivranno nel nazismo e al di là del nazismo.

Conflittualità e modernità non sono dimensioni necessariamente in contraddizione, si affiancano anzi nello stesso tempo e nello stesso luogo rendendo il discorso storico nella sua inevitabile linearità insufficiente e inadeguato a restituire la complessità delle situazioni concrete, dei destini incrociati, dell’imprevedibilità degli esiti finali. Concentrati come sono sullo scontro delle personalità, sul conflitto delle ideologie, sui documenti scritti, gli storici avvertono per contrasto la forza esplicativa ed evocativa delle immagini, la puntualità di una sequenza cinematografica e la forza originale della scrittura letteraria, soprattutto quando descrive con tecnica innovativa il lascito della memorialistica e degli archivi. In Hammerstein o dell’ostinazione, il recente libro di Hans Magnus Enzens­berger12, le vicende del generale Hammerstein, capo di stato maggiore dell’esercito, dimessosi nel gennaio 1934, e delle sue figlie impegnate nella lotta clandestina comunista si spostano dal tempo breve dell’ascesa e del consolidamento del nazismo al tempo lungo della memoria in un intreccio consentito dall’ottica variabile della letteratura sospinta da un forte impegno civile al disvelamento della complessità.

A partire dal 1928, e soprattutto dal 1930, in coincidenza con i drammatici effetti della crisi economica mondiale e della fortissima disoccupazione, prende l’avvio l’ascesa elettorale del partito nazista. I nazisti sembrano interpretare meglio di altri i bisogni del paese: hanno la capacità di convogliare sentimenti, disagi, aspirazioni e interessi diffusi, offrendo la certezza di un cambiamento rivoluzionario radicato nel passato e nei miti aggreganti della terra e del sangue, un cambiamento votato alla rinascita del popolo tedesco temprato nella lotta contro gli oppressori, reali o immaginari, comunisti, bolscevichi, socialisti, ebrei. La Nsdap si era già presentata alle elezioni nel 1924, associata ad altre forze politiche nazionaliste e scioviniste, ma aveva ottenuto solo il 3%. Nel 1928 i nazisti si presentano da soli, ottenendo il 2,6% e 12 deputati. Ma nel 1930 salgono al 18,3% con 107 rappresentanti. Nel 1932, il 31 luglio, raggiungono il 37,4% e 230 seggi. Nel novembre dello stesso anno perdono voti e seggi, ma rimangono, col 33%, di gran lunga il primo partito tedesco. Un’ascesa folgorante, segno di una radicalizzazione della lotta politica alla quale corrispondeva in maniera simmetrica, ma con peso molto inferiore, il rafforzamento della Kpd: i comunisti infatti raddoppiano i seggi dal 1928 al 1932, mentre si indeboliscono i socialdemocratici della Spd, principale partito tedesco fino al 1930.

I nazisti hanno un leader popolare che esercita un potere carismatico sui suoi numerosi seguaci organizzati in una potente milizia politica. Un capo moderno, un duce, un Führer che incarna una missione utopistica e rivoluzionaria, che sfrutta al meglio i nuovi strumenti della propaganda, un oratore trascinante e aggressivo che si sposta in aereo da un comizio all’altro.

Non troppo paradossalmente, all’ascesa nazista corrispondeva il progressivo declino della Repubblica di Weimar. L’impossibilità di mantenere, perché numericamente priva dei consensi necessari, una stabile alleanza tra le forze della borghesia conservatrice nazional-popolare e quelle socialdemocratiche e cattoliche rendeva sempre più incerto il destino della repubblica, indebolita anche dal conflitto suicida fra comunisti e socialdemocratici. Già nel 1925, nelle elezioni a suffragio universale del presidente della Repubblica, il candidato della destra, il feldmaresciallo Paul Hindenburg, aveva sconfitto di misura il candidato della Spd, Wilhelm Marx, con il contributo indiretto dei voti comunisti confluiti dimostrativamente sul proprio candidato Thälmann. Dal 1930 si susseguono governi «presidenziali», garantiti dall’appoggio di Hindenburg, che si avvale sempre di più dei poteri straordinari attribuitigli dall’articolo 48 della costituzione, ma l’opzione autoritaria che tenta di coagularsi intorno alla sua persona rende inevitabile la collaborazione con i nazisti. Hitler, che nel 1930 aveva conteso la presidenza a Hindenburg, non si accontenta di entrare nel governo, come gli veniva a più riprese proposto, vuole di più e ottiene di più.

Il 30 gennaio del 1933 Hindenburg nomina Hitler cancelliere, cioè presidente del consiglio dei Ministri del Reich. Si conclude quindi con una soluzione tutta politica la presa del potere del nazismo: con solo due ministri del proprio partito nel governo di coalizione appena costituito e con la complice acquiescenza delle forze nazional-conservatrici, nel breve giro di pochi mesi verrà instaurato un regime totalitario.

Le tappe di questo processo sono molto serrate. Nella notte fra il 27 e il 28 febbraio va a fuoco il Reichstag, il Parlamento, ad opera di un comunista olandese. Hindenburg proclama la mattina dopo lo stato di emergenza e sospende i diritti fondamentali, civili e politici. Da quel momento la posta e tutte le comunicazioni sono controllate, viene messa al bando la Kpd, il partito comunista, e tutta la stampa socialdemocratica.

Nelle nuove elezioni di marzo, alla vigilia delle quali si ebbero ben 69 morti tra cui 18 nazisti, la Nsdap e la sua coalizione si afferma come dominante. Sono le ultime elezioni parzialmente libere della Germania repubblicana. Ad esse seguirà l’abolizione del sistema parlamentare. E infatti due giorni dopo la convocazione del Parlamento, il 23 marzo, il Parlamento stesso approva la legge che concede pieni poteri al governo, attribuendogli l’intero potere legislativo. Da allora hanno inizio la censura sulle espressioni culturali, ha inizio la discriminazione antisemita. A giugno il partito socialdemocratico si autoscioglierà, seguito di lì a poco dal partito cattolico di centro (Zentrum). Vittime di un analogo attacco sono i sindacati di sinistra, costretti a sciogliersi e sostituiti da organizzazioni naziste del lavoro, come l’Arbeit Front (Fronte del lavoro). Contemporaneamente, con abile mossa propagandistica, già nell’aprile 1933 viene scelto il 1° maggio come festa nazionale del lavoro nazista.

Repressione e consenso vanno di pari passo in questi mesi. La Germania, almeno nella sua grande maggioranza, vuole ordine, vuole vedere la fine della guerra civile, e a tutto pensa meno che alla difesa della democrazia, da tempo osteggiata e mai veramente amata dalla maggioranza dei tedeschi. Un ruolo sempre maggiore assume la propaganda politica, e infatti dal marzo del ’33 si costituisce il nuovo ministero della Propaganda, in tedesco Ministerium für Volksaufklärung und Propaganda, affidato a Joseph Goebbels. Volksaufklärung, illuminazione del popolo. Aufklärung: il termine usato per definire l’Illuminismo è piegato alla pedagogia politica del ministro della Propaganda, ed è Goebbels stesso a organizzare una delle scenografie più tragiche e più drammatiche del nuovo potere: il rogo dei libri degli autori ebrei – da Marx a Freud –, degli scrittori scomodi e pacifisti e anche di un classico come Heinrich Heine, l’ebreo tedesco di metà Ottocento. A Berlino i libri vengono bruciati nella Opernplatz (oggi Bebelplatz) praticamente di fronte all’Università, la Humboldt-Universität, lungo l’Unter den Linden, ma sono 22 le città universitarie tedesche in cui la stessa scena si ripete quel giorno, il 10 maggio 1933 (fig. 4).

Fig. 4. Berlino 10 maggio 1933: rogo dei libri di autori ebrei, pacifisti e antinazisti.

Proprio Heine aveva lanciato una frase profetica: «Dort, wo man Bücher verbrennt, verbrennt man am Ende auch Menschen, là dove si bruciano i libri si bruceranno un giorno anche gli uomini».

Ma torniamo alle elezioni di marzo. Il voto nazista aumentò soprattutto grazie ai nuovi elettori che si accostarono alle urne, tuttavia se guardiamo la distribuzione del voto notiamo come il nazismo non sia ancora maggioranza e non abbia un’equilibrata rappresentanza del paese. I nazisti sono forza maggioritaria, largamente maggioritaria nelle zone urbane, ma soprattutto rurali, della Germania settentrionale e orientale, in Ostpreußen, la Prussia Orientale, in Pomerania, nel Meklemburgo, a Francoforte sull’Oder: qui superano largamente il 50%. Nelle zone invece della Germania occidentale, lungo il Reno, ma anche nella stessa Baviera, culla del movimento, le percentuali superano di poco il 30%, arrivano al 38-39% ad Amburgo e a Berlino si fermano poco sopra il 31%. La zona che ottiene il miglior risultato per le forze democratiche è la circoscrizione di Colonia-Aquisgrana, dove i nazisti superano di poco il 30%13.

Intanto sono allestiti i luoghi di reclusione di massa, «campi di concentramento» spontanei, caserme, cantine, dove le SA, la milizia del partito, raccolgono e imprigionano gli avversari politici. Ma già il 20 marzo del ’33 Heinrich Himmler, il capo delle SS, l’altra milizia del partito nata come guardia del corpo di Hitler e con compiti più tecnici e di polizia delle SA, dichiara l’apertura del campo di concentramento di Dachau. E i campi di concentramento si riempiono di decine di migliaia di oppositori politici, soprattutto comunisti.

Un ulteriore significativo segnale del nuovo regime è che dal luglio 1933 il saluto Heil Hitler! diventa obbligatorio per tutti i funzionari pubblici e in tutte le scuole, poi si diffonderà quasi obbligatoriamente in tutto il paese, mostrando chiaramente le differenze fra chi lo eseguiva e chi vi si sottraeva14.

In quello stesso 1933 Hitler coinvolge il paese in un plebiscito, per confermare l’uscita della Germania dalla Società delle Nazioni, la prima rottura del sistema di Versailles, e accompagna questo plebiscito con elezioni-burla, con una sola scheda prestampata dove compare il nome di un solo partito, quello nazionalsocialista, la Hitlerbewegung (il movimento di Hitler), con il nome di Hitler e quello dei maggiori gerarchi nazisti. In Germania, lo sappiamo, c’è ormai un largo consenso e un rifiuto sostanziale della democrazia, una domanda di ordine a cui i nazisti sembrano rispondere con grande efficienza.

Ma fra il 1933 e il 1934 rimane aperta una partita all’interno del nazismo: sono in discussione i rapporti con le SA, tra il radicalismo della milizia, che voleva una seconda rivoluzione più accentuata sul terreno sociale, e l’atteggiamento più istituzionale del partito. È in atto anche il confronto-scontro tra le SA e l’esercito tedesco, allora in ricostituzione. In quegli stessi mesi aumenta in maniera esponenziale il numero delle iscrizioni alle SA. Nel 1932 contavano 450 mila iscritti, nel ’34 superano i 4 milioni, e questo grande aumento è legato a una forte affluenza operaia. Si diceva che le SA erano come una bistecca, bruna fuori e rossa dentro, bruna dal colore delle divise, rossa dall’ideologia rivoluzionaria che le contraddistingueva.

Tuttavia torniamo al 1934 e alla crisi che era nell’aria. Nel paese si registrava un rallentamento dei consensi e a questo punto, alla fine di giugno del 1934, Hitler decide di effettuare una mossa senza precedenti, decide cioè l’eliminazione fisica degli avversari politici interni al suo campo. Cadono i capi delle SA, in primo luogo Röhm, amico e antico sodale di Hitler. Ed è lo stesso Hitler, il cancelliere in persona che, pistola in pugno, raggiunge la residenza montana di Röhm e lo trae in arresto. Röhm è accusato tra l’altro di pratiche omosessuali: secondo una prassi divenuta abituale le «deviazioni» sessuali o supposte tali divengono strumento di lotta politica interna al regime. I capi delle SA vengono immediatamente uccisi dalle SS, mentre direttamente nelle loro case saranno uccisi l’ex cancelliere generale Kurt von Schleicher, l’intellettuale conservatore Edgar Julius Jung, l’ex compagno di partito e leader della sinistra nazista Gregor Strasser e numerosi altri, una novantina almeno. Una forma di giustizia gangsteristica, ma che garantiva l’appoggio dell’esercito e tagliava i ponti ad ogni velleità di restaurazione conservatrice.

In un discorso tenuto di fronte al Reichstag poco dopo questi avvenimenti Hitler giustificò così la procedura adottata:

Se qualcuno mi chiede obiettando perché per giudicare i criminali non abbiamo chiamato in causa le normali istanze giudiziarie, posso soltanto rispondergli che in quel momento io ero responsabile del destino della nazione tedesca, e con ciò la più alta autorità giudicante del popolo tedesco. [...] Io ho impartito l’ordine di fucilare i principali colpevoli di questo tradimento, e io ho comandato di cauterizzare fino alla carne viva le ulcere responsabili dell’avvelenamento della nostra e delle altre nazioni. La nazione deve sapere che la sua esistenza [...] non verrà minacciata impunemente da nessuno. E tutti devono sapere una volta per sempre che chi alza la mano contro lo Stato, andrà incontro a morte sicura15.

E poco dopo, il grande giurista Karl Schmitt scriveva: «Il vero Führer è sempre anche giudice, il giudizio promana dal comando... In verità l’atto del Führer è giuridicità pura. Esso non è subordinato alla giustizia, ma è la massima istanza di giustizia»16.

Pochi mesi dopo, nel settembre di quello stesso 1934, la forza della propaganda e del cerimoniale nazista si dispiegarono in tutta la loro prepotente evidenza nel Congresso del partito a Norimberga. Qui Hitler, in un discorso, ribadirà: «Non è lo Stato che dà ordini a noi, ma noi che diamo ordini allo Stato. Non è lo Stato che ha creato noi, ma noi che abbiamo creato il nostro Stato»17.

I discorsi di Hitler suscitavano una profonda reazione emotiva. Come ha osservato lo storico George Mosse:

Spesso questi discorsi avevano una costruzione logica, ma la logica interna era mascherata dal ritmo e dal crescendo della voce. Il pubblico recepiva in tal modo la logica del discorso emotivamente, avvertiva solo la combattività e la fede senza afferrare il contenuto concreto, o senza soffermarsi a riflettere sul suo significato18.

Le grandi manifestazioni (fig. 5) non riguardavano però soltanto il partito, ma interi strati della società. Ogni anno si celebrava, ad esempio, una grande Festa del Raccolto che coinvolgeva le popolazioni contadine.

Fig. 5. Cattedrale di luci realizzata da Albert Speer per il congresso nazista di Norimberga del 1937.

Alla radio (fig. 6) e alla propaganda grafica e fotografica si affianca ora il cinema sonoro con i cinegiornali e con lo straordinario film Il trionfo della volontà (Triumph des Willens, 1935) sul congresso di Norimberga del 1934: grande qualità delle immagini e del montaggio volti a costruire un’apoteosi corale intorno a Hitler. Del quale si codifica ormai un’immagine insieme di uomo d’ordine, carismatica e salvifica: una divisa senza gradi ma quasi sempre con la croce di ferro e il distintivo dei feriti in guerra. Dunque i due simboli del valore militare del soldato al fronte, quale era stato Hitler durante la guerra. Due elementi simbolici che legittimavano la figura del Führer di fronte alla maggioranza dei tedeschi coinvolti nella mitologia di una nuova società, in parte in via di realizzazione (figg. 7 e 8).

Fig. 6. «Tutta la Germania ascolta il Führer con la radio del popolo».

Fig. 7. Ritratto ufficiale di Hitler in divisa politica. Dipinto di Heinrich Knirr, 1937.

Fig. 8. Hitler portabandiera circondato dalle SA.

E la nuova società nazista si presentava come una società moderna, aperta all’ascesa sociale, al riconoscimento del merito e delle aspettative: «Via libera ai bravi» era uno dei motti del regime. Il partito stesso è il volano di questa ascesa sociale. Presto si conteranno oltre due milioni e mezzo di funzionari grandi e piccoli, e gli iscritti del partito, che saliranno vertiginosamente dal ’33, arriveranno a due milioni e mezzo nel ’35, a cinque milioni allo scoppio della guerra e a otto, nove milioni fra il 1943 e il 1944, quando, come in Italia, si cerca la protezione del partito nelle avversità del momento.

Gli anni felici del nazismo sono gli anni centrali, dal 1936 al 1939, dominati dall’entusiasmo per il Führer e confermati dai ricorrenti plebisciti, quasi sempre legati ai successi in politica estera, trionfali non solo per i risultati in percentuale, ma anche per la grandiosa affluenza, superiore spesso al 95-97%. Hitler, da scommessa qual era ancora nel 1933-1934, è ormai una certezza.

L’indiscusso potere carismatico del Führer poggiava, è stato scritto, su un bisogno diffuso nella nuova società di massa, quel desiderio quasi messianico di forme sacrali di autorità suprema delle quali, dopo la caduta delle grandi monarchie, la società era stata privata19. Ma come ogni potere carismatico – allora e oggi, potrei dire – ha due esigenze vitali e insieme propulsive: quella di mantenere una presa costante con il suo pubblico e quella di essere alimentato da continui successi. E i successi venivano anche dal miracolo economico nazista, dal progressivo crollo della disoccupazione, fino alla sua scomparsa nel ’38, dall’aumento graduale e continuo dei salari reali, fino a raggiungere il +10% nel 1943 rispetto al 1936, e dal rafforzarsi del sistema del welfare, infine da una maggiore qualità della vita, non sempre sul piano del benessere materiale, ma certamente su quello delle aspettative e delle opportunità, con un riconoscimento dell’importanza del tempo libero che il regime provvedeva largamente a organizzare.

In questa situazione pareva non pesare l’inarrestabile conflitto fra i poteri nel regime: la contrapposizione fra lo Stato, che vedeva Hermann Göring come figura principale, e il partito, divenuto ormai il partito delle SS guidate da Himmler. Anzi si consolidava sempre più il sistema della poliarchia nazista, del potere molteplice del nazismo: più poteri, spesso conflittuali, che traevano legittimazione dall’approvazione del Führer, di volta in volta concessa o negata spesso arbitrariamente o per capriccio, ma mai discutibile. Un sistema che era in sintonia con il carattere e il metodo di lavoro di Hitler: il Führer non amava alzarsi presto e le sue riunioni politiche non cominciavano mai prima di mezzogiorno e mezzo, mettendo in grave disagio soprattutto i militari. Un Hitler che si limitava a dare indicazioni generali, salvo nella condotta della guerra che seguirà da vicino come capo supremo, e rifuggiva dal lavoro sistematico, quotidiano sulle carte come era invece, in quegli stessi anni, quello di Mussolini o di Stalin. Un sistema decisionale che paradossalmente accentuava invece di ridurre il potere del Führer.

Già dal ’37 si comincia a pensare alla guerra. Hitler diventa capo supremo delle forze armate nel febbraio del ’38, dopo la crisi Blomberg-Fritsch, un affaire politico-sessuale architettato con l’abituale spregiudicatezza e cinismo su cui non merita attardarsi, che porta all’allontanamento del ministro della Guerra e del capo di stato maggiore dell’esercito, supposti critici della politica bellicista. La Germania è ormai avviata al riarmo. Nel 1938 il 58% delle finanze sono destinate a spese belliche. Ma il massimo della produzione bellica si otterrà solo nel 1944, con oltre 7 milioni di lavoratori forzati, di lavoratori coatti, insieme prigionieri politici e prigionieri militari, prevalentemente sovietici.

Il presupposto di fondo, lo abbiamo già detto, era quello di liberarsi dalle catene di Versailles, possibilmente stipulare un’alleanza con l’Inghilterra a garantirsi dunque le spalle per poi attaccare l’Urss e conquistare lo spazio vitale a est. Sappiamo tutti com’è andata, non secondo i disegni di Hitler. Ma in questa fase tra il susseguirsi di una serie di successi diplomatici è il caso di ricordare l’Anschluß, l’annessione dell’Austria al grande impero tedesco, uno dei momenti trionfali che precedono la guerra (fig. 9).

Fig. 9. Il ritorno trionfale a Berlino dopo l’annessione dell’Austria, 1938.

E mentre si prepara la guerra, torna l’ossessione antiebraica, l’elemento aggregante nel partito con larghi echi di consenso nella società tedesca. Il 9 e 10 novembre del 1938 è la Notte dei Cristalli, il pogrom organizzato da Goebbels contro gli ebrei: decine di migliaia di negozi distrutti, in primo luogo le vetrine dei negozi – da cui il nome Kristallnacht –, ­incendiate innumerevoli sinagoghe, arrestati e deportati molti ebrei. Da quel momento si accentueranno ulteriormente le limitazioni delle attività degli ebrei, anche se a quella data quasi la metà degli ebrei residenti in Germania, che erano 530.000 circa, si erano allontanati dal pae­se. Purtroppo non tutti emigrarono oltre oceano: quelli che si trovavano in Francia o in Italia, o in altri paesi come l’Olanda, vennero in seguito arrestati e deportati nei campi di concentramento.

Tutta la politica di Hitler del resto era orientata alla guerra, e Hitler era inevitabilmente pri­gioniero del suo dinamismo distruttivo, così come lo era l’ideologia e la logica dei suoi seguaci. I tedeschi non l’avevano capito e fino all’estate del 1939 preferivano la pace. I rapporti delle SS sono chiarissimi al riguardo. Ma dopo i trionfi militari della conquista del­la Polonia, della Norvegia e della Francia, ottenuti tutti in pochi mesi entro la primavera del 1940, si accoderanno entusiasti e seguiranno Hitler nel baratro, come i topi del pifferaio di Hamelin. La visita che Hitler compì a Parigi conquistata (fig. 10) è il momento del suo massimo trionfo: e forse possiamo anche dirlo, se la storia si fosse fermata al 1940 Hitler sarebbe rimasto un eroe dei nostri tempi e non un flagello dell’umanità, ma il dinamismo ideologico che guidava Hitler non lo faceva arrestare neppure di fronte all’evidenza dei suoi successi.

Fig. 10. Nella Parigi conquistata, 28 giugno 1940 (a sinistra Albert Speer).

Il 22 gennaio del 1941 la Germania attacca la Russia che fino ad allora era stata sua alleata. Quel giorno Mussolini, parlando alla Petacci, in una telefonata intercettata e registrata, dirà: è l’inizio della fine. E infatti già nel tardo autunno di quell’anno, nel novembre-dicembre del ’41, l’avanzata rapidissima in Russia si era fermata di fronte a Mosca, e da allora – i vertici delle forze armate cominciarono a capirlo subito – la guerra sarebbe stata inevitabilmente perduta, anche se bisognò aspettare lunghi anni prima che questo destino si compisse. Ma dal febbraio del ’43, dalla caduta di Stalingrado, e prima ancora dall’ottobre 1942, dalla vittoria inglese di El Alamein in Africa settentrionale, la sconfitta era diventata evidente. D’altro canto, la decisione degli alleati a Casablanca, del 23 gennaio del 1943, che sceglieva la linea della resa incondizionata della Germania, lasciava poco o nessun margine a una pace negoziata e in qualche misura tagliava le gambe anche a quelle sfortunate iniziative militari di attentare alla vita di Hitler per poi negoziare una pace.

Nel trattare le vicende conclusive di questa storia, credo sia indispensabile toccare rapidamente, e con qualche inevitabile schematismo, alcune questioni cruciali oggetto di grande dibattito nell’opinione pubblica, in passato e ancora oggi.

La prima è la questione delle responsabilità di Hitler nella soluzione finale della questione ebraica. Molti, e alcuni per assolverlo, hanno sottolineato che non c’è un documento che testimoni questa volontà, non c’è un documento scritto, non c’è una firma di Hitler. Ma Hitler era già stato chiarissimo nel gennaio del 1939, quando in un discorso al Reichstag aveva detto:

Nella mia vita, nel corso della mia lotta per il potere, spesso sono stato profeta, e spesso sono stato sbeffeggiato, in primo luogo dal popolo ebreo, che ha accolto con risa le mie profezie, vale a dire che un giorno avrei assunto il comando dello Stato e, facendo ciò, del popolo intero, e che tra le altre questioni avrei risolto il problema ebraico. Credo che nel frattempo la risata della iena giudaica della Germania le si sia spenta in gola. Oggi sarò di nuovo profeta: se la finanza ebraica internazionale d’Europa e fuori d’Europa dovesse arrivare, ancora una volta, a far precipitare i popoli in una guerra mondiale, allora il risultato non sarà la bolscevizzazione del mondo, e dunque la vittoria del giudaismo, ma, al contrario, l’annientamento dell’intera razza ebraica in Europa.

Per parte mia, come storico mi accontento. La responsabilità storica del resto è ben diversa dalla responsabilità giudiziaria, e la responsabilità storica di Hitler è fuori discussione.

Un altro problema è come mai fino alla fine i militari e le SS portarono gli ebrei allo sterminio, costringendoli alle marce forzate, quando l’avanzata dei sovietici si faceva sempre più vicina. Non li potevano lasciare nei campi di concentramento, testimoni dei loro eccidi. Certo questa sembra una giustificazione razionale, ma forse c’è qualcosa che va oltre: portare fino in fondo la distruzione della razza ebraica si configurava come una sorta di compensazione per la missione fallita dell’annientamento delle razze nemiche dei popoli slavi e insieme rispondeva alle ragioni ideologiche profonde del movimento nazista.

Ma i tedeschi sapevano? E quanto sapevano? E cosa sapevano? E perché la guerra durò tanto, oltre ogni ragionevolezza? Questi sono gli interrogativi che si sono posti ripetutamente gli storici, interrogativi ai quali credo ormai si possa dare una risposta definitiva. Studi recentissimi lo confermano. I tedeschi sapevano, sì, i tedeschi sapevano. Sapevano degli stermini sul fronte orientale, degli stermini degli ebrei, addirittura sapevano a tal punto che quando venne resa nota la scoperta delle fosse di Katyn´ e le autorità dissero che erano stati i sovietici ad ammazzare migliaia di ufficiali polacchi, l’opinione pubblica, secondo i rapporti delle SS, non ci credette, pensò che fossero stati i tedeschi. Si sapeva che quello era il loro comportamento abituale.

E sapevano anche delle camere a gas. Come lo sapevano? C’erano 15 milioni di tedeschi che ascoltavano in segreto la Bbc, e la Bbc nel 1942, e più volte in seguito, annunciò l’esistenza delle camere a gas. Milioni di volantini furono poi lanciati nel 1944 sulla Germania a denunciare le camere a gas del campo di concentramento di Majdanek.

Ma perché l’opinione pubblica non reagì? Perché la guerra durò, con il consenso dei tedeschi, praticamente fino alla fine? L’opinione pubblica era dominata dal terrore e da una duplice paura. Paura della repressione violentissima del regime: decine di migliaia furono le vittime nell’esercito, e molte migliaia tra i cittadini; si contavano 75 condanne a morte di civili al giorno negli ultimi mesi di guerra in Germania, spesso indiscriminate e per i più futili motivi. E paura delle rappresaglie degli alleati, non solo di quelle dei russi. I tedeschi sapevano di quanta violenza si erano macchiati e sapevano di avere molto da espiare. E così continuarono a combattere, perché non c’era altra alternativa20.

In un vero e proprio accecamento politico e militare, il mito di Hitler continuò a sopravvivere e molti confidavano nel miracolo affidato alle nuove armi. Hitler stesso, ancora nell’aprile del ’45, sembrava credere a un esito diverso da quello ormai evidente, ricordando come Federico II di Prussia fosse stato salvato, alla vigilia della sconfitta, dalla morte improvvisa della zarina Elisabetta nel 1762, nel pieno della Guerra dei Sette Anni. Anche Roosevelt era morto, il 12 aprile del 1945, ma la guerra era continuata senza interruzione.

Così, solo Hitler teneva nelle sue mani il destino finale della Germania e nessuno poteva o voleva sottrarglielo. Con l’avanzare della sconfitta il Führer si sottrae alla dimensione pubblica, nasconde il suo mito 15 metri sotto terra nel bunker costruito sotto la nuova Cancelleria di Albert Speer, lasciando fuori solo la voce concitata della propaganda affidata al fedelissimo Goebbels.

Fig. 11. Ultima foto di Hitler davanti al bunker della Cancelleria, 20 aprile 1945.

Gli ultimi giorni di Hitler sono stati rievocati tante volte in libri e in film. In questa fase l’ha raggiunto la sua compagna Eva Braun. Si sposano prima del suicidio di entrambi: sono le 15.30 del 30 aprile 1945. L’ultimo ordine è di bruciare i loro corpi per evitare che i resti possano cadere nelle mani dei russi21.

Dopo qualche giorno la Germania chiedeva la resa.

Nella Berlino distrutta si aggiravano i sopravvissuti di una storia a cui era difficile dare un senso e che era più facile rimuovere. Così nel fiorente mercato nero di quei giorni si vendevano i dischi con i discorsi di Hitler. Quella voce che aveva stregato i tedeschi ora, ridotta al silenzio, poteva risuonare solo come souvenir per i soldati occupanti, ma rimaneva una voce con cui era difficile fare i conti. Apparteneva a un passato che non poteva passare. Sopraffatti da una colpa collettiva, i tedeschi sembravano usciti dalla storia, usciti da tutta la loro storia, e la Germania ridotta all’anno zero22.

Note

1 Per le cifre, M. Gilbert, La grande storia della seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 2009, pp. 856-857.

2 Enciclopedia italiana, II Appendice (1938-1948), vol. 1, p. 1186.

3 Per quel che vale, on-line sono stati contati ben 42 tentativi falliti di uccidere Hitler.

4 Il Mein Kampf fu pubblicato nel luglio 1925 con il sottotitolo Eine Ab­rechnung («Una resa dei conti»), il secondo Die nazionalsozialistische Bewegung («Il movimento nazionalsocialista») nel dicembre 1926. In Italia furono pubblicati dall’editore Bompiani prima il secondo volume, nel 1934, con il titolo La mia battaglia, poi il primo, nel 1938, con il titolo La mia vita.

5 H. Schulze, La repubblica di Weimar. La Germania dal 1917 al 1933, il Mulino, Bologna 1987, p. 416.

6 R. Zitelmann, Hitler, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 58.

7 Schulze, La repubblica di Weimar, cit., p. 423.

8 Zitelmann, Hitler, cit., p. 78.

9 Schulze, La repubblica di Weimar, cit., p. 401.

10 Th. Herzl, cit. in C.E. Schorske, Vienna fin de siècle. Politica e cultura, Bompiani, Milano 1981, pp. 154-155.

11 E.J. Hobsbawm, Anni interessanti. Autobiografia di uno storico, Rizzoli, Milano 2002, p. 90.

12 Einaudi, Torino 2008.

13 M. Broszat, Der Staat Hitlers. Grundlegung und Entwicklung seiner inneren Verfassung, Deutscher Taschenbuch Verlag, München 1986, pp. 106-108.

14 N. Frei, Lo Stato nazista, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 227; T. Allert, Heil Hitler! Storia di un saluto infausto, il Mulino, Bologna 2008.

15 Frei, Lo Stato nazista, cit., pp. 34-35.

16 Ivi, p. 38.

17 Da 00.56-00.57’ del film Il Trionfo della Volontà di Leni Riefenstahl.

18 G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania dalle guerre napoleoniche al Terzo Reich, il Mulino, Bologna 1975, p. 227.

19 I. Kershaw, Hitler e l’enigma del consenso, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 17.

20 R.J. Evans, How Willing Were They?, «The New York Review of Books», 26 giugno 2008; M. Hastings, Germans Confront the Nazi Past, ivi, 26 febbraio 2009. Della delirante violenza della guerra e dello sterminio e in particolare degli ultimi giorni a Berlino offre un quadro di grande efficacia il libro discusso e discutibile Le Benevole di Jonathan Littell (Einaudi, Torino 2007), romanzo nella forma di una docufiction.

21 Come poi comunque accadrà.

22 Germania anno zero (1947) è il titolo di un film di Roberto Rossellini dove è presente la sequenza dei militari alleati che ascoltano un disco di Hitler tra le rovine della Cancelleria.