La repubblica di De Gasperi

di Giovanni Sabbatucci

Il potere di cui vi parlerò è un potere molto diverso da quello di cui vi hanno parlato i colleghi che mi hanno preceduto. Non è il potere dittatoriale, pervasivo e tendenzialmente totalitario di Mussolini, di Hitler o di Stalin. Non è il potere che si incarna nella fisicità del capo carismatico, nella sua immagine non importa se reale o costruita. È il potere discreto e limitato della democrazia. È un potere che in questo caso si identifica nella figura austera e un po’ ascetica, nel profilo affilato di Alcide De Gasperi.

L’immagine che tutti abbiamo presente, e che troviamo nei libri di storia, è quella di un uomo non più giovane, di un sessantenne o di un settantenne, quale è De Gasperi (nato nel 1881) nel decennio che lo vede protagonista della politica italiana. Non che fosse stato sin allora uno sconosciuto, visto che, come dirò, aveva alle spalle una carriera politica di tutto rilievo, bruscamente interrotta dall’avvento del fascismo. Ma il suo nome, e a maggior ragione la sua faccia, non avevano la notorietà di quelli di un Orlando o di un Nitti, protagonisti della scena politica dell’Italia prefascista. La notorietà De Gasperi l’avrebbe acquisita nel giro di pochi anni: gli anni della fine della guerra e della transizione alla democrazia repubblicana. Quella democrazia repubblicana di cui De Gasperi sarà il primo fra i padri fondatori, e, a tutti gli effetti, il maggiore protagonista per un intero decennio, fino alla sua morte. Il che giustifica il titolo che abbiamo dato a questo incontro. Anche se, a guardar bene, la repubblica che abbiamo conosciuto (la «prima Repubblica», o «la Repubblica dei partiti») non sarà esattamente quella che De Gasperi aveva in mente e a cui aveva cercato di dar vita. Ma d’altronde, lo scostamento fra il progetto e la realtà è un carattere tipico della democrazia liberale, che è sempre il regime dell’approssimazione e dell’imperfezione e in questo si distingue dai regimi autoritari dove il progetto viene perseguito anche a costo di passare sopra montagne di cadaveri.

Un altro aspetto, apparentemente paradossale, che va sottolineato è che De Gasperi, padre della democrazia repubblicana italiana, non ha una formazione democratica (nel senso stretto del termine), né tanto meno repubblicana. Ma anche qui, in realtà, possiamo individuare un carattere della democrazia liberale, costruita con materiali diversi, attraverso l’assorbimento di culture e di uomini che originariamente non le sono omogenei.

De Gasperi, dunque, non nasce democratico né repubblicano. E non nasce nemmeno cittadino italiano (anche se è italiano di lingua e di cultura). Il suo paese natale, Pieve Tesino, come tutto il Trentino, faceva parte dell’Impero asburgico. E lui resta, per i primi trentasette anni della sua vita, un suddito fedele dell’imperatore d’Austria, partecipando attivamente alla vita politica dell’Impero, nelle file del movimento cattolico: prima a livello locale, poi, dal 1911, come deputato al Parlamento austroungarico. Si batte per la tutela dei diritti della comunità italiana (per questo finisce anche in prigione nel 1904 a Innsbruck, dove frequenta l’università), ma non è irredentista: e ciò gli verrà rimproverato nel secondo dopoguerra dai suoi avversari politici di destra e di sinistra. Come molti giovani cattolici della sua generazione, guarda con qualche interesse alla Democrazia cristiana di Murri. Ma, per formazione, è piuttosto un cristiano-sociale: e dei cristiano-sociali austriaci, che avevano come figura di riferimento il borgomastro di Vienna Karl Lueger (per inciso: uno dei modelli di Hitler nella sua giovinezza viennese) condivide in questi anni anche le chiusure e le idiosincrasie, compreso un certo pregiudizio antiebraico, oltre che antimassonico e antiliberale: del resto i liberali erano in Trentino i suoi rivali politici, come lo erano i socialisti.

L’apprezzamento, e direi anche la passione, per le pratiche e gli istituti della democrazia liberale De Gasperi li avrebbe maturati più tardi, prima con l’adesione al Partito popolare e attraverso l’opposizione al fascismo, poi, dopo la seconda guerra mondiale, nel contrasto col comunismo e nel contatto con le democrazie anglosassoni. L’esperienza trentina è comunque fondamentale per molti aspetti1. Non solo rivela una precoce vocazione politica, ma aiuta a spiegare alcune caratteristiche del De Gasperi maturo: la tendenza a conciliare la militanza cattolica col senso dello Stato, la passione per la buona amministrazione, l’abitudine a muoversi in un contesto plurale, multietnico.

Nella politica italiana De Gasperi fa il suo ingresso ufficiale nel giugno 1919, quando è chiamato a presiedere la seduta inaugurale del congresso di fondazione del Partito popolare italiano, a Bologna. A questa incombenza era stato designato in quanto rappresentante del Trentino appena riunito alla madrepatria. Alla Camera entra con le elezioni del maggio 1921 (le prime in cui votano le popolazioni delle «terre liberate») e subito viene eletto presidente del gruppo parlamentare popolare: sia grazie al successo elettorale (il Ppi prende il 50% dei voti in Trentino e lui è il primo degli eletti), sia in virtù dell’esperienza maturata nel Parlamento di Vienna (nel partito non erano in molti a possedere questa esperienza, visto che i cattolici si erano tenuti lontani dalla vita politica del Regno). In questa posizione di rilievo vive tutta la vicenda tormentata del Ppi, in sostanziale accordo col fondatore e segretario del partito, don Luigi Sturzo, da cui pure lo separavano molte cose (Sturzo era un prete e un intellettuale meridionale, De Gasperi era un cattolico di formazione asburgica, con la vocazione dell’uomo di Stato). Alla segreteria del Ppi De Gasperi arriva nel maggio del ’24, un anno dopo che Sturzo è stato costretto a lasciare la guida del partito: siamo alla vigilia della crisi Matteotti e della secessione aventiniana, che avrà De Gasperi fra i suoi promotori.

Seguono gli anni bui per la democrazia italiana, che sono anche anni difficili per De Gasperi: le intimidazioni, l’isolamento, l’impossibilità di svolgere attività politica e giornalistica anche in Trentino. Le preoccupazioni concrete, per la famiglia che nel frattempo cresce (si è sposato nel ’22 con Francesca Romani, una sua conterranea, che gli darà quattro figlie). Nel novembre ’26 decade dal seggio parlamentare con gli altri aventiniani. Nel ’27 è arrestato e fa qualche mese di carcere. Nel ’29 trova una modesta sistemazione lavorativa alla Biblioteca Vaticana, dove resterà fino alla caduta del fascismo, in una specie di esilio interno, collaborando sotto pseudonimo con la rivista «L’Illustrazione vaticana» con una rubrica di politica internazionale2. È a questo periodo che risale la sua amicizia con Giovanni Battista Montini (figlio di un deputato popolare), che lo aiuterà sul piano personale, così come gli sarà vicino più tardi sul piano politico.

Non posso fermarmi oltre su questi anni, gli anni del silenzio forzato e dell’isolamento anche all’interno di quella Chiesa che pure gli assicura un minimo di protezione e la possibilità di una sopravvivenza appena decorosa. Mi preme arrivare al momento del rientro di De Gasperi sulla scena politica, che coincide con la nascita della Democrazia cristiana. Per la sua autorevolezza, e per il fatto di essere stato l’ultimo segretario del Ppi, De Gasperi è il centro e il terminale di quella trama clandestina che porta, già nel ’42, alla riaggregazione del nucleo degli ex popolari (Spataro, Piccioni, Gronchi, Tupini); è l’autore, o il coautore, di un opuscolo intitolato Idee ricostruttive della Democrazia cristiana; è il leader naturale del partito che nasce in clandestinità nell’ottobre del ’42 ed esce alla luce subito dopo il 25 luglio. De Gasperi rappresenta la Dc nel Comitato delle opposizioni antifasciste che si forma nell’estate del ’43, grazie all’iniziativa di Ivanoe Bonomi. Del Comitato fanno parte sei partiti: il Partito socialista, il Partito comunista, la Democrazia cristiana, il Partito liberale, e poi due completamente nuovi (e destinati a vita breve): il Partito d’azione e la Democrazia del lavoro (il partito creato da Bonomi, forse per riequilibrare i rapporti di forza fra sinistre e moderati in seno al Cln). Il 9 settembre, all’indomani dell’annuncio dell’armistizio, mentre lo Stato italiano di fatto si dissolve, i sei partiti si costituiscono in Comitato di liberazione nazionale e approvano il famoso messaggio in cui invitano gli italiani a battersi contro gli occupanti tedeschi e a riportare l’Italia nel consesso delle democrazie.

E qui bisogna fermarsi, perché l’evento e la data sono davvero importanti. Se è vero che la democrazia nata sulle rovine del fascismo è stata una democrazia dei partiti, il suo atto fondativo non può che essere individuato in quel messaggio e in quella riunione, anche se allora pochi ne furono a conoscenza. L’evento forse non è adeguatamente ricordato, come dimostra la lapide posta in piazza della Libertà, nel venticinquennale, dal Comune di Roma e dalla XVII circoscrizione. Si tratta infatti di una lapide sbagliata, in quanto la riunione del 9 settembre non si tenne in piazza della Libertà, nella casa di Bonomi, ma in via Adda, in un appartamento vuoto di proprietà della casa editrice Einaudi. Incerto è anche il numero e l’identità dei partecipanti: sembra per esempio che Nenni, generalmente indicato fra i presenti, non ci fosse3. C’era invece De Gasperi, e rappresentava la Dc assieme a Giuseppe Spataro. Nei suoi primi mesi di vita, il Cln centrale svolse un’attività assai limitata. Sia perché agiva in clandestinità, in regime di occupazione tedesca, sia perché era diviso sul tema dei rapporti col vecchio Stato e sulla questione istituzionale. Da una parte le sinistre, che rifiutavano ogni compromesso, dall’altra i moderati che non volevano una rottura totale e chiedevano di rinviare la questione al dopo-liberazione. Se leggiamo i verbali delle sedute del Cln, che in parte ci sono pervenuti e sono stati recentemente pubblicati a cura di Gabriella Fanello Marcucci4, colpisce subito il ruolo di De Gasperi. Colpisce per l’efficacia dei suoi interventi, ma soprattutto per l’autorevolezza che già lo qualifica come il vero leader dello schieramento moderato. In quel momento i rapporti di forza fra i partiti non si conoscevano: ma era a tutti evidente che la Dc, nonostante fosse appena nata e non fosse ancora oggetto di una qualche investitura da parte della Chiesa (investitura che tarderà non poco e non sarà mai priva di riserve), avrebbe avuto un ruolo di primo piano. A posteriori, potremmo abbozzare una specie di teorema: se era prevedibile nell’Italia postbellica una prevalenza dei partiti di massa su quelli a struttura più tradizionale, e altrettanto lo era la prevalenza dei partiti moderati filo-occidentali su quelli che guardavano all’Urss, la Dc era l’unica formazione che riunisse in sé entrambe queste caratteristiche: era un partito moderato e tendenzialmente di massa.

Ma non possiamo correre troppo. Nell’autunno del ’43 i tedeschi occupavano ancora mezza Italia, la guerra non era ancora decisa e i partiti del Cln erano ancora sconosciuti alla gran parte della popolazione, oltre che divisi fra loro. La ricomposizione fra i partiti del Cln, e fra il Cln e le autorità del Regno del Sud, avviene solo nella primavera del ’44, dopo il ritorno di Togliatti da Mosca e la svolta di Salerno, cui seguono la liberazione di Roma, la luogotenenza di Umberto I e la costituzione del governo Bonomi, espressione diretta del Cln. In questo governo De Gasperi è ministro senza portafoglio, in una specie di direttorio partitico, in rappresentanza della Dc. È la sua prima volta al governo, dove resterà ininterrottamente per nove anni.

Il vero momento di svolta nella vicenda politica di De Gasperi non è però questo. Cade piuttosto sei mesi dopo (dicembre ’44), quando, in seguito alla formazione di un secondo governo Bonomi, De Gasperi assume la titolarità di un ministero chiave, quello degli Esteri, che manterrà fino all’ottobre del ’46 e poi riprenderà nel ’51. Perché fosse in quel momento un ministero chiave è facile intuire: anche se l’Italia non poteva ancora condurre una sua politica estera autonoma, il ministro degli Esteri era quello che soprattutto teneva i contatti con gli alleati angloamericani. È da questo momento che De Gasperi si accredita come il principale interlocutore delle potenze vincitrici: e non perché sia particolarmente filobritannico o filoamericano (anche se nei confronti degli Stati Uniti, in quanto democrazia di massa, in qualche misura a base religiosa, aveva maturato già una certa simpatia), ma perché è apprezzato come persona seria, competente e ragionevole, slegata sia dal passato fascista, sia dalla peggiore tradizione della politica estera italiana (il doppio gioco elevato a virtù), ed è immune da quelle nostalgie nazionaliste a cui indulgevano ancora molti uomini politici della vecchia classe dirigente5. Aggiungiamo che De Gasperi aveva già acquisito una certa competenza in materia di politica internazionale e capiremo perché la sua personalità emerga fino a farne un candidato naturale alla guida dell’esecutivo. Candidatura che si manifesta per la prima volta dopo la liberazione e le dimissioni di Bonomi (allora verrà bloccata dal gioco dei veti incrociati con Nenni) e per la seconda dopo la crisi del governo Parri (fine novembre ’45), quando invece i partiti di massa – che sono e si considerano già tali, anche in assenza di verifica elettorale – trovano l’accordo sul nome di De Gasperi.

Su questo passaggio si sono scritti interi libri6 e si è discusso a lungo. E qualcuno, soprattutto da parte azionista, ha accusato De Gasperi di aver rotto, in accordo con i liberali, l’unità del Cln per bloccare lo slancio innovativo del dopo-liberazione e restaurare in sostanza il vecchio Stato (c’è un celebre brano de L’orologio di Carlo Levi, in cui si suggerisce questa interpretazione, in termini non lusinghieri per De Gasperi7). Ora, è vero che De Gasperi non amava la democrazia giacobina ed era convinto che il ruolo del Cln dovesse svanire di pari passo con l’avvio della normalità democratica. Ma questo non autorizza a dipingere l’apertura di una crisi come una specie di colpo di Stato (lo fece incautamente Parri nel momento dell’annuncio delle dimissioni). E non deve far dimenticare che, poco più di sei mesi dopo, alle elezioni per la Costituente, la Dc di De Gasperi avrebbe superato il 35% dei voti, affermandosi come il primo partito italiano, mentre il PdA e la Concentrazione democratico-repubblicana di Parri insieme arrivarono appena al 2%.

Siamo arrivati così a un altro momento chiave: il 2 giugno 1946, ovvero il momento delle elezioni per la Costituente e insieme della scelta fra monarchia e repubblica. Un passaggio in cui De Gasperi svolge ancora un ruolo fondamentale. Ma, prima di parlarne, bisogna accennare ai precedenti immediati. Nei primi mesi del 1946, si gioca una partita delicatissima che ha per oggetto principale proprio le modalità e i tempi di quella scelta. Il compromesso della primavera-estate 1944 fra partiti antifascisti e monarchia (il decreto luogotenziale n. 151 del 25 giugno, detto «prima costituzione provvisoria») prevedeva infatti che le decisioni sull’ordinamento dello Stato fossero affidate alla futura Assemblea costituente. Dopo la liberazione si fa strada invece l’idea di trasferire quella decisione al popolo, tramite referendum: una soluzione chiaramente favorevole alla monarchia, che non avrebbe avuto alcuna speranza se a decidere fossero stati gli eletti inquadrati nei partiti. Ma anche una decisione saggia perché un pronunciamento popolare è sempre una base più solida della delibera di un’assemblea. De Gasperi si schiera subito, e schiera la Dc, su questa linea: non perché abbia una speciale simpatia per casa Savoia (quasi certamente votò repubblicano), ma perché sa che una scelta esplicita per la repubblica – verso la quale propendeva la gran parte del gruppo dirigente democristiano e degli stessi iscritti – avrebbe evidenziato una spaccatura fra il partito e quell’elettorato moderato (e presumibilmente monarchico) che la Dc intendeva conquistare e inserire nello Stato democratico. La linea di De Gasperi, che coincide, e non solo su questo punto, con quella degli alleati, prevale. E si arriva a un nuovo decreto con cui si stabiliscono tempi e modalità della consultazione referendaria.

Fra le altre cose quel decreto (il decreto luogotenenziale n. 98 del 16 marzo, o «seconda costituzione provvisoria») stabiliva che, in caso di vittoria della repubblica, e in attesa dell’elezione di un capo provvisorio dello Stato da parte dell’Assemblea costituente, le funzioni relative sarebbero state esercitate dal presidente del Consiglio in carica. Quando, il 10 giugno, la Corte di Cassazione comunica i risultati del referendum, che danno alla repubblica un vantaggio consistente, anche se non schiacciante, di circa un milione e mezzo di voti, il presidente del Consiglio è De Gasperi. Ma il passaggio dei poteri non è per nulla pacifico: anzi fra il 10 e il 13, giorno della partenza di Umberto, l’Italia rischia la guerra civile. Che cosa era successo? Incredibilmente, solo a elezioni avvenute, ci si era accorti che la legge istitutiva del referendum parlava di «maggioranza dei votanti» e non dei «voti validi» (come forse sarebbe stato più logico): quindi non bastava che la repubblica prendesse più voti della monarchia, ma era necessario che conquistasse una maggioranza qualificata, calcolando anche le schede bianche e quelle nulle, sulle quali peraltro mancavano dati sicuri. In realtà la questione era controversa, in quanto una legge successiva (il decreto luogotenenziale n. 219 del 23 aprile, che precisava le disposizioni decise in marzo) faceva invece esplicito riferimento ai voti validi8. Sulla questione del computo delle schede bianche e nulle si appuntò comunque il ricorso di un gruppo di costituzionalisti (i cosiddetti «professori di Padova»). E sullo stesso punto si fondò la resistenza di Umberto II, che in un primo tempo era parso propenso ad andarsene, come aveva promesso in caso di sconfitta, e che ora invece chiedeva di aspettare il computo ufficiale delle schede bianche e nulle. È facile immaginare che cosa sarebbe successo se, dopo aver annunciato la vittoria della repubblica, si fosse detto agli italiani che quella vittoria non valeva e dunque il re per il momento restava, e che forse si doveva rifare il referendum. È probabilmente pensando a questo scenario da incubo che De Gasperi, dopo aver tentato invano di mediare col re e di trovare soluzioni di compromesso, assume una posizione molto dura. Al ministro della Real Casa Falcone Lucifero, che contesta la legittimità del risultato, dice che l’indomani uno di loro due sarebbe andato a trovare l’altro in carcere9. E il 12 fa votare dal Consiglio dei ministri il passaggio nelle sue mani (e senza delega del re) delle funzioni di capo dello Stato, ponendo Umberto di fronte all’alternativa se accettare il verdetto senza ulteriori indugi o scatenare la guerra civile. Umberto protesta contro quello che chiama un «atto rivoluzionario», ma poi parte per l’esilio. La repubblica nasce così con qualche ombra (da lì la leggenda dei brogli del 2 giugno), ma senza ulteriori strascichi, legali o di piazza. E noi abbiamo un ulteriore motivo per indicarne il padre in Alcide De Gasperi.

Sono passati appena due mesi da questo passaggio delicatissimo, e De Gasperi deve affrontare una delle prove più difficili della sua vita di politico, in questo caso come ministro degli Esteri. Si sono aperti in luglio, a Parigi, i lavori della Conferenza della pace. I nostri politici (De Gasperi compreso) si sono fatti parecchie illusioni sul trattamento che i vincitori riserveranno all’Italia. Quando De Gasperi arriva a Parigi, ai primi di agosto, sa già che le condizioni che gli verranno poste sono ben più dure di quelle in cui aveva sperato e che gli stessi alleati occidentali gli avevano fatto intravedere in precedenza, soprattutto sul punto dolente di Trieste e del confine orientale. Il 10 interviene al Palazzo del Lussemburgo di fronte alle delegazioni dei paesi vincitori e tiene un discorso molto famoso, pieno di realismo e di dignità. Questo discorso, pronunciato in un’atmosfera gelida (alla fine solo il segretario di Stato americano Byrnes sente il bisogno di stringere la mano a De Gasperi), non serve a migliorare la posizione negoziale dell’Italia. Ma certo accresce l’immagine internazionale dell’oratore (e anche del paese da lui rappresentato) e lo accredita ulteriormente come interlocutore serio e affidabile. Un’immagine che sarà confermata dal suo comportamento successivo, quando, nel febbraio ’47, al momento di firmare un trattato che pure giudicava iniquo, se ne caricherà sulle spalle la piena responsabilità, nonostante le proteste e le prese di distanza di non pochi suoi alleati politici. E ancora quando, nel luglio del ’47, la ratifica del trattato sarà sottoposta alla Costituente: allora De Gasperi non solo dovrà affrontare l’ostilità dei vecchi tenori del liberalismo prefascista (Orlando arriverà a parlare di «cupidigia di servilismo»), ma non potrà contare sulla solidarietà piena dei partiti di sinistra, che pure condividevano la responsabilità della firma e che, un po’ ipocritamente, si assentano dall’aula (i socialisti) o si astengono (i comunisti).

La cosa si spiega anche col fatto che nell’estate del ’47 comunisti e socialisti non fanno più parte del governo. Ed è stato De Gasperi a deciderne l’esclusione. Anche questo è un momento chiave, su cui è il caso di soffermarsi. De Gasperi era sempre stato un anticomunista convinto. Ciononostante aveva collaborato lealmente col Pci nei governi di unità nazionale. A rendere impossibile la prosecuzione dell’alleanza è soprattutto il mutamento del quadro internazionale: in marzo viene formulata la «dottrina Truman» cui si fa risalire l’inizio ufficiale della guerra fredda; del giugno è il lancio del piano Marshall; del settembre la nascita del Cominform. A tutto questo si aggiunga che con la firma del trattato di pace veniva meno il motivo principale che sconsigliava a De Gasperi di rompere la «coabitazione forzata». Non c’entra dunque il famoso viaggio in America (quello del prestito concesso all’Italia), che risale a diversi mesi prima (inizio di gennaio 1947). E c’entra poco, probabilmente, anche il voto alla Costituente, in marzo, sull’articolo 7: sul quale peraltro De Gasperi si impegna molto mettendo sul piatto tutta l’autorità di un presidente del Consiglio. Pesa, semmai, il giudizio pessimistico sulle possibilità di collaborazione con Psi e Pci in un paese aggredito dall’inflazione e attraversato dai conflitti sociali. E pesa ancor più la paura di un’avanzata delle destre, in particolare dei qualunquisti che, tra la fine del ’46 e l’inizio del ’47, hanno ottenuto alcuni clamorosi successi nelle elezioni locali.

Vista a posteriori, quella di De Gasperi può sembrare una scelta scontata, date le premesse. Allora non era così: la rottura del patto di governo fra i tre partiti di massa sembrò a molti, anche nella Dc, un atto temerario10. Anche perché De Gasperi non disponeva di una sicura maggioranza di ricambio. Quando dà le dimissioni, dopo una decisione sofferta e solitaria, lo fa al buio, senza alcuna certezza di ottenere il reincarico, che avrà solo dopo una crisi lunga più di due settimane. Il governo che alla fine riesce a costituire (il quarto da lui presieduto), e che ottiene la fiducia solo con l’appoggio di qualche pezzo della destra, è formalmente un monocolore Dc, con l’apporto di tecnici. In realtà sono proprio questi tecnici a dare il tono alla compagine di governo, a far capire il senso di quella svolta. Uno è Luigi Einaudi, allora governatore della Banca d’Italia e, di lì a un anno, presidente della Repubblica. La scelta di Einaudi rappresenta un segnale forte, rivolto ai mercati e ai cittadini: significa impegno alla restaurazione finanziaria e al risanamento monetario, che ci sarà e sarà una delle premesse della ricostruzione; ma significa anche garanzia (peraltro non incondizionata) offerta ai ceti imprenditoriali e ai centri del potere economico (il cosiddetto «quarto partito») di cui De Gasperi chiedeva la collaborazione, pur denunciandone le tendenze speculative. Questa scelta, va sottolineato, non era per nulla naturale per un uomo che si era formato, come si è visto, nelle dottrine del cattolicesimo sociale e non aveva speciale simpatia per il mondo bancario e confindustriale. Era una scelta pragmatica, come lo erano in genere le scelte di De Gasperi, che non aveva la vocazione dell’ideologo. Una scelta a cui però resterà fedele, senza far mai mancare il suo appoggio agli uomini che la incarnavano (da Einaudi a Pella e a Merzagora).

L’altro personaggio di peso del nuovo governo era Carlo Sforza, che incarnava al meglio la linea filo-occidentale (e poi europeista). Sarebbe stato lui, due anni dopo, l’artefice principale dell’adesione al Patto atlantico: un’altra opzione che non era affatto scontata (la Dc non aveva nei suoi caratteri costitutivi la vocazione del «partito americano»), ma che fu poi perseguita, come al solito, senza tentennamenti. Attraverso queste scelte De Gasperi conferisce alla Dc quell’immagine di partito moderato, filo-occidentale e anticomunista che sarà alla base delle sue fortune elettorali. E al contempo prefigura la sua strategia delle alleanze per gli anni a venire: Einaudi era un liberale, Sforza era stato vicino al PdA e poi al Pri. Ecco delineata quella configurazione «centrista» che si perfezionerà nel dicembre del ’47: quando, in virtù di un semplice rimpasto, entreranno nel governo i leader del Psli, Saragat, e del Pri, Pacciardi. È con questa coalizione, chiusa a sinistra ma anche libera, grazie all’apporto dei partiti laici, dal condizionamento della destra, che la Dc di De Gasperi affronta la grande prova elettorale del 1948.

Delle elezioni del 18 aprile, ovvero del momento di massimo trionfo di De Gasperi e della Dc, tutto è stato detto. E non c’è molto da aggiungere alla semplice constatazione che, in quelle condizioni, con avversari che volevano rifiutare gli aiuti del piano Marshall e proponevano come modello le democrazie popolari, incluso il colpo di Stato di Praga, e con l’appoggio massiccio (stavolta senza riserve) della Chiesa, la Dc non poteva non vincere e non fare il pieno dei voti moderati, cosa che di fatto avvenne. Ma questo lo diciamo oggi, col senno di poi. Allora non c’era nessuna certezza. E De Gasperi si impegnò allo stremo nella campagna elettorale (un comizio al giorno per due mesi, in aggiunta agli impegni di governo).

Ma quel che ora mi interessa è dare uno sguardo agli scenari che si aprono nella prima legislatura repubblicana. Alla formula centrista De Gasperi resta fedele anche dopo la vittoria. Ma sono le dimensioni stesse di quella vittoria, che dà alla Dc la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera (non al Senato), a far sorgere perplessità in diversi settori del mondo cattolico. Da un lato ci sono i giovani intellettuali che fanno capo a Giuseppe Dossetti e agli altri «professorini» della Costituente (Fanfani, Moro, La Pira) e che nel ’51 daranno vita a Iniziativa democratica (la prima corrente organizzata della Dc): i quali si chiedono perché il partito non debba utilizzare tutta la forza di cui dispone per promuovere una sua politica economica, più autonoma dai poteri forti e più rispondente ai principi della dottrina sociale cristiana. Dall’altro lato, c’è una destra cattolica, nettamente minoritaria nel partito ma forte negli ambienti ecclesiastici e in quell’associazionismo cattolico che più si era mobilitato nelle elezioni (nel ’52 Luigi Gedda, l’inventore dei Comitati civici, diventa presidente dell’Azione cattolica), che non gradisce la collaborazione al governo di noti anticlericali e massoni e vorrebbe maggior impegno nella lotta contro il comunismo.

La pressione da destra si fa più forte all’inizio degli anni Cinquanta. Il motivo principale è ancora una volta la situazione internazionale. Nel giugno 1950 scoppia la guerra in Corea. E si comincia a parlare di terza guerra mondiale. La Corea, è vero, era lontana. Ma la situazione presentava non poche analogie con quella della Germania divisa. Che cosa sarebbe successo se l’Urss, confinante con la Germania, avesse deciso di attaccare in Europa? E che cosa ne sarebbe stato dell’Italia, con un Partito comunista fortissimo che era considerato una possibile quinta colonna del nemico e non faceva nulla per smentire questa immagine? Ci sono poi i fattori di politica interna. Nelle elezioni del ’48, presentandosi come il baluardo contro la minaccia comunista, la Dc ha marginalizzato la destra monarchica e neofascista, rimasta al di sotto del 5% dei voti. Ma la destra non è scomparsa, anzi, una volta che la sinistra è stata ridimensionata nelle urne, rialza la testa: tanto più nel momento in cui la Dc, seguendo la spinta della sua sinistra interna ma obbedendo anche a una sua vocazione mai spenta, rilancia le riforme sociali (il ’50 è l’anno della Cassa del Mezzogiorno e soprattutto della riforma agraria). Le conseguenze si vedono nelle amministrative del ’51-52, quando i neofascisti, e soprattutto i monarchici, infilano una serie di successi (come i qualunquisti nel ’46-47). Con una destra in crescita lo schema centrista rischia di non ­essere più vincente, per mancanza di adeguata base parlamentare.

È in questa situazione che De Gasperi si trova a fronteggiare la pressione di chi, ponendosi come obiettivo prioritario il rafforzamento del fronte anticomunista, non essendo più ripetibile il miracolo del ’48 (ovvero la trasmigrazione dell’elettorato conservatore verso le liste della Dc), propone la cooptazione «ufficiale» della destra in un unico blocco conservatore. La pressione viene da diverse parti: da settori dell’amministrazione Usa (siamo negli anni del maccartismo); da ambienti industriali e ancor più agrari; ma soprattutto da una parte delle gerarchie vaticane (il cosiddetto «partito romano», che faceva capo a monsignor Roberto Ronca11) e dallo stesso Pio XII. Il papa, come si sa, era fieramente anticomunista. E la cosa non stupisce, visti quali erano stati sin allora i rapporti fra Chiesa e comunismo e visto soprattutto il trattamento che il clero cattolico stava ricevendo nelle democrazie popolari. Anche De Gasperi, come si è visto, era anticomunista. Ed era anche un cattolico ortodosso, devoto al papa. Ma aveva forte il senso della sua autonomia politica, la consapevolezza della sua capacità di difendere i valori e gli interessi cattolici operando in un contesto pienamente democratico. Seguire la linea del blocco conservatore-autoritario avrebbe significato per lui non solo violare il patto costituzionale che aveva sottoscritto e che ancora odorava di inchiostro, ma anche contraddire la strategia centrista che mirava a raccogliere le forze moderate, cattoliche e laiche, sotto la guida della Dc. Al massimo era disposto a concedere qualcosa in termini di legislazione repressiva: in quel periodo si parlò di «democrazia protetta» e venne elaborato un pacchetto di misure, che, se applicate, avrebbero ridotto le libertà di stampa, di associazione, di manifestazione. Resta il fatto che nessuna di queste misure arriverà in fondo all’iter legislativo, salvo, paradossalmente, una: la legge Scelba, che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista. Legge di scarsa efficacia pratica, che però testimonia la volontà del gruppo dirigente Dc di tener ferme le premesse su cui è nata la repubblica, e insieme di difendere la formula centrista dalle insidie di chi la considera superata.

Il confronto arriva al suo punto cruciale nella primavera del ’52, nell’imminenza delle elezioni amministrative a Roma, previste per maggio. Per sventare l’ipotesi, che il Vaticano giudica intollerabile, di una vittoria delle sinistre nella capitale del cristianesimo, viene suggerita da oltre Tevere la formazione di una lista civica aperta alle destre e guidata – questa è la trovata geniale – da un antifascista di provata fede come don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito popolare. Anche su questa vicenda si sono scritti libri e saggi in quantità12. Ci si è chiesto fra l’altro come mai Sturzo si fosse prestato all’operazione poi passata alla storia col suo nome. Probabilmente Sturzo, che era pur sempre un prete, e un prete obbediente, e aveva qualche difficoltà a dire di no al papa, non aveva intenzione di fare davvero la lista civica, tant’è che aveva posto pregiudiziali insormontabili per l’adesione dei partiti di destra. Ma a far fallire l’accordo è soprattutto l’atteggiamento intransigente di De Gasperi e di tutto il partito, che in questo caso fa blocco attorno al suo leader. La Dc si presenta alle elezioni romane apparentata coi suoi alleati di centro e vince (anche se altrove le cose non vanno altrettanto bene). Resta una frattura nei rapporti fra il presidente del Consiglio e il papa, come si vedrà di lì a poco nel celebre episodio dell’udienza rifiutata. In giugno, a elezioni avvenute, De Gasperi chiede un’udienza privata al papa per sé e per sua moglie, nella ricorrenza del loro trentesimo anniversario di matrimonio, e per la figlia Lucia, che sta per prendere i voti. Il papa non gliela accorda e De Gasperi gli indirizza una lettera che è stata più volte citata come esempio di dignità e di fermezza da parte di uno statista cattolico: «Come cristiano accetto l’umiliazione, benché non sappia come giustificarla; come presidente del Consiglio italiano e ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento e dalla quale non mi posso spogliare anche nei rapporti privati m’impone di esprimere lo stupore per un rifiuto così eccezionale»13.

Fallita l’operazione Sturzo, resta il problema di come rafforzare e rivitalizzare la maggioranza centrista in vista delle politiche del giugno ’53. Scartata l’alleanza con le destre, scartate le forzature autoritarie, De Gasperi tira fuori quella che potrebbe essere la sua carta vincente, la modifica della legge elettorale in senso maggioritario. L’idea è semplice: assegnare un congruo premio di maggioranza non a una singola lista ma alla coalizione che già da sola raggiunga a livello nazionale la metà più uno dei voti. Una soluzione che aveva il vantaggio di favorire, assieme alla Dc, anche i suoi alleati. Allora la proposta di riforma provocò molte critiche e la durissima protesta delle opposizioni, che la bollarono col nome di «legge truffa» che poi le sarebbe rimasto attaccato. Ma si trattava davvero di una truffa? Oggi non lo diremmo, anche perché abbiamo votato nelle ultime elezioni politiche con un sistema premiale, senza nemmeno un quorum minimo così elevato. C’erano in verità alcuni punti discutibili in quella legge: primo fra tutti il fatto di essere stata concepita sulla misura della coalizione centrista (né la sinistra né la destra potevano aspirare al premio, né era pensabile che si coalizzassero). E poi c’era il precedente sinistro della legge Acerbo del ’23, che aveva permesso al fascismo di conquistare la maggioranza alla Camera (e prevedeva un premio di pari entità, anche se con un quorum molto inferiore). In realtà non sappiamo quali sarebbero state le conseguenze di lungo periodo della legge, se avesse funzionato: c’è chi sostiene che avrebbe stimolato l’evoluzione della sinistra e anticipato di molto i tempi dell’avvento di un sistema bipolare. Ma non sono i contenuti e le valenze della riforma14 che qui ci interessano.

Ci interessa invece capire per quali ragioni e con quali obiettivi De Gasperi adotta quello strumento. E qui bisogna tornare su alcune costanti del personaggio e del suo modo di operare. De Gasperi era, indiscutibilmente, un leader di partito. Ed era stato, nei due dopoguerra, un protagonista sia della prima (e sfortunata) sia della seconda (e duratura) esperienza di democrazia dei partiti in Italia. Ma non era solo, né soprattutto, un uomo di partito. Era piuttosto un uomo delle istituzioni: il centro della sua azione – e del sistema che aveva in mente – stava nel governo e nella maggioranza parlamentare. La vittoria straordinaria del 18 aprile gli aveva permesso, sia pur con molta fatica, di concentrarsi sulla guida dell’esecutivo e di concedersi anche una qualche libertà di movimento all’interno di una maggioranza dotata di margini abbastanza larghi. La legge maggioritaria doveva servire a riprodurre «artificialmente» quelle condizioni ora minacciate dall’avanzata delle destre (contro le quali era principalmente diretta). E doveva consentire a De Gasperi di rilanciare il ruolo del governo, che sarebbe stato investito in questo modo, anche se indirettamente, dalla legittimazione del voto popolare.

Questo progetto fallisce sul nascere. La coalizione dei quattro partiti «apparentati» (che nel ’48 avevano raccolto, separati, il 62% dei voti) ora manca, per un pugno di schede, l’obiettivo del 50% che sembrava largamente alla sua portata. È la prima vera sconfitta politica di De Gasperi nel dopoguerra e sarà anche quella definitiva, condita da non poche amarezze: in luglio la bocciatura alla Camera del suo ottavo governo, in settembre le numerose schede bianche (sulla cui provenienza ancora si discute) nella votazione al Consiglio nazionale Dc che lo nomina di nuovo segretario del partito. Insomma, con il 1953 finisce l’età degasperiana, finisce l’età del centrismo storico e finisce, nel partito, l’egemonia della prima generazione democristiana, quella degli ex popolari, mentre emerge la seconda, quella dei Fanfani, dei Moro, dei Rumor, dei Taviani, tutti formatisi nelle organizzazioni di azione cattolica e saliti sulla ribalta politica dopo il fascismo. Questo non significa che anche la vicenda politica di De Gasperi fosse necessariamente giunta a conclusione. In primo luogo, l’uomo non era poi così vecchio (nel ’53 aveva 72 anni), anche se era già malandato in salute per il peso di un decennio di attività incessante ai massimi livelli e di un’intera vita in cui non si era mai risparmiato: se non fosse morto nel ’54, sarebbe molto probabilmente diventato presidente della Repubblica un anno dopo, alla scadenza del mandato di Einaudi. In secondo luogo, il passaggio di consegne, pur segnato da qualche episodio oscuro (come il caso Montesi15), non fu traumatico né conflittuale. Anziché ostacolare l’avvento alla guida del partito di un nuovo gruppo dirigente, anziché battersi per la candidatura di un suo fedelissimo (per esempio, l’allora poco più che trentenne Giulio Andreotti, suo principale collaboratore ed efficientissimo braccio destro), De Gasperi decide di assecondare, e in qualche modo di benedire, la successione di Amintore Fanfani, già più volte ministro e leader della corrente di Iniziativa democratica dopo il ritiro dalla politica di Dossetti. Fanfani raccoglierà il testimone, nel congresso Dc del luglio ’54, dalle mani di un De Gasperi già molto malato. Nasce un partito diverso, più aderente al modello del partito di massa organizzato su base territoriale, più svincolato da quella rete di alleanze con i gruppi economici del settore privato e col notabilato liberale che De Gasperi aveva costruito, soprattutto dopo il ’47. Un partito forse più progressista, ma certamente meno liberale e meno laico. E la repubblica diventerà sempre più la Repubblica dei partiti, in forme diverse e più penetranti rispetto a quelle che De Gasperi aveva praticato.

Non posso concludere senza aver almeno accennato all’ultima, sfortunata battaglia che De Gasperi condusse, e che doveva rappresentare il coronamento di un altro suo impegno di sempre. Parlo della battaglia per un’Europa unita. De Gasperi, è quasi superfluo ricordarlo, viene oggi comunemente indicato come uno dei padri dell’unità europea, assieme a Konrad Adenauer e a Robert Schuman. Erano tutti e tre cattolici impegnati in politica, leader dei partiti democristiani dei loro paesi (la Dc, la Cdu e l’Mrp); tutti e tre erano (De Gasperi e Adenauer) o erano stati (Schuman) a capo del governo dei rispettivi paesi. Erano originari di zone di confine (il Trentino, la Renania, la Lorena: tra loro parlavano in tedesco) ed erano abituati a vivere e a risolvere pacificamente i problemi della convivenza fra popoli diversi. Dopo il disastro del secondo conflitto mondiale capiscono che è necessario uscire dalla logica dei nazionalismi e delle contrapposte politiche di potenza. Per De Gasperi, in particolare, l’unità europea è non solo lo strumento per reinserire definitivamente l’Italia nell’area più avanzata del continente, ma anche un mito positivo che, sostituendosi a quelli che avevano portato l’Europa alla catastrofe, può svolgere una funzione pedagogica per le giovani generazioni: «E se volete che un mito ci sia, ditemi un po’ quale mito dobbiamo dare alla nostra gioventù...? Volete il mito della dittatura, il mito della forza, il mito della propria bandiera, sia pur accompagnato dall’eroismo?». Così in un discorso pronunciato a Strasburgo nel settembre del ’5116.

Questo accenno al mito, insolito in un uomo concreto e antiretorico quanto altri mai, questo bruciare i tempi da parte di un uomo che abitualmente preferiva «il passo pesante del montanaro», è rivelatore della passione quasi visionaria con cui De Gasperi combatte la sua battaglia per l’Europa. Si spiega così il suo impegno per la realizzazione di un progetto audace, e per molti aspetti prematuro, come quello della Ced (Comunità europea di difesa), che prevedeva non solo la costituzione di una forza armata integrata fra i sei paesi membri della Ceca (e futuri partner della Comunità economica europea), ma anche, quasi come corollario, la nascita di una Comunità politica europea, qualcosa di molto simile a una struttura federale, con un Parlamento investito di poteri costituenti. Lo slancio iniziale che aveva portato i governi europei a sottoscrivere il patto, nel maggio del ’52, si esaurisce presto, per una serie di divergenze e di difficoltà pratiche, e anche per il mutare della situazione internazionale (con la fine della guerra in Corea e la morte di Stalin finisce la fase acuta della guerra fredda). Il 30 agosto 1954 il progetto della Ced è seppellito dal voto negativo del Parlamento francese.

A De Gasperi quest’ultima amarezza venne risparmiata. Undici giorni prima, la mattina del 19 agosto, era morto nella casa dove abitualmente passava le vacanze a Sella di Valsugana, a pochi chilometri dal paese dove era nato. La salma fu trasportata prima a Trento, dove ci fu un corteo funebre; poi a Roma, dove si tenne una messa solenne alla Chiesa del Gesù, accanto alla sede della Dc, poi portata ancora in corteo passando per via Nazionale e piazza Esedra, alla basilica di San Lorenzo, dove fu sepolta. Sempre con grande partecipazione di popolo. «L’Italia – ha scritto il biografo di De Gasperi, Piero Craveri – che negli anni aveva avvertito la sua diversità e sempre lo aveva rispettato, gli testimoniava ora la sua profonda riconoscenza»17. Una riconoscenza, aggiungo io, che non sempre gli aveva manifestato mentre era in vita.

Note

1 Sul periodo trentino di De Gasperi, si veda soprattutto P. Pombeni, Il primo De Gasperi. La formazione di un leader politico, il Mulino, Bologna 2007.

2 Su questo si veda il saggio di G. Formigoni, De Gasperi commentatore della politica internazionale, in E. Conze, G. Corni, P. Pombeni (a cura di), Alcide De Gasperi: un percorso europeo, il Mulino, Bologna 2005, pp. 169-193.

3 Su tutta la vicenda, si veda E. Forcella, La Resistenza in convento, Einaudi, Torino 1999, pp. 11-13.

4 G. Fanello Marcucci, Ivanoe Bonomi dal fascismo alla Repubblica. Documenti del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale (dicembre 1942-giugno 1944), Lacaita, Manduria 2005.

5 Si veda su questo il lungo saggio di G. Formigoni che funge da introduzione ai due tomi del vol. III (Alcide De Gasperi e la fondazione della democrazia italiana 1943-1948) degli Scritti e discorsi politici di De Gasperi, il Mulino, Bologna 2008, pp. 11-147.

6 Mi riferisco soprattutto a L. Valiani, L’avvento di De Gasperi: tre anni di politica italiana, De Silva, Torino 1949. Ma si veda anche la puntuale ricostruzione di A. Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla Liberazione al potere Dc, Laterza, Roma-Bari 1978, soprattutto i capp. II e III del vol. I.

7 C. Levi, L’orologio, Einaudi, Torino 1950, p. 146. Una valutazione equilibrata del passaggio è in R. Gualtieri, La nascita della Repubblica. Dibattito politico e transizione istituzionale (1943-1946), in G. Monina (a cura di), 1945-1946, Le origini della Repubblica, vol. II, Questione istituzionale e costruzione del sistema politico democratico, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 81-103.

8 Su questo punto, e sull’intera questione, si veda L. Elia, De Gasperi e la questione istituzionale, ivi, pp. 19-49.

9 Il racconto dell’allora ministro Mario Bracci, presente al colloquio, apparve su «Il Ponte» del luglio-agosto 1946 ed è citato da Gambino, Storia del dopoguerra, cit., pp. 231-232.

10 Giulio Andreotti, ad esempio, accenna a perplessità di Gronchi e di Sturzo non tanto sulla rottura in sé quanto sui modi e i tempi (G. Andreotti, Intervista su De Gasperi, a cura di A. Gambino, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 80).

11 Si noti che monsignor Ronca, in quel momento fierissimo avversario della linea degasperiana, era lo stesso prelato che, in quanto prefetto del Seminario Laterano, aveva nel ’43-44 organizzato, nella Roma occupata, l’accoglienza di molti politici antifascisti, fra cui lo stesso De Gasperi, di fatto salvando loro la vita: si veda in proposito, oltre al già citato Forcella, La Resistenza in convento, A. Riccardi, L’inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 32-35 e passim.

12 Cito almeno quello di A. D’Angelo, De Gasperi, le destre e l’«operazione Sturzo». Voto amministrativo del 1952 e progetti di riforma elettorale, Studium, Roma 2002.

13 L’appunto autografo di De Gasperi è stato pubblicato da Maria Romana Catti De Gasperi nella sua biografia del padre, De Gasperi uomo solo, Mondadori, Milano 1964.

14 Per questo si rinvia a G. Quagliariello, La legge elettorale del 1953, e a M.S. Piretti, La legge truffa. Il fallimento dell’ingegneria politica, entrambi pubblicati dal Mulino nel 2003.

15 Quella vicenda giudiziaria colpì indirettamente (e non fondatamente) il più autorevole fra i collaboratori di De Gasperi, Attilio Piccioni. Per questo si è spesso parlato di un suo uso politico, al fine di agevolare l’uscita di scena della prima classe dirigente democristiana, quella degli ex popolari. Sull’intera vicenda, si veda ora R. Grignetti, Il caso Montesi, Marsilio, Venezia 2006.

16 Il testo è in M.R. De Gasperi (a cura di), De Gasperi e l’Europa. Scritti e discorsi, Morcelliana, Brescia 1979, p. 119.

17 P. Craveri, De Gasperi, il Mulino, Bologna 2006, p. 636.