Leonie Charnock si ricordava di lui. In fondo era una buona notizia.
Roman non era molto sicuro del motivo che aveva causato una reazione così forte, ma in fondo non l'aveva mai capita. Leonie era stata incostante anche a diciassette anni.
Non era mai stata nemmeno un delicato fiore inglese, e quello era uno degli aspetti che aveva sempre ammirato, in lei. Era il tipo di donna che andava avanti a tutti i costi.
Non immaginava che avesse tanta forza. Conosceva uomini che non sarebbero riusciti a colpire così duro.
Si mise una mano sulla guancia e incrociò lo sguardo di una donna, il cui cipiglio dimostrava che aveva assistito all'attacco di Leonie e ne era rimasta sconvolta. Nessun altro sembrava essersi accorto dell'incidente, erano tutti più interessati al nuovo duca. Lo seguivano con lo sguardo mentre ballava e facevano commenti sulla sua grazia e altre sciocchezze.
«Ve lo meritavate?» lo apostrofò la donna.
«Esiste un uomo che si merita uno schiaffo?» ribatté Roman.
L'altra scoppiò in una risatina rauca, ma lui non indugiò a conversare e si mise in cerca di Leonie. Aveva un'idea di dove fosse andata.
Si fece largo tra la folla, sostenne un gentiluomo barcollante che aveva già bevuto troppo punch, schivò una signora che agitava con foga il ventaglio, in generale evitò di incrociare lo sguardo degli altri invitati e si diresse verso la sala in cui si giocava a carte.
Sperava che Leonie fosse corsa dal padre. Se si fosse rifugiata nella stanza riservata alle signore, non sarebbe stato facile parlarle.
Il fatto che dovessero parlare, possibilmente senza un'altra scenata, era ormai chiaro come il dolore alla guancia nel punto in cui lei lo aveva schiaffeggiato.
Entrò nella stanza piena di tavoli da gioco e la individuò subito. Suo padre era ancora al tavolo dove Roman lo aveva lasciato un quarto d'ora prima.
Appariva disperata, ma Roman e tutti i presenti sapevano che Charnock non avrebbe avuto tempo per lei fino a quando non avesse mostrato le sue carte.
Leonie lo scorse sulla porta e sollevò il mento. Le sue narici frementi e gli occhi scintillanti la facevano sembrare una giumenta rabbiosa e pronta a scalciare. Non aveva idea che quell'atteggiamento di sfida accentuava la sua bellezza.
La maturità aveva aggiunto un certo carattere al suo volto, ma gli attributi che Roman ricordava – la bocca generosa, gli zigomi alti e i capelli folti – erano rimasti gli stessi. A parte il seno, che sembrava più sodo, florido e seducente.
Dio, che stupido era!
Charnock giocò le sue ultime due carte con un gesto grandioso e raccolse in fretta il denaro dal tavolo. «Ero sicuro che avreste perso questo giro» dichiarò, tronfio, rivolto a uno dei giocatori. «Avete giocato le carte sbagliate, milord, mentre io avevo quelle giuste.» Scoppiò in una risatina astuta.
Lo sguardo di Leonie non si era mai staccato da Roman. Mentre lui si avvicinava al tavolo, lei batté un colpetto sulla spalla di Charnock. «Ho bisogno di parlarvi un momento, padre.»
Lui sollevò lo sguardo dalle vincite. «Non adesso. Non vedi che sono occupato? Ho avuto un colpo di fortuna.»
«Sì, adesso, padre. Per favore.» Si chinò su di lui per sussurrargli all'orecchio.
Roman si fermò a poca distanza e attese.
Aveva avuto a che fare con uomini come Charnock per gran parte della sua carriera militare, quindi non rimase sorpreso dalla sua risposta stizzita. «So che Gilchrist è qui, ma non è più un tenente. Ora è il Conte di Rochdale, un titolo molto importante.»
Leonie lanciò a Roman uno sguardo così incredulo da risultare quasi offensivo. I suoi occhi scuri lo esaminarono dalla testa ai piedi. La piega della bocca era più eloquente di mille parole.
Il padre però non era in vena di discussioni, soprattutto quando un altro dei giocatori, una vedova con una cuffietta di pizzo, si mostrò impaziente. «Allora, Charnock, volete giocare, o dobbiamo stare a sentire mentre cianciate con vostra figlia?»
«Certo che gioco.» Charnock lanciò uno sguardo accigliato a Leonie e rivolse a Roman un breve cenno del capo. «Balla con lui. In fondo siete vecchi amici...»
«State scherzando?»
«No» la interruppe il padre. «Comportati bene. Quello di Rochdale è un titolo importante, e Gilchrist mi ha già chiesto il permesso di corteggiarti.»
Leonie sgranò gli occhi, incredula. «E voi gliel'avete concesso?»
«Sì.» Charnock sussurrò qualcosa alla figlia e poi si raddrizzò. «Ora continuerò a giocare, perché non sta bene prendersi le vincite e andarsene» annunciò a voce più alta.
«È vero» convenne la vedova. Svuotò il suo bicchierino di sherry e ne chiese un altro, poi batté un colpo sul tavolo. «Forza, giochiamo.»
Charnock l'assecondò con prontezza, impilando tutto allegro le monete davanti a sé mentre venivano distribuite le carte.
Leonie rimase immobile per un momento, come intagliata nella pietra. Non era felice, era chiaro, ma poi si voltò lentamente verso Roman con aria rigida e riservata e cercò il suo sguardo.
Quante volte, in passato, l'aveva colta a fissarlo e si era chiesto a cosa stesse pensando?, si chiese Roman. I suoi occhi scuri potevano essere molto espressivi, ma anche freddi e impenetrabili come pezzi di carbone.
Si mosse verso di lui, e Roman si preparò all'incontro. Stava per ricevere un altro schiaffo?
Invece lei lo superò. «Il salone da ballo è qui accanto» mormorò senza fermarsi. Dava per scontato che l'avrebbe seguita, era chiaro, ma lui non ne aveva alcuna intenzione.
Poteva essere al verde, ma aveva il suo orgoglio, e sapeva bene che non gli conveniva lasciarle il controllo della situazione. Aveva imparato la lezione tempo prima. La guardò allontanarsi, chiedendosi quando si sarebbe accorta che non la stava seguendo.
Charnock sollevò lo sguardo dalle sue carte. «Non avevate detto che volevate mia figlia, milord?» Si riferiva alla conversazione che Roman era riuscito a strappargli prima che si sedesse a giocare a carte.
Roman non aveva usato mezzi termini: lui possedeva un titolo antico e rispettato, e Charnock aveva una figlia e un sacco di soldi. Prima di perdere tempo a parlare con lei, aveva preferito sondare il padre.
Aveva scoperto subito che Charnock avrebbe venduto la figlia al demonio, se ciò gli avesse procurato ciò che voleva. Il titolo di Conte di Rochdale suonava bene alle sue orecchie. Si era anche preso la briga di consultare i compagni di gioco sulla sua araldica, e il loro verdetto lo aveva spinto ad approvare la richiesta di corteggiamento di Roman.
«Forza, datele la caccia» lo incitò in tono annoiato. Gli altri giocatori parevano divertirsi un mondo. «È quello che facciamo noi uomini. O avete cambiato idea riguardo alla fortuna di mia figlia?»
«Forse sì» rispose Roman, freddo.
Dopotutto adesso era un conte. Inoltre sospettava che Charnock fosse coinvolto nella sua degradazione e nell'umiliazione subita in India. Quel bastardo poteva aspettare, e sua figlia poteva imparare le buone maniere.
Con una noncuranza che non provava affatto Roman si avviò nella direzione opposta a quella presa da Leonie. La porta sul fondo della stanza dava sull'atrio principale. Non sapeva bene come procedere, ma cominciava a pensare che sarebbe stato meglio nel suo alloggio in affitto, con un buon libro e un grog caldo, piuttosto che fare il tirapiedi di un'ereditiera viziata e del suo avido padre.
Aveva quasi raggiunto la porta quando si sentì chiamare.
Roman si fermò, si girò e vide Lord Erzy dirigersi verso di lui. Gli diede una pacca sulla spalla, come se fossero grandi amici, poi abbassò la voce. «Spero non siate qui a scommettere senza prima aver restituito a me e a Malcolm ciò che vostro zio ci doveva.»
«Alcuni pensano che i debiti di un uomo muoiano con lui» replicò Roman.
Sapeva che l'altro non si sarebbe lasciato smuovere, ma doveva almeno provarci.
«Questo non vale per i debiti d'onore» ribatté l'altro. «Naturalmente potete anche non pagarci, ma in tal caso farò in modo che veniate ignorato da qualsiasi persona importante. Tutte le porte saranno chiuse per voi, comprese quelle della Camera dei Lord. È davvero questo che volete, Rochdale, dopo che avete appena ereditato il titolo?»
No, Roman non aveva alcuna voglia di sentirsi di nuovo escluso. Gli era già successo per troppo tempo. «Comunque non ero qui per giocare. Non amo le scommesse» precisò.
«Peccato. Sono molto divertenti.»
«Non per me. E ora volete scusarmi, o intendete starmi dietro come uno strozzino?»
Erzy non gradì il termine dispregiativo. Increspò le labbra e si fece da parte.
Roman lanciò uno sguardo colmo di rimpianto all'atrio in cui voleva fuggire e si diresse verso il salone da ballo. Era proprio una serata nera: era stato preso a schiaffi, schernito e assillato perché pagasse i debiti dello zio, e non intendeva sopportare altro. Avrebbe ballato con Leonie Charnock, e lei avrebbe fatto meglio a comportarsi bene, perché non era in vena di subire altre angherie.
Nel salone la folla sembrava raddoppiata. Roman si fece largo tra gli invitati troppo eleganti, troppo profumati e già ubriachi, e si mise in cerca di Leonie.
Non impiegò molto tempo a individuarla: stava ballando con il Duca di Camberly, il nobile squattrinato che era sulla bocca di tutti e che aveva un disperato bisogno di una moglie ricca.
Camberly non faceva attenzione ai passi della danza, ma usava la propria altezza per sbirciare la scollatura di Leonie. Si leccava praticamente le labbra come se lei fosse una succulenta costoletta di agnello pronta a essere divorata.
Roman aveva dimenticato il potere della gelosia, ma ora lo ricordò, mentre un'ondata ribollente di scontento lo invadeva. Era una reazione immotivata, visto che Leonie non gli apparteneva, ma si avviò comunque verso le coppie che ballavano.
Leonie sapeva come fare un'uscita drammatica. Le donne avevano poche risorse per ribellarsi, o almeno le figlie. Sua madre invece tradiva suo padre a ogni occasione, anche se lui non sembrava curarsene.
Leonie sapeva che il padre avrebbe ignorato la sua uscita a testa alta, in chiaro segno di disapprovazione, ma Gilchrist no.
Avrebbe lasciato che la seguisse e alla prima occasione gli avrebbe fatto rimpiangere di averla avvicinata e invitata a ballare. Come osava? Lo avrebbe fatto a pezzi con la sua lingua tagliente, e lui sarebbe tornato di corsa ovunque fosse rimasto in tutti quegli anni.
Prima però doveva ballare con lui.
Le coppie si stavano preparando al ballo successivo. In genere erano i cavalieri a farsi avanti. Leonie si girò per informare Gilchri... no, Rochdale. Ora era il Conte di Rochdale.
«Milord, dovreste...» cominciò, gelida.
La sua boria si spense subito: lui non era lì.
Non l'aveva seguita! L'aveva invitata a ballare, aveva coinvolto suo padre e poi non l'aveva seguita?
Per un pericoloso istante Leonie pensò che gli occhi le sarebbero schizzati fuori dalle orbite per la rabbia nei suoi confronti.
Fece un passo verso la sala delle carte e strinse le mani a pugno con l'idea di trovarlo e trascinarlo a ballare, ma poi si fermò. Non poteva inseguirlo.
Toccava a lui accompagnarla, non a lei fargli da guida. Non avrebbe dovuto lasciarla sola. Le fanciulle nubili non erano forse fiori delicati da scortare e proteggere? Certo, i suoi genitori avevano altro da fare, ma un gentiluomo come il nuovo Conte di Rochdale avrebbe dovuto starle appiccicato dal momento in cui lei aveva acconsentito, sia pur di malagrazia, a ballare con lui.
E lei non lo avrebbe scovato per impartirgli una lezione sulle responsabilità di un gentiluomo, perché avrebbe preferito di gran lunga prendere uno dei vasi di cartapesta e spaccarglielo in testa.
L'immagine di Rochdale cosparso di colla e carta le diede un grande piacere, ma non servì a evocare la sua presenza dalla stanza in cui si giocava a carte.
Nessuno l'aveva mai piantata in asso nel bel mezzo di un salone da ballo.
Be', a parte i suoi genitori. La ignoravano sempre. Avevano grandi aspettative su di lei, ma non si preoccupavano molto del suo benessere.
Anche Gilchrist l'aveva lasciata sola, l'ultima volta che lo aveva visto. L'aveva accompagnata a casa e poi se n'era andato.
«Leonie.»
Il suono del suo nome la riscosse. Lady Dervish, l'amica di sua madre, si stava dirigendo verso di lei facendosi largo tra gli invitati con l'eccitazione di una chioccia che stava per deporre le uova. «Leonie, ti ho cercata dappertutto! Lui vuole assolutamente conoscerti.»
«Lui chi?»
«Il Duca di Camberly. Ha chiesto proprio di te e, visto che non riuscivo a trovare tua madre...»
«Naturalmente» mormorò Leonie.
«E non volevo disturbare tuo padre...» continuò Lady Dervish.
«Sì, è meglio non disturbarlo.»
«Ho pensato di portarti io dal duca» concluse l'altra prendendola a braccetto. «Mia cara, è delizioso. Molto educato. Ha detto di averti vista all'altro capo del salone da ballo e aspetta con ansia di esserti presentato.»
Di essere presentato a me e alla mia dote, avrebbe potuto precisare Leonie, ma tenne la bocca chiusa. Il duca l'aveva notata. Aveva segnato il primo punto nella gara di quell'anno.
E che Rochdale restasse pure a chiedersi dove fosse finita.
Mentre Lady Dervish la guidava verso il centro del salone da ballo non poté fare a meno di girarsi verso la stanza delle carte. Rochdale non si vedeva da nessuna parte, e Leonie si maledisse per averlo cercato con lo sguardo.
E così venne presentata a Camberly proprio nel momento in cui era pronta a sfidare le convenzioni.
Il duca aveva appena finito di ballare con la figlia di Lord Vetter, e la giovane sembrava sopraffatta dall'esperienza. Non era difficile capirne il motivo: visto da vicino il Duca di Camberly era ancora più bello. I suoi lineamenti classici contrastavano con la rude virilità di Rochdale.
I suoi occhi azzurri facevano pensare a un cielo estivo, il naso era forte, ma non troppo ingombrante, e le labbra ben disegnate erano perfette. Era giovane – doveva avere tre o quattro anni più dei ventitré di Leonie – forte e muscoloso. Il suo sorriso pronto dimostrava che si stava godendo la vita a pieno.
Come si poteva non apprezzarlo?
Inoltre, se l'avesse invitata a ballare, lei avrebbe segnato altri tre punti e dimostrato a Rochdale che non gliene importava niente, se avesse onorato o no la richiesta di danzare con lui. Aveva altri ammiratori. Ammiratori ducali.
«Vostra Grazia, posso presentarvi Miss Leonie Charnock?» chiese Lady Dervish in tono adulatorio.
Leonie non amava molto le riverenze, ma ne fece una molto profonda. Sapeva che così avrebbe offerto all'alto duca una vista eccezionale sui propri attributi. In genere non era vanitosa, ma il suo orgoglio femminile era stato ferito.
La risposta di lui contribuì a risollevarla. «Miss Charnock.» Il duca aveva una voce calda e profonda. Prese la sua mano infilata nel guanto e l'aiutò a rialzarsi. «Chi ha detto che la vostra bellezza era più abbagliante delle stelle non mentiva.»
Leonie soffocò in fretta una risata davanti a quella lode esagerata. Le pareva falsa e sciocca, soprattutto considerata la sua età. I vecchi signori le dicevano spesso simili stupidaggini, eppure il duca pareva sincero. Forse era timido? Poi ricordò che secondo Cassandra si considerava un poeta.
«Vostra Grazia è troppo gentile» si schermì. Avrebbe voluto ritirare la mano, ma lui continuava a stringerla.
«Non è gentilezza, è la verità. Ho sentito parlare molto di voi.»
E della mia fortuna.
Leonie fece del proprio meglio per apparire modesta e colpita dalle sue lodi, e ricordò a se stessa che gli uomini si aspettavano di rado una risposta, soprattutto di tipo cinico. Molto tempo prima la madre l'aveva ammonita a restare in silenzio quando si trovava con un gentiluomo. Tanto sarebbe giunto da solo alle sue conclusioni.
«Mi concedete l'onore del prossimo ballo?»
Quello che avrei dovuto fare con Rochdale? «L'onore è mio, Vostra Grazia.»
Lui non le aveva lasciato andare la mano e ora se la posò sul braccio. La condusse al centro del salone. Il peso del suo titolo fece sì che le altre coppie si scostassero per far loro posto.
La musica cominciò.
I gentiluomini si inchinarono, e le signore fecero la riverenza. Leonie desiderò con fervore che Rochdale la vedesse ballare e si mangiasse il fegato dalla disperazione per averla trascurata.
Quello sì che sarebbe stato un momento magnifico.
Era così presa dal suo immaginario trionfo che senza accorgersene strinse piano la mano del duca.
Lui inarcò le sopracciglia, e una luce da predatore si accese nel suo sguardo. Quando tornarono a toccarsi ricambiò la sua stretta con forza.
Leonie gli rivolse un sorriso raggiante, sapendo che da qualche parte nel salone le sue amiche stavano facendo i conti: un punto per la presentazione, tre per il ballo. Avevano notato la stretta delle dita? Non c'era un punteggio per quello, ma prometteva bene per una visi...
Inciampò quasi e non per goffaggine, ma perché il Conte di Rochdale era fermo ai margini del salone da ballo e non appariva affatto contento.
Anzi, la guardava come se le stesse lanciando una terribile maledizione. Non c'era da stupirsi che fosse inciampata.
In risposta alla sua aria cupa Leonie si fece fin troppo vicina al duca e gli sfiorò il fianco con il suo. Rochdale aveva notato quella mossa? Bene!
I passi del ballo cambiarono: adesso i gentiluomini dovevano mettere la mano sulla vita delle signore. La stretta del duca era forte e possessiva, e il suo sorriso diceva che si stava divertendo e che era ansioso che la danza li spingesse ancora più vicini.
In circostanze normali Leonie si sarebbe allarmata. Preferiva mantenere un certo controllo sugli uomini e usava la distanza per tenerli a bada.
In quel momento però la rabbia e l'orgoglio si unirono per spingerla a infrangere le regole, proprio come aveva fatto quella notte fatidica in India, tanto tempo prima. Allora Roman Gilchrist l'aveva fissata con aria torva mentre lei ballava con un altro uomo.
All'improvviso il passato divenne presente. Ricordi, errori e l'orrore di una notte terribile la investirono con tale forza che Leonie smise di danzare.
La debuttante accanto a lei non se ne accorse e le finì quasi addosso con un gridolino allarmato.
Leonie la guardò confusa, la mente persa in un momento che solo lei poteva vedere. Fece un passo indietro e urtò quasi la persona dietro di lei.
Il duca si fermò, e così tutti gli altri, nonostante la musica continuasse. Scoppiò il caos, ed era tutta colpa di Leonie.
«Mi dispiace tanto» mormorò a Camberly. «Non mi sento bene.» Si mise una mano sullo stomaco e senza attendere una risposta fuggì, lontana dall'inquietante presenza di Gilchrist.
La folla si divise per lasciarla passare. Il duca la chiamò, ma lei fuggì in corridoio, raccolse le gonne e si allontanò più che poteva dal salone da ballo. Aprì una porta e si ritrovò nella biblioteca del marchese.
Per fortuna la stanza era vuota. Una lampada era accesa, e varie sedie erano disposte intorno al camino spento. Leonie chiuse la porta, si appoggiò contro di essa, pregando che nessuno l'avesse vista entrare lì e poi cadde in ginocchio.
Non poteva tornare nel salone. L'umiliazione sarebbe stata insopportabile. Di certo tutti stavano parlando di lei, e suo padre si sarebbe infuriato.
I minuti passarono in un silenzio rotto solo dal martellare del suo cuore e dal respiro ansante. La mente continuava a lavorare frenetica. Si sentiva male.
Portò le mani alla fronte e sussultò, atterrita: alla luce della lampada sembravano coperte di sangue.
Dio santo, quella notte c'era stato tanto sangue! Aveva cercato invano di fermare l'emorragia e implorato Arthur di non morire, anche se gli aveva appena sparato. La cosa peggiore era stata vedere la luce della vita svanire dai suoi occhi. Riusciva ancora a ricordare le ultime parole che le aveva rivolto...
Qualcuno bussò alla porta. «Miss Charnock.»
Era Gilchrist. Il panico la fece schizzare all'altro capo della stanza. «Lasciatemi in pace!»
Per tutta risposta, come quella notte lontana, la porta si aprì, e lui entrò.
Gilchrist, l'unico a sapere cosa aveva fatto.