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Nonostante i costosi arredi della biblioteca del Marchese di Devon, entrare lì dentro ricordò a Roman il suo ingresso in un'altra stanza, lontanissima nello spazio e nel tempo. Quella stanza era stata squallida, e l'aria satura di natura selvaggia, sesso e sangue. In quel momento il passato oscurò il presente.

Con la saggezza acquisita in oriente, Roman capì che era destinato a trovarsi in quel luogo e in quel momento. Chiuse la porta.

«Apritela!» ordinò Leonie in tono imperioso. Nella sua voce però c'era una nota di paura.

Dunque non era l'unico a ricordare il passato. Anche quella notte lei era stata spaventata.

Leonie fece un altro passo indietro. Irradiava tensione, e sembrava star male.

«Leonie, lui meritava di morire.»

Lei scosse la testa con tale foga che qualche ricciolo sfuggì alle forcine.

«Quello che ha fatto Paccard era sbagliato. Voi avete solo cercato di proteggervi.» Aveva pronunciato le stesse parole la notte in cui l'aveva trovata con il corpo di Arthur Paccard, tra le rovine abbandonate del palazzo di un rajah nel profondo della foresta. Roman aveva cercato di raggiungere lei e Paccard, ma non era arrivato in tempo.

Nella vita non tutti i salvataggi avevano successo.

Leonie abbassò lo sguardo sulle mani, come se potesse vedere qualcosa che a lui sfuggiva, e le strofinò tra loro. «Non è morto subito.»

«Lo so.»

«Ci ha messo parecchio tempo, o almeno così mi è parso. Ho cercato di fermare l'emorragia.»

«Me lo ricordo.»

Le salirono le lacrime agli occhi. «E avete detto a tutti di avermi trovata sana e salva, prima che mi facesse del male. Avete raccontato di avere sparato ad Arthur in un duello che mi riguardava.»

Anche quello era vero.

«Se avevo ragione a difendermi, perché non avete raccontato a tutti che ero stata io a sparargli?» lo sfidò. «Perché avete sostenuto che Arthur fosse morto in un duello?»

«Era la cosa più semplice.» E le aveva anche salvato la reputazione.

«Ma così vi hanno incolpato» proseguì lei. «Tutti hanno pensato che aveste agito per gelosia, perché lo avevo preferito a voi. Hanno concluso che era morto perché lo volevate morto.»

All'improvviso Roman ebbe l'impressione che le pareti della stanza si richiudessero su di lui. Dunque Leonie sapeva.

«Non dobbiamo per forza parlarne.»

«Sì, invece. Sapevo cosa diceva la gente, ma non ho confessato la verità. Non ho avuto il coraggio di...»

«Avevate appena compiuto diciassette anni» la interruppe Roman. «Eravate giovane...»

«Ero abbastanza grande da sapere che non avrei dovuto comportarmi così, come mio padre mi ha ripetuto infinite volte, dopo quella vicenda. È convinto che il mio coinvolgimento nell'incidente sia la ragione per cui non è mai stato fatto cavaliere. Se sapesse la verità mi diserederebbe. Per lui valgo solo se riuscirò a sposare un nobile, ottenendo il titolo che non è mai riuscito ad avere. Se sapessero cos'è successo davvero, nessuno mi toccherebbe.»

«Allora non lo racconteremo.»

«Non capite. Non è così semplice.»

«Sì, invece.»

Quando era entrato nella biblioteca non aveva avuto intenzione di liberarla dal suo senso di colpa. Leonie era in debito con lui, ed era ora che lo ripagasse. Altrimenti avrebbe perso Bonhomie.

Davanti alla sua vergogna però si era ammorbidito. A quell'epoca era così giovane. Anche lui e Paccard erano giovani, due teste calde frustrate all'idea di ritrovarsi in India. La gara per conquistare l'attenzione di Leonie era stata accanita. In realtà non aveva avuto niente a che fare con lei, e tutto con il desiderio di sconfiggere il rivale.

Cos'avrebbe detto, Leonie, se avesse saputo che quella notte Paccard gli aveva lasciato un biglietto in cui si vantava di averla conquistata e che Roman si era messo alla loro ricerca per dimostrargli che si sbagliava?

«Mi avete salvata» dichiarò lei. «Se non foste arrivato in tempo, non so cosa sarebbe successo.»

«No, siete stata voi a salvarvi.»

Leonie non aveva mai considerato le cose da quel punto di vista.

In quel momento la sua unica preoccupazione era stata di impedire ad Arthur di farle del male. Fidandosi di lui aveva commesso un errore terribile. Avrebbe voluto tornare a casa, ma lui non glielo aveva permesso. Quando, attraverso le pieghe della coperta, aveva sentito la piccola pistola che Arthur era solito portare nella tasca della giacca, non aveva avuto in mente di ucciderlo, ma solo costringerlo a lasciarla in pace. Aveva cercato di riflettere, poi tutto era andato storto.

Anni prima si era fatta un'idea sbagliata di Arthur, reputandolo superiore a Roman. Era più raffinato, era stato in luoghi che lei poteva solo immaginare e le aveva prestato maggior attenzione.

Roman la trattava come se avesse diciassette anni e si fingesse più sofisticata di quanto non fosse davvero. E aveva ragione.

Una volta tornata a Londra con la famiglia, dopo aver passato gran parte della vita a Calcutta, Leonie aveva scoperto di sapere ben poco del mondo. In India aveva condotto una vita protetta. Era stata una delle poche donne bianche vicine all'età da marito, il che l'aveva messa al centro dell'attenzione. Aveva dato per scontato che tutti avessero a cuore i suoi interessi. Era stata talmente ingenua...

Arthur le aveva insegnato che i pericoli potevano essere dappertutto, anche in un salone da ballo.

Allungò una mano e toccò le pesanti tende di velluto. «È stata dura per voi, in India, dopo la partenza della mia famiglia? Mio padre mi ha assicurato che sarebbe andato tutto bene. Sosteneva che gli ufficiali si sfidavano a duello di continuo, ma io ho udito voci che vi riguardavano. E adesso non ditemi qualcosa di nobile, tipo che siete felice di avermi aiutato, o sciocchezze del genere! So bene che siete stato accusato di avere sparato ad Arthur in un attacco di gelosia.»

«Ho affermato che era stato lui a sfidarmi e che pertanto non potevo rifiutare di battermi a duello. Voi e io eravamo gli unici presenti.»

«E io sono partita per Londra.»

Roman assentì. «Non avevo scelta. Ho agito per difendermi. Ecco cos'ho raccontato.»

Il suo tono era teso, e Leonie capì che non era filato tutto liscio. «Avrei voluto partecipare all'udienza, ma i miei genitori mi hanno imbarcata sulla prima nave che partiva dall'India.»

«Meglio così. Se aveste parlato, stasera non sareste tra gli invitati a questo ballo.»

Leonie avvampò. Gilchrist aveva ragione. I genitori le avevano ingiunto di non confessare a nessuno che era scappata con Paccard.

Ogni tanto la storia riemergeva, ma in genere bastava una parola del padre per soffocare le voci. Naturalmente lui non poteva controllare i ricordi di Leonie, o gli incubi che la tormentavano. Solo un goccetto di brandy era capace di farlo.

In quel momento ne avrebbe tanto voluto uno. Si guardò intorno nella biblioteca: c'erano diverse caraffe su un tavolo pieno di soprammobili, ma non poteva certo bere di fronte a Roman. Chissà cos'avrebbe pensato se l'avesse vista portarsi la bottiglia alle labbra per un rapido sorso? Non avrebbe capito. Nessuno era in grado di farlo.

La guardava con intensità, come se stesse soppesando nella mente una questione importante, e quell'atteggiamento la innervosiva. Leonie si rese conto di conoscerlo poco. Anche anni prima era stato un vero mistero.

Sorrise, ansiosa di andarsene, ma prima che potesse parlare lui ruppe il silenzio. «Noi ci sposeremo» proclamò.

Leonie trasalì, chiedendosi se avesse udito bene. «Come avete detto?»

«Mi avete sentito. Sono venuto a questo ballo per cercarvi. Avevo l'intenzione di corteggiarvi, ma non ho tutto il tempo necessario.»

«Voi volete... sposarmi?» ripeté Leonie confusa. «Nutrite ancora dei sentimenti per me, dopo tutti questi anni? Non mi sembrate affatto innamorato.»

«Non lo sono» ammise Roman.

«Allora siete sopraffatto dal desiderio?»

«Siete molto graziosa.»

«Lo dite con la stessa passione con cui il nostro maggiordomo annuncia che la cena è servita.»

«È opinione diffusa che siate una bellezza. Insolita ed esotica, certo, ma comunque attraente.»

«Dunque adesso sono passata da graziosa ad attraente? Posso immaginare le poesie che scrivereste su di me: I vostri occhi sono stati paragonati alle stelle, ma ora assomigliano a due sassolini nel giardino del villaggio...»

A suo credito, un accenno di sorriso sfiorò le labbra di Roman. «Non scrivo poesie. Non dovete preoccuparvi che vi paragoni a dei sassolini.»

«Molto rassicurante.» Il respiro e il battito del cuore erano tornati al ritmo normale, e la stanza intorno a lei non conteneva più ogni tipo di orrori. Ormai aveva affrontato il peggio. «Ho sempre temuto che prima o poi avrei dovuto espiare per ciò che ho fatto quella notte. Non so cosa sarebbe successo se voi non vi foste addossato la colpa. Avevate capito il prezzo che avrei dovuto pagare.»

Lui inclinò la testa in segno di riconoscimento per quell'ammissione.

«È importante per me vedere che ve la siete cavata così bene» continuò Leonie. «Anche se diventare conte non è una ricompensa sufficiente per ciò che avete fatto per me.»

Erano parole gentili, benevole e umili. Leonie si sentiva soddisfatta di se stessa. «Ciononostante non posso accettare la vostra proposta di matrimonio» riprese, mantenendo un tono cortese. In realtà più che un'offerta, quello di Roman era stato un annuncio. «Non siete voi il problema, milord» aggiunse. In fondo, se c'era qualcuno che meritava una spiegazione, era lui. «Io non voglio sposare nessuno.»

Ecco, aveva rivelato il suo segreto.

«Allora perché siete qui, stasera?» chiese Roman.

«Dovete proprio ribattere a ogni cosa che dico?» sbottò Leonie.

«Pare di sì.»

«Sono qui per la stessa ragione per cui tutte le altre giovani della mia età sono qui» sbuffò, frustrata. «Per via dei miei genitori. Hanno complottato per combinarmi un buon matrimonio fin da quando ero nella culla. È l'unica cosa su cui vanno d'accordo. Se dicessi loro cosa voglio non mi ascolterebbero. Per fortuna l'anno scorso sono stata lasciata da un duca, e questo agli occhi di alcuni mi ha reso merce usata.» Pensò a Camberly. «Ovviamente i miei genitori potrebbero ancora cercare di farmi diventare duchessa, e in questo caso sarei costretta a soffrire fino a quando mio marito non si sarà stancato di me.»

«Soffrire?»

Leonie incrociò il suo sguardo perplesso. «Sapete a cosa mi riferisco. Quella cosa degli uomini.»

«Quella cosa degli uomini» ripeté Roman. «No, non capisco. E perché volete soffrire per tutta la vita?»

Lei sbuffò di nuovo, esasperata. «Non desidero soffrire per tutta la vita. È proprio per questo che non intendo sposarmi. Voglio qualcosa di più dalla vita.» E voleva controllare quel qualcosa in più.

Lui parve sconcertato. «Avete appena detto di non volere sposare nessuno, eppure siete disposta a diventare la moglie di Camberly?»

Leonie incrociò le braccia al petto. «Penso di sì. Così diventerei duchessa.»

«È questo che volete dalla vita?»

«È ciò che vogliono i miei genitori.»

«Camberly ha quella cosa degli uomini

Tale dichiarazione la colse di sorpresa. «Come?» La stava prendendo in giro?

Roman, però, sembrava serio. «Avete detto che non volevate quella cosa degli uomini, e io vi ho fatto notare che Camberly ce l'ha. O almeno credo. Non lo so di sicuro, ma la maggior parte degli uomini ce l'ha.»

«Peccato!» scattò Leonie.

«Avete detto di essere disposta ad accettare la cosa da uomini di un duca, ma come fate a sapere che quella di un conte non sia migliore?»

«Perché è un duca.»

«E se il duca non sapesse come usarla? È questo che intendevate parlando di soffrire per tutta la vita?»

Leonie lo avrebbe volentieri preso a schiaffi un'altra volta, ma il polso le faceva ancora male. «Non vi trovo divertente.»

Lui si strinse nelle spalle con aria ragionevole. «Siete stata voi a tirar fuori l'argomento della cosa degli uomini» le fece notare.

Lei strinse i denti. «Dubito che stiamo parlando della stessa cosa.»

«Qual è l'argomento, allora?»

Leonie si sarebbe messa a urlare. Ora ricordava perché aveva preferito Arthur Paccard a Roman. Arthur era raffinato e leggero, Roman sempre serio. Una volta le aveva fatto capire di ritenerla immatura, un commento che l'aveva fatta infuriare. Anche a diciassette anni aveva saputo cosa voleva e non aveva mai apprezzato chi sosteneva il contrario.

D'altra parte, quando Roman l'aveva sorpresa con Arthur non era mai stata così felice di vedere qualcuno. Era stato il suo salvatore. Cambiò argomento. «Allora, volete ballare o no?»

«Accettate la mia proposta di matrimonio?»

«Oh, insomma siete davvero incredibile! Mi sono sforzata di essere il più gentile possibile, milord, eppure ora non mi lasciate altra scelta se non essere franca.»

«Ho sempre preferito la vostra franchezza alla gentilezza, Miss Charnock» replicò lui in tono altrettanto formale.

Leonie gli avrebbe dato una bella tirata d'orecchie. Rendeva tutto difficile di proposito. «Grazie dell'offerta, ma non vi sposerò» ripeté.

Lui non pareva affatto scoraggiato. «Oh, sì, invece» ribadì, invece del solito discorsetto per accettare con grazia il suo rifiuto. «Siete in debito con me, Leonie. Aver mentito per voi mi è costato la carriera militare. L'esercito non apprezza i duelli tra ufficiali, neanche per questioni d'onore. È venuto il momento di ripagare il vostro debito. Ho bisogno della vostra dote.»

La fitta di delusione la confuse. Sapeva che tutti, compreso Camberly, erano interessati solo alla sua dote, eppure, contro ogni logica, si aspettava una minima finzione da parte di Roman. Invece lui si comportava come se fosse una transazione d'affari. Il matrimonio era così, lo sapeva, eppure trovava il suo atteggiamento a dir poco offensivo.

«Capisco» convenne con finta noncuranza. «Per voi sono solo una borsa piena di soldi.»

«Be', ci sono anche i vostri sassolini. Anch'io ho quella cosa degli uomini, sapete.»

«Allora fareste meglio a stare attento, perché potrebbe cadere, a furia di venir trascurata» replicò Leonie, imitando la sua finta serietà.

Roman ridacchiò, e quell'espressione cambiò il suo viso. Ora appariva più giovane e rilassato. Quando abbassava la guardia nessuno lo batteva in quanto a fascino.

La porta della biblioteca venne aperta da una giovane donna ridente inseguita da un nobile che le cingeva la vita con le braccia. La luce entrò dal corridoio, mentre la coppia si fermava di colpo, sorpresa di trovare la stanza occupata.

«Oh, mi dispiace» si scusò il gentiluomo, mentre la donna scoppiava in una risatina.

Leonie approfittò dell'interruzione per andarsene. «Non c'è problema» si affrettò a rassicurarli. Attraversò la stanza e aggirò la coppia. «Stavamo discutendo di una cosa, ma ora devo tornare nel salone da ballo.» Si avviò rapida in quella direzione. C'erano altre coppie in corridoio, avvinte con la foga degli amanti. Il punch del marchese aveva un effetto potente. Leonie le superò distogliendo lo sguardo.

Aveva raggiunto la porta del salone da ballo quando percepì, più che sentire, la presenza di Roman alle proprie spalle. Lui le mise una mano sul gomito. «Ora richiederò il mio ballo.»

Leonie avrebbe potuto rifiutare, oppure concedergli un po' del proprio tempo come offerta di pace.

«Va bene» acconsentì prendendo la mano che le tendeva. Non lo guardò, ma era più consapevole che mai della sua vicinanza.

«Potreste sorridere» le sussurrò mentre prendevano i loro posti per la nuova danza.

Lei obbedì, abbozzando una maschera di falsa dolcezza. Roman alzò gli occhi al cielo per farle capire che non ci era cascato.

Quell'uomo era una vera spina nel fianco. «La maggior parte degli uomini non avrebbe voglia di ballare con la donna che ha appena rifiutato la loro proposta di matrimonio, per quanto interessata» osservò Leonie, acida.

«Interessata? Voi mi ferite, Miss Charnock.»

«Non sembrate affatto ferito, milord.»

I loro sguardi si incontrarono. Gli occhi di Roman erano di un grigio argenteo che faceva pensare alle monete o ai fulmini. Quando si erano conosciuti, Leonie aveva pensato che fossero gli occhi più insoliti che avesse mai visto. Occhi che potevano rivelare tutto, o niente. In quel momento non rivelavano alcunché, se non il blando divertimento di un gentiluomo in attesa di ballare con una signora.

La musica cominciò. Leonie amava danzare e si perdeva facilmente nel ritmo e nei passi dei balli, ma stavolta si ritrovò a osservare Roman.

Era un uomo orgoglioso. In India diversi altri ufficiali avevano accennato alle sue umili origini. No, in realtà era stato soltanto Arthur a parlarne. Non voleva che guardasse gli altri uomini, e lei non lo faceva, almeno, non apertamente. Leonie aveva comunque notato il nuovo, giovane tenente, e aveva provato una certa attrazione nei suoi confronti, soprattutto perché cominciava a stancarsi della meschina gelosia di Arthur.

A essere sincera non sapeva perché si fosse lasciata convincere a fuggire con lui. Adesso sembrava un'idea stupida, ma allora si era lasciata travolgere dall'eccitazione di sentirsi desiderata.

Leonie si rendeva conto di aver desiderato l'attenzione altrui per tutta la vita. I genitori erano presi dalle loro battaglie e assorbiti dalle loro vite. A quell'epoca, litigavano per la relazione della madre con un contabile. Non si rivolgevano quasi la parola, e tanto meno parlavano con la loro figlia.

Arthur le aveva offerto la libertà da quel mondo, e lei aveva colto al volo la possibilità di fuggire.

Lanciò un'occhiata a Roman. Ballava bene, lo ricordava dal passato. Se n'erano accorte anche le altre signore vicino a loro. Se avesse dovuto scegliere tra lui e Camberly, probabilmente avrebbe scelto Roman.

Lui notò il suo sguardo e le sorrise, proprio mentre i passi della danza li obbligavano a darsi le spalle, e Leonie fu colta da un pensiero che non aveva mai preso in considerazione. Rimase così stupita da sbagliare il passo successivo. Riuscì a riprendersi, ma non vedeva l'ora che la musica finisse.

Roman si inchinò sulla sua mano. «Grazie per questo ballo.»

Leonie non usò mezzi termini. «Perché avete seguito Arthur e me, quella notte? Come facevate a sapere dov'eravamo? Cosa vi ha spinto a cercarci?» chiese.