A fine maggio del 1992 la Repubblica italiana aveva cambiato Presidente. Un mese dopo cambiò governo: avvenimento questo che per decenni aveva prodotto solo lievi increspature sulle acque della politica. Ma era sopravvenuta una nuova stagione, ben diversa dalle precedenti. E il cambio di governo significò anzitutto un congedo di Andreotti che, dopo tanti arrivederci, questa volta era veramente un addio. Aveva perso l’estrema occasione che gli si era offerta per insediarsi al Quirinale, ora usciva da Palazzo Chigi. Dove sarebbe dovuto rientrare, se il Pio Albergo Trivulzio non avesse scombinato i patteggiamenti tra democristiani e socialisti, Bettino Craxi. A quel punto Mario Chiesa non aveva ancora rivelato nulla che coinvolgesse penalmente il leader socialista in Tangentopoli. Ma lo si sapeva legato da frequentazioni personali, oltre che da vassallaggio politico, alla famiglia Craxi. L’ombra della Baggina oscurava via del Corso, dov’erano gli uffici romani del PSI, e l’uomo di Sigonella non era riproponibile come capo dell’esecutivo.
Se non di esserlo, Craxi era tuttavia ancora in grado di designare il Presidente del Consiglio: e avanzò una terna di nomi, Amato, De Michelis e Martelli. Il preferito di Craxi – che fu anche il preferito di Scalfaro – era Giuliano Amato. Una buona intuizione, anche se dettata a Craxi, probabilmente, più da motivi di partito o personali che da una premonizione sul dilagare di Mani pulite. Per il suo delfino d’un tempo, Martelli, il segretario dei PSI aveva maturato una diffidenza assai simile all’avversione. Gli rimproverava posizioni troppo autonome e troppo critiche, e in buona sostanza il tentativo di scalzarlo. E infatti tra i due sarà da quel momento in poi un susseguirsi di punzecchiature quando non di stilettate, con Martelli che si atteggerà a vessillifero d’un PSI rigenerato e senza padri-padroni. Finché i giudici di Mani pulite metteranno d’accordo i contendenti alluvionandoli di accuse e inducendoli a chiamarsi fuori dall’arena politica.
Amato – cinquant’anni, nato a Torino ma di famiglia siciliana (come Craxi), studi di giurisprudenza alla Normale di Pisa – era detto «il dottor sottile» sia per l’abilità dialettica, sia per la competenza professorale in tema di leggi e di istituzioni, sia per il fisico minuto, gli occhiali a mezzo naso, il profilo puntuto. Oltre che come dottor sottile fu anche conosciuto, grazie ai caricaturisti, come Topo Gigio, il che non pregiudicò la sua popolarità, anzi. Nel PSI Amato era stato una sorta di padre Giuseppe, ammesso che Craxi possa meritare il paragone con il cardinale di Richelieu: sommesso, dimesso, influente, abile. Ma non tanto da evitare a Craxi errori marchiani. Quello di Amato fu ancora un quadripartito (DC, PSI, PSDI, PLI) con otto Ministeri in meno (tre cancellati e cinque accorpati) e sette tecnici cooptati per attenuare l’impronta politica. Martelli rimase alla Giustizia, Vincenzo Scotti passò dall’Interno agli Esteri, e all’Interno Nicola Mancino prese il suo posto, il PLI sfoderò un nome di richiamo, quello di Raffaele Costa, il grande epuratore, relegato peraltro alle Politiche comunitarie e agli Affari regionali, e riesibì purtroppo, alla Sanità, Francesco De Lorenzo. Tra i tecnici furono Piero Barucci al Tesoro e alla Funzione pubblica e Giuseppe Guarino alle Partecipazioni statali: entrambi di «area» DC, ma presto in conflitto sulle privatizzazioni, che dovevano essere uno dei cavalli di battaglia del governo: e che Barucci voleva davvero, mentre Guarino dava loro la sua approvazione purché non si facessero. Infine esordiva come Ministro dei Beni culturali Alberto Ronchey, giornalista e scrittore dal prestigioso palmarès professionale, e dalla grande penetrazione e preparazione. Il povero Fortebraccio gli aveva affibbiato l’ironico appellativo d’«ingegnere», per il suo puntiglio nel citare fatti piuttosto che affastellare chiacchiere, e miglior elogio non poteva fargli.
Uno dei Ministri – addirittura il titolare del dicastero più illustre, quello degli Esteri – Vincenzo Scotti, abbandonò quasi subito la barca di Amato. Un’assemblea della DC aveva infatti stabilito che vi fosse incompatibilità tra gli incarichi governativi e quelli parlamentari: ukase questo che il dimissionario ma non rimpiazzato segretario Forlani era risoluto a far rispettare. Scotti, posto di fronte al dilemma, ritenne di non dover lasciare il parlamento. Gesto che fu allora ritenuto singolare ma che – visto come le cose sono poi andate a Napoli, tra i politici – poté essere dettato dalla prudenza. Alla Farnesina fu mandato in sua vece il sempre disponibile Emilio Colombo. Ma la maggior croce di Amato – che con molto fiuto, pur tributando a Craxi le solidarietà inevitabili, andava sbiadendo il suo marchio socialista per sottolineare il suo ruolo istituzionale – non era la politica estera, e nemmeno Tangentopoli.
La maggior croce di Amato era l’economia, così mal ridotta che in autunno il governo dovette alzare il tasso di sconto e abbandonare lo SME, del resto agonizzante per conto suo. Correvano voci allarmistiche su un consolidamento del debito pubblico e sul congelamento dei conti bancari, la Lega attizzava il fuoco delle inquietudini invitando gli Italiani a disertare i titoli di Stato e a investire all’estero. Ci fu chi prospettò – insieme a sanzioni giudiziarie contro queste sortite leghiste che attentavano alla spirale d’indebitamento da cui lo Stato rischiava d’essere strozzato, ma su cui si reggeva – lo spettro della guerra civile. Era uno spettro più impressionante che temibile. Gli Italiani che votavano Lega perché non sopportavano più il disastro gestionale e morale cui la dirigenza politica aveva portato l’Italia, conservavano la loro fiducia ai BOT: e le aste successive alla campagna per il boicottaggio dei titoli pubblici – che somigliava molto a un preannuncio di secessione – ebbero accoglienza favorevole da parte dei risparmiatori. Lo Stato non piaceva, sgangherato com’era, ma finché pagava buoni interessi veniva ritenuto, come debitore, solvibile. Nel contempo, per una stravaganza della storia, il parlamento più squalificato che la Repubblica avesse mai avuto dava prova di operosità, varando leggi importanti, tra le altre quella sul voto delle amministrative, congegnato in modo tale da vanificare il referendum richiesto, in proposito, da Segni: legge che prevedeva una chiamata alle urne a doppio turno, e che avrebbe finalmente consentito ai cittadini di designare i sindaci delle loro città.
Non bastava certo questo per riabilitare un parlamento non solo distaccato dal Paese ma disprezzato dal Paese. E qualche assaggio d’elezioni amministrative in autunno suonò a morto per il parlamento e per i partiti «storici». In particolare a Mantova, dove si votò per la provincia, la Lega balzò al 34 per cento, mentre la DC precipitava dal 27 per cento delle precedenti provinciali al 14, il PDS dal 32 del PCI a meno del 18 (con in più un 6,7 a Rifondazione comunista), il PSI dal 14,5 al 7,2. Una Lega alpina promossa dal cognato e dalla sorella di Bossi in concorrenza con lui riuscì a prendersi il 6,7 per cento, quanto Rifondazione comunista e quasi quanto il PSI. Un cataclisma locale, che ne lasciava presagire altri (vennero presto, di segno identico), e che soprattutto era l’avvisaglia del terremoto nazionale da tutti atteso per il giorno in cui l’intero Paese fosse stato riportato alle urne per le politiche. Dal k.o. di Mantova la DC si risollevò stordita: con la consapevolezza di dover riporre nei suoi archivi i nomi della nomenklatura cui si era affidata, senza mai fidarsene del tutto, per una troppo lunga stagione politica italiana. La faccia nuova cui il Consiglio nazionale dello scudo crociato consegnò, il 12 ottobre 1992, le redini, era una faccia abbastanza vecchia, un po’ sghemba e butterata, ma per bene: la faccia di Mino Martinazzoli, leader bresciano della DC in perenne contesa con Prandini, un Ministro cui con facile giuoco di parole era stato affibbiato il nomignolo di «prendini», volendosi così alludere alle sue presunte – ma dalla magistratura segnalate – disinvolture. Uomo della sinistra, Martinazzoli aveva dichiarato solennemente che al compimento del sessantesimo anno d’età si sarebbe ritirato dall’attività politica. Era una promessa da marinaio, e se preferite da avvocato: che è la professione di Martinazzoli, benché lo caratterizzi un eloquio aggrovigliato, cui non giova la voce cavernosa.
«L’elezione [di Martinazzoli, N.d.A.] avviene» ha scritto Giorgio Galli nel suo Mezzo secolo di DC «per acclamazione e con una procedura inusitata, inventata dal presidente del Consiglio Nazionale, De Mita, che si dimette mentre le dimissioni di Forlani non vengono nemmeno discusse. Martinazzoli pronuncia un breve discorso, senza indicare una linea politica e solo impegnandosi a modificare l’immagine della DC, perché i suoi iscritti non si sentano più dare del ladro.» Alla presidenza del Consiglio nazionale fu designata Rosa Russo Jervolino che assommò questo incarico a quello di Ministro dell’Istruzione pubblica: e che fu privilegiata dall’essere donna, perché quella DC in ansiosa ricerca del tempo perduto guardava molto alla componente femminile della sua dirigenza e del suo elettorato. Non per niente Rosy Bindi, giovane europarlamentare veneta, pasionaria della sinistra cattolica, vergine come Giovanna d’Arco e determinata come una lanciatrice di peso bulgara, è stata l’astro nascente nel firmamento appannato della DC. Che a Martinazzoli, «l’uomo limpido e diritto, libero e intenso», diede un’investitura plebiscitaria, suggellata da battimani interminabili. Non che Martinazzoli – che riserva le sue notevoli doti d’umorismo per il privato, ma in pubblico è spesso d’una tetraggine quasi luttuosa – fosse proprio un araldo dell’ottimismo. Di sé aveva detto «sono un segretario eletto per disperazione» e del partito «è un cimitero». «Sono qui» aveva anche osservato «per trasformare la paura in coraggio.» Martinazzoli aveva preso con chiarezza le distanze dalle malefatte del passato, ma esprimeva più d’un dubbio sulla imparzialità dei magistrati: «C’è qualche procuratore della Repubblica che è inquieto se ogni giorno non ha mangiato un democristiano o un socialista».
L’ago della bussola di Martinazzoli fu per qualche tempo molto oscillante. I partiti erano attesi dalla grandine referendaria del 18 aprile 1993, cui abbiamo già fatto riferimento occupandoci della preferenza unica e delle norme contro la droga: perché tra i referendum era appunto compreso quello – in un primo tempo, come sappiamo, non ammesso dalla Corte costituzionale – che instaurando il sistema maggioritario per il Senato, rivoluzionava il meccanismo elettorale, e apriva la strada a un’analoga riforma per la Camera dei deputati. La DC tentò di frenare questo processo quindi si convertì ad esso tra i mugugni di molti suoi notabili. Martinazzoli sapeva che un’epoca era finita: quella in cui la DC interclassista e omnicomprensiva, resa forte dal suo anticomunismo e dalla sua matrice confessionale, ospitale per i conservatori come per i cattocomunisti, poteva permettersi il lusso di un’ecumenica ambiguità. Questa caratteristica, fisiologica in un partito con il 40 per cento dei voti, diventava patologica in un partito che ne ottenesse la metà. Martinazzoli aveva un passato di militante della sinistra democristiana, ma si rendeva conto del baratro che avrebbe potuto spalancarsi davanti alla DC se avesse fatto passi imprudenti. L’assemblea che aveva convocato per fine luglio del 1993 approvò il nuovo nome della DC – anche in questo caso il nuovo era piuttosto vecchio, Partito popolare italiano, un ritorno al prefascismo e a don Sturzo – e per il resto diede pieni poteri al segretario: che citò proprio don Sturzo, nella sua relazione, per dire che «il programma si vive, non si inventa». Formula che gli evitava d’essere troppo esplicito. Lo fu, tuttavia, nel precisare che contro il PDS non esistevano più preclusioni: «significherebbe la sopravvivenza di una storia oltre se stessa».
Attorno a Craxi si stava facendo il vuoto. I topi – che erano stati tanti, e famelici – fuggivano dalla nave alla deriva del segretario socialista: sul quale si abbatté, il 15 dicembre 1992, il siluro d’un avviso di garanzia per i reati di concorso in corruzione, ricettazione, e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Era il primo avviso scagliato direttamente contro il leader socialista che ripeté il suo slogan sull’«aggressione politica» di cui i giudici si sarebbero resi strumenti. Ma nessuno gli credette. Nelle sue ultime convulsioni di segretario condannato ad andarsene difese la proporzionale, attaccò gli imminenti referendum – la lezione della preferenza unica non gli era bastata – e annunciò che per la riforma del Senato avrebbe votato no. Associandosi così a Rifondazione comunista e alla Rete che erano orientate allo stesso modo (sorprendente, anche se dal personaggio era lecito aspettarsi tutto e il contrario di tutto, il voltafaccia di Leoluca Orlando che, appunto con la Rete, si era addirittura adoperato per la raccolta di firme in favore del referendum). In febbraio, mentre alla frontiera di Ventimiglia era arrestato Silvano Larini, depositario di molti segreti craxiani, veniva convocata, per eleggere il nuovo segretario, l’Assemblea nazionale del PSI. Uscì il nome di Giorgio Benvenuto, sindacalista di lungo corso alla UIL, presto dimissionario e rimpiazzato da un altro sindacalista, Ottaviano Del Turco, che nella CGIL aveva rappresentato la componente socialista: entrambi smarriti tra le rovine del tempio che Sansone Craxi aveva travolto nella sua rovina.
Nessun segretario dei partiti di governo scampò del resto alla catastrofe: non Giorgio La Malfa – che affidò il «testimone» repubblicano al «reggente» Giorgio Bogi; non Vizzini, ultimo d’una lunga serie di segretari socialdemocratici incriminati, alla cui successione fu designato un ex magistrato – ed ex segretario dell’Associazione nazionale magistrati – Enrico Ferri; non Renato Altissimo, che s’era atteggiato a liberal di stampo anglosassone piuttosto che a liberale, in nessuna delle due vesti ideologiche preservando il PLI dalle vergogne di Tangentopoli (e il suo posto era stato preso da Raffaele Costa).
Il 18 aprile 1993 gli Italiani furono chiamati a pronunciarsi, l’abbiamo ripetutamente accennato, su otto referendum: di assoluto spicco politico e sociale quelli sulla riforma elettorale del Senato (quasi l’83 per cento in favore della riforma) e sulla non punibilità penale dell’uso di droga (55 a favore, 45 contro, ma nelle città più minacciate dal flagello della tossicodipendenza vi fu una maggioranza per il no). E poi una valanga di sì (90 per cento, la quota più alta) per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Sì anche all’abolizione dei Ministeri dell’Agricoltura, del Turismo e delle Partecipazioni statali, a nomine meno lottizzate politicamente dei dirigenti nelle Casse di Risparmio, a una estromissione delle USL dai controlli ambientali. È indubbio che abbia agito, in aiuto dei sì, un potente fattore di vischiosità psicologica, una sorta di memoria collettiva del sì alla preferenza unica. I sì erano un rifiuto del passato. Ma l’elettorato dosò comunque i consensi: e sulla droga fu – a nostro avviso ragionevolmente, e avrebbe dovuto esserlo ancora di più – perplesso.
Dopo il pronunciamento popolare – che più perentorio non avrebbe potuto essere – l’Italia aveva bisogno d’una legge elettorale organica che spazzasse via la proporzionale anche dalla Camera (ed era proprio compito dell’ultimo parlamento, espresso dalla proporzionale e oppresso dagli avvisi di garanzia, il vararla); e aveva bisogno d’un governo che apparisse sganciato dai partiti, e che si prendesse cura dei conti pubblici con l’energia richiesta dalla situazione. Per Amato era venuta l’ora del congedo: che, egli assicurò, non era solo da Palazzo Chigi, ma da ogni altro incarico politico (il precedente di Martinazzoli attenuava la perentorietà di questa autoesclusione).
Il Presidente del Consiglio che il Quirinale designò, Carlo Azeglio Ciampi, rispondeva a tutti i requisiti richiesti. Settantaduenne, livornese, di formazione umanistica ma passato, con una carriera tutta alla Banca d’Italia, nella schiera degli economisti, governatore della Banca stessa per quattordici anni, Ciampi dava garanzie di integrità, d’imparzialità, d’intelligenza, d’equilibrio. La sua lunga gestione della Banca centrale l’aveva portato a contattare assiduamente i politici, e spesso a contrastarli. All’istituto d’emissione erano stati rimproverati, insieme agli strenui sforzi per difendere la lira, anche cedimenti al Palazzo, negligenza nel controllare talune operazioni fraudolente, errori: come quello d’avere incenerito decine di migliaia di miliardi in un sostegno alla moneta italiana che s’era rivelato inutile. Purtroppo ai governatori della Banca d’italia toccava sovente d’essere profeti predicanti nel deserto: e i conti che dovevano fare con la politica non giovavano ai conti veri. Ciampi fu l’uomo migliore, più indipendente e più competente che il Paese potesse esprimere, anche se Eugenio Scalfari si vantò d’avergli suggerito un buon numero di scelte ministeriali. Volle fare un governo con la minor connotazione partitica, la migliore preparazione tecnica e il massimo sostegno dell’opinione pubblica. Riuscì ad avere nella sua équipe Ministri di «area» pidiessina e verde da aggiungere a quelli iscritti o vicini ai partiti tradizionali di governo.
Sottosegretario alla presidenza fu Antonio Maccanico, rimasero Mancino all’Interno, Rosa Russo Jervolino alla Pubblica istruzione, Barucci al Tesoro, Pagani alle Poste, Merloni ai Lavori pubblici, Ronchey ai Beni culturali. Gli Esteri toccarono ad Andreatta – in verità più noto come esperto di economia che come conoscitore dei problemi internazionali – la Difesa a Fabio Fabbri, Costa passò dalle Politiche comunitarie ai Trasporti, Giovanni Conso, un giurista stimato, ebbe la Giustizia (e incappò in un infortunio quando propose un provvedimento su Tangentopoli che venne a torto o a ragione interpretato come un tentativo di colpo di spugna), Gino Giugni ebbe il Lavoro, Paolo Savona l’Industria, Sabino Cassese la Funzione pubblica, Luigi Spaventa il Bilancio, Fernanda Contri gli Affari sociali, Alfredo Diana l’Agricoltura (ma era un dicastero condannato a morte dai referendum). Di matrice o ispirazione pidiessina erano Vincenzo Visco alle Finanze, Luigi Berlinguer all’Università e Augusto Barbera ai Rapporti con il parlamento, mentre al verde Francesco Rutelli era stato aggiudicato il settore da lui prediletto, l’Ambiente. Alle dieci di mattina del 29 aprile 1993 i Ministri di Ciampi – che aveva dichiarato «non ho maggioranze precostituite e i voti me li cerco in parlamento» – giurarono nelle mani di Scalfaro.
Nel pomeriggio la Camera doveva discutere e votare l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi chiesta dal pool di Mani pulite: corruzione, ricettazione, violazione delle norme sul finanziamento pubblico dei partiti; e inoltre doveva discutere la possibilità di sottoporre l’ex segretario del PSI a perquisizioni personali e domiciliari. Di Fronte all’assemblea di Montecitorio, Craxi aveva perorato la sua causa con argomenti scontati: il sistema dei partiti, disse, era stato demonizzato oltre il dovuto e quanto a lui e al PSI, se erano colpevoli lo erano quanto gli altri leader e gli altri partiti. Era convinzione comune che l’arringa, per quanto abbastanza abile ed efficace, non potesse capovolgere un assenso all’autorizzazione che il Paese esigeva. Invece Craxi fu «assolto», nel senso che l’autorizzazione a procedere venne negata per le accuse più gravi (ricettazione e corruzione) e per le perquisizioni, mentre veniva data la luce verde alle accuse di minor peso. La reazione politica, ma ancor più popolare, al verdetto fu di una irruenza forse da nessuno prevista. Spontanee o organizzate, si moltiplicarono le manifestazioni pubbliche, vi furono dichiarazioni – sincere o ipocrite – di esponenti di partito: i giudici di Mani pulite – i quali avevano nel cassetto del resto altre mitragliate d’autorizzazioni a procedere – annunciarono che avrebbero presentato ricorso alla Corte costituzionale contro quella che consideravano un’interferenza del parlamento nei loro poteri (la tesi, vigendo l’immunità parlamentare della quale abbiamo sempre chiesto la fine, ci sembra a lume di naso azzardata: se il parlamento non può contraddire la volontà dei magistrati, a che serve l’autorizzazione a procedere?).
Il no della Camera si abbatté sul governo con l’inattesa violenza d’un meteorite. Rutelli disse subito che se ne andava, Occhetto fece dimettere i tre Ministri che nel governo erano entrati come indipendenti, ma che qualche dipendenza l’avevano, Mario Segni parlò d’un avvenimento «molto grave», il PRI chiese elezioni ravvicinatissime perché «la Camera oggi non è più in grado di esprimere i sentimenti degli Italiani». Ciampi tuttavia non si arrese: e sostituì alle Finanze Visco con Franco Gallo, all’Università Berlinguer con il presidente dell’ENEA Umberto Colombo, ai Rapporti con il parlamento Barbera con Paolo Barile, infine all’Ambiente Rutelli con Valdo Spini.
Gli Italiani inferociti ritennero, a tutta prima (e molti continuarono a ritenerlo), che il salvataggio di Craxi fosse dovuto esclusivamente ai voti di parlamentari della vecchia maggioranza, in particolare della DC e del PSI nelle cui file era il grosso degli inquisiti per Tangentopoli. Una volta bloccato il processo al personaggio simbolo della «politica ladra», il futuro diventava meno nero per altri leader e per la folla dei comprimari, terrorizzati dallo sviluppo degli eventi. Ma i conteggi dimostrarono che gli schieramenti del no e del sì erano stati meno semplici. In favore di Craxi avevano giuocato voti arrivatigli proprio dai settori parlamentari che con apocalittici accenti gli si avventavano contro. Fu insomma fondato il sospetto – o qualcosa di più – che deputati della Rete o della Lega o di Rifondazione comunista o di un’ala dissidente del PDS avessero silurato l’autorizzazione a procedere per provocare lo scandalo, e ottenere ciò che a loro stava a cuore. Ossia le elezioni subito, e quindi una Camera espressa ancora con il sistema proporzionale.
Le manovre di cui il caso Craxi era testimonianza fallirono. Fallì quella che mirava a insabbiare le autorizzazioni a procedere: queste, sulla spinta degli umori popolari – dei quali s’era vista la veemenza – si susseguirono poi in gran numero e senza ostacoli, per nomi noti od oscuri della nomenklatura, Craxi compreso. Fallì anche quella che voleva lo scioglimento senza indugi del parlamento: e gli Italiani non seppero se compiacersene o dolersene. Coloro che riuscivano ad ascoltare la voce della ragione e non quella delle passioni capirono che le politiche a quel punto, con l’Italia sovrastata da una crisi economica pesante e, per quanto riguardava il progetto di riforma elettorale, in mezzo al guado, sarebbero state una jattura. Meglio tenersi per alcuni mesi ancora un parlamento infetto e squalificato, ma proprio per questo ansioso di rifarsi una verginità.
Con il ritiro dei suoi tre Ministri, il PDS aveva voluto, anche in questa occasione, reagire in modo tale da riaccreditare la sua immagine «diversa». Le urne dissero a breve scadenza – nelle amministrative parziali di giugno – che l’operazione era politicamente riuscita.
Il 6 giugno per il primo turno e il 20 per il ballottaggio undici milioni d’Italiani votarono per rinnovare i Consigli comunali e i sindaci di molti comuni, e inoltre sei Consigli provinciali e il Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia. Tra i comuni, 14 erano capoluoghi di provincia, e includevano metropoli come Milano e Torino, e una grande città come Catania. Il Paese fece la sua prima esperienza d’una legge elettorale nuova che è tutt’altro che perfetta, ma il cui aspetto rivoluzionario rispetto al passato emerse con chiarezza da un fatto: ventiquattr’ore dopo il conteggio delle schede di ballottaggio in tutti i comuni interessati si sapeva già il nome del sindaco. Niente più mercanteggiamenti interminabili per la designazione del primo cittadino, per le poltrone in giunta, per gli incarichi accessori.
Non fu agevole, anzi fu pressoché impossibile stabilire, in base ai risultati di queste elezioni, una gerarchia dei partiti. Troppe erano le etichette d’occasione appiccicate a coalizioni che sostenevano questo o quel candidato sindaco. Ma alcuni elementi certi emersero sia dal primo turno, sia dal ballottaggio. Nel primo turno si costatò – secondo previsione – che al Nord la Lega era di gran lunga il partito più forte: con il suo 40 per cento a Milano e percentuali analoghe altrove. Si costatò inoltre che il PSI era diventato, soprattutto al Nord, una larva (non ebbe nemmeno un consigliere nella città dove per un secolo era stato protagonista della vita pubblica, appunto Milano), e che il PDS e Rifondazione comunista erano usciti dal rivolgimento meno malconci della DC: nel CentroSud il PDS aveva attestato anzi una sorprendente vitalità. per DC e PSI – per il secondo in particolare – era grave che, perse le roccheforti settentrionali, fossero stati bastonati anche in quelle aree dove l’azione governativa – e i benefici che poteva distribuire – avevano mantenuto loro molti consensi.
Il riscontro del ballottaggio aggiunse agli effetti della ribellione di base quelli della legge elettorale. Il duello finale tra le coalizioni più forti costringeva i partiti e i gruppi ad aggregarsi e a trovare denominatori comuni. La Lega era abbastanza forte, a Milano e altrove, per fare da sola. Il PDS era abbastanza abile per procacciarsi alleanze. Gli schieramenti intermedi si lasciarono invece condizionare dalle loro diatribe e ingannare dalle loro illusioni. E così la lotta fu, là dove la Lega approdò al secondo turno, tra la Lega e la sinistra, e altrove – come a Torino dove la Lega aveva mancato d’un soffio la promozione al ballottaggio – tra forze di sinistra. Assente il centro. Che divenne portatore di voti a chi aveva saputo meglio usare i meccanismi maggioritari, grazie ai quali la coalizione vincente si aggiudicava il controllo del Consiglio comunale, e agli altri restavano le briciole. A Milano il centro riversò i suoi consensi sul leghista Marco Formentini – tra i leghisti di spicco il meno bossiano, per formazione e per temperamento – cui si opponeva Nando Dalla Chiesa: forte d’un nome – quello del padre generale – che era ricordato con ammirazione e con rispetto, e in tutto il resto debole. A Torino Valentino Castellani, un professore universitario sponsorizzato dal PDS e benedetto da Gianni Agnelli, la spuntò su un altro esponente della sinistra, l’ex sindaco Diego Novelli, appoggiato da Rifondazione comunista e dalla Rete. Non vi fu entusiasmo alcuno nel voto dei moderati al professore che piaceva ad Occhetto. Lo considerarono – così come Formentini a Milano – il meno peggio. Idem come sopra a Catania dove Enzo Bianco, repubblicano ma «portato» dal PDS, dai Verdi, da Segni, fu preferito di un’incollatura a Claudio Fava, caro a Rifondazione comunista. Da quell’elezione il Paese e la classe politica impararono – almeno si suppone – che nulla era più come prima, e che i meccanismi diversi d’elezione aggiungevano un ulteriore e potente fattore di cambiamento a quello degli umori popolari.
Prima d’andare in vacanza, nell’agosto del 1993, il parlamento varò la nuova legge per l’elezione del parlamento, assolvendo così il suo compito fondamentale. L’Italia diceva definitivamente addio alla proporzionale: almeno a quella proporzionale che le aveva dato per quasi mezzo secolo un corpo legislativo frammentato e senza maggioranze certe – con l’unica eccezione di quello uscito dalle politiche del 1948, e dalla valanga di consensi alla DC di De Gasperi – e governi di coalizione Dalla vita solitamente breve, e sempre tormentata. Il «regime» che s’era rassegnato al harakiri aveva cercato, con successo, di rendere meno tagliente la lama del gesto estremo. Una quota proporzionale è stata infatti mantenuta nel sistema d’elezione della Camera (al Senato aveva già provveduto, lo sappiamo, il referendum). Secondo le norme approvate, sui 629 seggi di Montecitorio, 474, ossia i tre quarti, saranno assegnati su base uninominale, e 155 su base proporzionale. A Palazzo Madama i seggi «uninominali» saranno 232 su 315, i proporzionali 83. La creatura istituzionale partorita dal parlamento, nella sua veste costituente, ha avuto la qualifica di Minotauro: con riferimento al mostro – testa di toro e corpo umano – che la mitologia vuole vivesse nel labirinto di Creta, e che Teseo uccise.
La commistione tra quota uninominale – sia pure prevalentemente largamente – e quota proporzionale presentava il rischio di non estirpare le radici del malessere politico (per usare un generoso eufemismo) italiano; tanto più che la fine del ruolo dominante anche se antagonistico esercitato dalla Democrazia cristiana e dal Partito comunista, e l’apparire di formazioni nuove – la Lega, la Rete, l’Alleanza democratica, Rifondazione comunista – potrebbe riproporre, anche in un parlamento di matrice uninominale, alleanze e consociativismi che furono il brutto appannaggio del passato. Noi abbiamo sostenuto – anche e soprattutto dalle colonne del «Giornale» – la validità e l’opportunità d’una legge elettorale a doppio turno, simile a quella francese: nella quale tutti i partiti con qualche seguito potessero, nel primo turno, competere e se del caso emergere; e nel secondo turno si imponessero ampi schieramenti – ossia aggregazioni di partiti – contrapposti in un sostanziale bipolarismo chiarificatore. Queste pagine vanno in stampa mentre le politiche sono ancora di là da venire, e dunque il Minotauro non ha ancora affrontato la sua prima prova. I fatti verificheranno se è davvero quel mostro dialettico che molti – con solidi argomenti – temono o se spazzerà via, oltre alla proporzionale «pura», anche antichi vizi di regime e di sottoregime. S’è visto alle amministrative parziali di giugno quanto i partiti, i candidati, l’elettorato fossero impreparati al test: cadendo – i partiti e i candidati centristi in particolare – in grossolani errori.
Il Paese dovrà dunque vedersela col Minotauro, racchiuso, come quello leggendario, in un labirinto d’incognite procedurali, tra le altre il tracciato dei collegi uninominali per la Camera all’interno delle 27 circoscrizioni regionali o subregionali previste (la Lombardia ad esempio avrà tre circoscrizioni, altre popolose regioni due, le restanti una). Tra le innovazioni previste v’è quella che appaga un antico desiderio degli Italiani all’estero: essi potranno votare nei Paesi dove risiedono, e manderanno a Roma venti deputati e dieci senatori. Anche se la legge è fatta, il parlamento prossimo venturo è un oggetto misterioso perché i riferimenti del passato servono poco o niente, tranne quelli recentissimi, essi pure soggetti a margini d’oscillazione enormi. L’elettorato italiano aveva fama d’essere il più conservatore – per fedeltà partitica, non per ideologia – dell’Europa occidentale. Ora s’è riprese tutte le libertà cui nell’epoca del «blocco contro blocco» aveva – per motivi che ci parvero non solo comprensibili ma ampiamente condivisibili – abdicato. La classe politica – almeno quella che porta etichette un tempo affermate – non ha più un terreno solido su cui poggiare: e deve risalire non una china, ma la parete scoscesa dell’abisso nel quale è precipitata. All’orlo dell’abisso si riaffacceranno, dopo la scalata, le facce e i simboli cui saranno rimasti stima e credito: non perché lo prescriva la legge elettorale rimodellata, ma perché gli Italiani hanno perso la pazienza, e ce n’è voluta per fargliela perdere.
Ciampi ha dovuto traghettare il Paese verso le terre inesplorate della Seconda Repubblica. Per Ciampi e i suoi collaboratori Federico Orlando ha coniato la definizione di «teocrazia bancaria»: riferendosi all’impronta di tecnicismo economico che il governo, affollato d’esperti di finanza e di banca, ha avuto, con in più le benedizioni del cattolico Scalfaro e le prolisse benedizioni giornalistiche del laico Scalfari. Moderatore d’una «rivoluzione pacifica», l’ex governatore è costretto a governarla servendosi di obsoleti strumenti pre-rivoluzionari. Questo è il motivo fondamentale di tante insofferenze, di tante impazienze e anche di tante contraddizioni. Gli Italiani non credono più in nulla tranne che, per il momento, in alcuni giudici. I politici sappiamo come e quanto si siano squalificati, i loro boiardi pagano con le incriminazioni – e nel migliore dei casi con il disprezzo – la loro arroganza malversatrice, di certi grandi capitalisti sono state messe a nudo, con l’esemplare vicenda del gruppo Ferruzzi, l’insipienza tracotante e complice nel maneggiare il denaro privato e il denaro pubblico. Nemmeno il sindacato è rimasto al di sopra dei sospetti. E nemmeno la magistratura, da una parte occupata a sgominare l’esercito dei ladri d’alto bordo, dall’altra – con alcuni suoi uomini, o almeno con un suo uomo – occupata a incassare mance proprio in quel palazzaccio milanese dove agisce il pool di Mani pulite. Il presidente vicario del Tribunale di Milano, Diego Curtò, è stato arrestato ai primi di settembre del 1993 per ordine dei suoi colleghi. Reo confesso della pubblicazione di romanzi, Curtò e stato implicato nella vicenda Enimont (le sue colpe tangentizie, diversamente da quelle letterarie, devono ancora essere sancite definitivamente). Tutti insieme nel fango di Tangentopoli, mentre i cittadini senza blasoni politici o burocratici sono subissati di tasse il cui gettito impetuoso non colma mai i buchi di bilancio (anche se qualche segno di risalita è stato finalmente avvertito).
La conseguenza dirompente del discredito d’una dirigenza fallimentare sta nell’essere diventato, il discredito stesso, un alibi infallibile per tutti gli egoismi e i parassitismi minori, per tutte le anchilosi corporative, per tutti gli assalti alle piccole diligenze. Tra i ribelli al sistema sono milioni, bisogna pur dirlo, coloro che del sistema hanno profittato, e che ci si sono incistati. La teocrazia bancaria vuole razionalizzare, sfoltire, privatizzare, ma non appena tocca un settore protetto, un’azienda che diventa ipso facto «strategica», una branca pubblica sovraffollata, la resistenza è accanita. Riconosciamo senz’altro che – dati gli scandali del passato – è legittimo vedere in ogni privatizzazione un’occasione di colpi gobbi dei soliti «faccendieri».
Ma se prima ci si è – purtroppo – fidati sempre, ora non si può non fidarsi mai: o è la paralisi. Le circostanze consentono di fare un’Italia diversa, ma consentono ugualmente ai demagoghi di sempre d’annunciare che può essere fatta limitandosi a Mani pulite, senza incidere su tutti gli altri bubboni che – a volte nel più formale rispetto delle leggi – si sono andati formando, e intossicano il corpo del Paese. Libero com’è da ossessioni elettoralistiche, Ciampi fronteggia come meglio può le scadenze politiche e le emergenze economiche, prima tra tutte la disoccupazione. Ha conseguito risultati notevoli nella difesa della lira e nella lotta all’inflazione giovandosi peraltro d’una congiuntura internazionale che è contrassegnata sia dalla recessione, sia da una relativa stasi dei prezzi. I banchieri e finanzieri del governo traghettatore sanno il loro mestiere, e sembrano sulla buona strada per domare l’inflazione italiana. Sta a vedere come riusciranno a domare la rivoluzione italiana, e le tante controrivoluzioni che sotterraneamente le si stanno opponendo. Il futuro è già cominciato, ma nessuno sa come proseguirà.