INTRODUZIONE
“Contro” La vita interiore
Quasi geometricamente intrecciato al contesto in cui nacque e preceduto da un fermo tam-tam dei giornali: quando, nel giugno 1978, La vita interiore fu finalmente tra le mani di critici e lettori, la contaminazione del romanzo con la stampa e la sua così intensa immersione nel presente rischiarono di provocarne il soffocamento in un vortice di attenzioni. Il romanzo si presentò così avviluppato a quell’Italia del 1978 che da subito gli fu negato il beneficio di un cauto e rilassato ingresso nella scena letteraria italiana.
La vita interiore, frutto di sette anni di riscritture, si offriva all’opinione pubblica e critica di allora inviando messaggi precisi, forse violenti: compariva anzitutto sulla scena a braccetto delle strategie del mercato editoriale – e il fatto, rilevato da critici militanti e studiosi, unito alle grosse aspettative che si erano create attorno all’opera, contribuì a rafforzare l’ostracismo di qualche penna per un testo che fin troppo prevedibilmente sarebbe stato caricato di articoli e discussioni.1 Il romanzo raccontav0a poi attraverso una sessualità cruda e grottesca la genesi di un desiderio “terrorista”; descriveva sodomie perpetrate al grido di “Viva la rivoluzione”, triangoli semi-incestuosi, dissacrava più o meno ingenuamente famiglia, religione, cultura, linguaggi retorici. La protagonista, tinteggiata secondo non proprio consuete ed oliate modalità di scrittura, diventava terrorista, progettava un sequestro, impugnava una P38: e intanto, nella realtà, le pallottole e le stragi degli anni di piombo assediavano l’Italia, l’onorevole Aldo Moro nel 1978 veniva rapito e ucciso dalle Brigate Rosse – mentre Moravia stesso, del resto, non mancava di intervenire personalmente nei dibattiti politici e sociali del momento. Era quasi impossibile isolare dal gomitolo violento del presente un romanzo così compromesso con ciò che stava incrinando l’unità politica del Paese. Difficile riuscire, quindi, a percepirne le ragioni letterarie e profonde, a comprenderne una natura che si rivelava, sulla pagina, molto più astratta di quanto non paresse.
Subito dopo l’uscita del romanzo per alcuni giorni regnò un imbarazzato silenzio stampa. In fretta lo stallo fu compensato dal chiasso di interviste, interventi e recensioni, per lo più accomunati da perplessità che si muovevano su onde e influenze reciproche, tra caute considerazioni sulla meccanicità della struttura narrativa, rilievi sociologici e spazientiti commenti sugli eccessi sessuali disseminati nelle quattrocento pagine del libro.
Proprio a causa di tali “eccessi” il romanzo fu sequestrato due volte (il 20 ottobre 1979 e nel novembre 1980) dallo stesso procuratore. Del resto, le opere di Moravia non erano nuove a tali provvedimenti: nel 1941 era stata sequestrata La mascherata alla seconda edizione; nel ’42 imposta la censura per Agostino, che uscì poi nel ’44, e nel 1952 tutti i suoi romanzi erano stati messi all’Indice sotto la voce “fabula amatoria”.2 Questa volta le accuse suonavano: opera redatta in una “triviale prosa”, “priva di pretese scientifiche e artistiche”, “sconfinato campionario di prestazioni sessuali”. Tra i due sequestri, una versione cinematografica Desideria – La vita interiore venne girata nel 1980, per la regia di Gianni Barcelloni.
Il dato di un romanzo immerso nella realtà storica contemporanea non è certo atipico nella narrativa dello scrittore romano; eppure nel caso della Vita interiore l’identità del testo è rimasta così inesorabilmente e a lungo legata alle interpretazioni date a caldo e nate “sul campo”, da rimanere incastrata in una asfissia quasi cronica. Quel dialogo così ben sviluppato “tra testo e contesto”3 che è peculiare delle scritture moraviane ha in questo caso latamente vessato l’opera, e la distanza da quegli anni ’70 di cui la scrittura di Moravia fu anticipatrice e spettatrice, slega La vita interiore da un viluppo di zavorre che ne bloccarono la visione a tutto tondo. Gli anni trascorsi giungono utili, anzi opportuni: non sollevano forse il romanzo dai difetti che gli furono imputati, ma permettono di ricondurre l’intera scrittura verso la propria dimensione di testo visionario e astratto, grondante tuttavia di realtà coeva.
Moravia reale visionario
L’“evidenza percettiva di un Moravia quotidiano”,4 rischiarando dunque la rete di rapporti che avvicinavano l’autore all’esterno, alla società e agli scenari del tempo, ebbe l’effetto di oscurare un non meno reale Moravia riposto, visionario, a suo modo cervellotico, nient’affatto connivente con la realtà – che aveva scritto La vita interiore come ancora rimasto in quel letto nel quale erano nati Gli indifferenti.
L’aggettivo “interiore” del titolo si proponeva come segnale interessante, evocatore di un immaginario primitivo e astratto. Il termine, ricco di sfumature, non era tanto, come fu notato,5 proposto antifrasticamente, per dare risalto alle vite borghesi ed esteriori messe in scena nel romanzo, o al riproporsi dei soliti raggelati spazi di appartamenti pariolini: l’interiorità si connetteva bensì a categorie mentali ed essenziali dell’autore. “Svevo è un romanziere moderno nel senso che precorre lo spostarsi dell’attenzione del romanziere dalla vita di società alla vita interiore”,6 rileva Moravia servendosi della stessa locuzione del titolo; “Io ero un uomo interiore”,7 racconta descrivendo se stesso negli anni ’40. L’interiorità è un assoluto, una ossessione fondante – quasi una sua caratteristica ontologica e sostanziale. Da questo nucleo originario, poi, la vita interiore specifica le due sue anime vitali: la prima, un’anima simbolica. Desideria stessa chiarisce: “Nella vita pratica si agisce realmente; ma nella vita interiore, tutto avviene simbolicamente”: è, questo, il motore-base che giustifica gli schematici atti di dissacrazione che Desideria compie contro la proprietà, la famiglia, il linguaggio borghese, la cultura, la religione, il denaro e l’amore. La simbolizzazione è una forza che permea tutto il romanzo, le scelte, gli atti, i contorni dei personaggi. Ma la maschera migliore e più moraviana della vita interiore è la sua seconda anima vitale, quella che la connette con la rivolta.
Se la simbolizzazione è un dato culturale assunto, freudiano insomma, una chiave interpretativa generale della vita interiore, il tema della rivolta è per Moravia un guizzo personale sacro e costante, senza tempo o etichetta. La vita psicologica dell’autore è occupata in gran parte dal sottofondo invariato della “rivolta”, che, anzi quasi ne domina le dinamiche:8 “Io sono rivoltato. La rivolta è sempre presente, in misura più o meno visibile, in tutti i miei romanzi”;9 “La rivolta è l’argomento dominante dei miei libri, il tema dominante della mia vita”.10 Nella Vita interiore Desideria rappresenta la rivolta nella propria fase “istintiva, irrazionale, non finalizzata”,11 alla quale la Voce tenta di dare direzione e corpo. E con la dissociazione tra Desideria e la Voce Moravia risolve il problema della giustificazione morale dell’azione, che gli si riproponeva dalla stesura degli Indifferenti: “Questo problema, naturalmente, è sempre esistito, ma Dostoevskij, che, in qualche modo, è stato uno dei miei maestri, l’ha posto con grande precisione e lucidità [...]. Il problema della giustificazione assoluta dell’azione si configura fin dal principio come problema della giustificazione dell’omicidio. Ora, ne Gli indifferenti c’è lo stesso problema anche se in termini rovesciati: ‘Se non c’è una giustificazione assoluta, niente è possibile’. [...] Il giovane Michele vorrebbe uccidere l’uomo che è al tempo stesso amante di sua madre e di sua sorella. Ma, essendo indifferente, cioè privo di giustificazione assoluta, dimentica di caricare la pistola. [...] Ne la Vita interiore, la pistola spara e uccide”.12 La rivolta finalmente ha forza di risolversi nell’azione.
È qui che si innesta lo scenario del terrorismo: al confine ambiguo tra una visione assoluta e simbolica e la realtà squillante e contemporanea. La volontà di rivolta a-storica unisce la profonda pulsione visionaria del romanzo (che si riflette, come vedremo, nella trama, nei registri stilistici e nelle strutture) e il crudo realismo attribuitogli: “La mia adesione al mondo rivoltato del Sessantotto è stata dovuta a un fatto semplice: che la rivolta del Sessantotto era omologa alla rivolta che da Gli indifferenti su su attraverso La disobbedienza fino alla Vita interiore ho cercato di rappresentare in quasi tutti i miei romanzi”.13
“Scalfari gli ricorda che lui, Moravia, è stato uno dei contestati del ’68. E lo scrittore replica che questo non c’entra, ribadisce l’importanza di quella cultura confusa ma reale...”.14 Le contestazioni di cui fu oggetto nel ’68 – gli si rimproverava di scrivere su un giornale “di regime” come il “Corriere della Sera”15 – lasciarono lo scrittore, dotato di una straordinaria e caratteristica “impermeabilità o refrattarietà alle impressioni esterne”, senza rancori verso quei movimenti dei quali aveva condiviso lo spirito ma non i metodi. H plot iniziale del romanzo gli si propose dunque dopo quelle esperienze, agli albori degli anni ’70: “All’inizio, nel ’70, volevo scrivere la storia di un gruppo extraparlamentare che decideva di fare un sequestro. Non so perché, non sapevo niente di partito armato o di Brigate rosse, che del resto non c’erano ancora”.16 Ispiratagli dai climi politici sudamericani, la metodologia terrorista entra quindi autonomamente nella trama, modo per raccontare una rivolta, e in anticipo sugli eventi storici che segneranno l’Italia degli anni di piombo. Le posizioni di Moravia nei confronti del terrorismo armato sono chiare e compaiono regolarmente sul “Corriere della Sera”: qualsiasi terrorismo equivale alla pratica dello stalinismo, contro il quale lo scrittore non esita a prendere posizione (“Stalin lo odiavo a morte. L’ho odiato più di Mussolini, quanto Hitler, anche se in modo diverso [...]. Stalin era stato socialista e ha fatto al socialismo il maggior male possibile. Ci siamo liberati di Hitler, ma non ci libereremo mai del tutto di Stalin”17). Nonostante il suo appoggio alle idee della sinistra italiana, le posizioni politiche di Moravia, che beneficiano di uno sguardo non stretto nei confini nazionali, sono autonome e dotate di un disincanto che non manca di disturbarne i rapporti con il Pci:18 “io mi considero marxista nel senso che sono convinto che senza la diagnosi marxista non si può capire niente della società”.19 Vero nemico da fuggire, perché fulcro di qualsiasi posizione fideistica, il moralismo,20 che impregna, quindi, anche il movimento terrorista – Desideria sentenzia ferma nel romanzo: “Il moralista è uno che odia se stesso negli altri, che condanna se stesso negli altri, che uccide se stesso negli altri. A se stesso perdona ma, appunto per questo, non perdona agli altri” (p. 332).
C’è qualcosa, tuttavia, che a questa storia di rivolta profonda e senza tempo, a questo terrorismo “privato”, deve dare un sapore reale, tanto da avere reso La vita interiore un’opera emblematica della realtà italiana degli anni ’70. Lo sfondo romano, certo; quella stessa Roma dei Parioli che compariva, emblematica, anche in Petrolio,21 il romanzo cui aveva lavorato fino al ’75 l’amico Pier Paolo Pasolini. Ma è soprattutto attraverso il linguaggio che questo terrorismo “simbolico” – seguito nella propria visionaria genesi in una pariolina quindicenne, negli ordini di quel motore interno delle azioni di Desideria che è la Voce – diventa “nazionale” e, quindi, reale. La questione e le questioni di Desideria e Io, tra Desideria e la Voce, si presentano e si fronteggiano giocando sulla verbalità, che precede “la cosa”. “Questa conoscenza del linguaggio di sinistra conferiva superiorità a Quinto [...] Erostrato ha detto: ‘Assalto alla merce’. E subito, Quinto l’ha beccato: ‘Esproprio proletario’ [...] ‘Servo della multinazionale’. E così via, e così via”. “A questo punto, intervenivano altre parole [...] insomma, la parola era la cosa e viceversa” spiega Desideria. I progetti della giovane romana suonano nelle frasi di Tiberi come la “cosiddetta contestazione”, “la cosiddetta lotta contro i cosiddetti padroni”, “la cosiddetta rivoluzione” – e a ciò egli aggiunge: “Parlano per te i tuoi vestiti, il tuo maglione, i tuoi pantaloni”. Il linguaggio della contestazione e della rivoluzione è quello ormai entrato nel “sentito” comune, pre-esiste, semplicemente: ed è rappresentato ironicamente, tanto da fare sbottare “Io”: “Binomi dialettici? Che roba è?” ; “Alle nostre frasi sul plus-valore, sull’alienazione, sull’espropriazione degli espropriatoli, ecco subentrare le loro sui formaggini, sul prosciutto, sulle uova sode, sul vino” . I luoghi comuni rivoluzionari sono esibiti nella stanca e rigida retorica che li caratterizza; sono costumi, comportamenti, tic e giovanili e senili, stantii come gli interni borghesi che fanno da sfondo a molti romanzi dell’autore: “Questo linguaggio – racconterà nella Vita – [...] veniva dalle profondità di quella stessa vecchia Italia parolaia che i terroristi volevano distruggere”.22
È in questo senso, partendo cioè da un luogo imprecisato dell’interno dello scrittore nella direzione esterna dei costumi italiani, che La vita interiore risulta ancora, come risultò in quel ’78, emblematica ed evocativa della realtà di quegli anni. Vi furono tentativi di “restringere” Moravia, identificandolo ora con la Voce, ora con Io e ora con Desideria: ipotesi inopportune, superate dalle ragioni di una pur complessa ma funzionante narrazione. L’ideologia proclamata nel cervello di Desideria dalla Voce, propaganda, come acutamente rilevava Giuliano Gramigna, “la Rivoluzione Kitsch”, ricostruisce e smonta i soliti ossessivi fondali e ha, certo, l’effetto di “esautorare la rivoluzione”23 senza lasciare capire da quale angolo Moravia guardi o ami guardare il quadro che ha schizzato.
Tutto questo risponde all’esigenza, radicata nello scrittore dalla prima all’ultima pagina vergata, di scrivere per “dire la verità”. Tale necessità discende dal suo essere intellettuale, ruolo nel quale Moravia nel corso della propria vita si identifica con “sorprendente costanza”24 e coerenza. L’intellettuale (“il solo personaggio positivo espresso dalla borghesia”25), è “depositario della coscienza”, si pone all’interno della società come philosophe;6 e l’onestà intellettuale è cardine del suo operare. L’impegno dell’intellettuale non è dunque politico – come spesso si equivocò nel suo caso. Dichiarava Moravia in Intervista sullo scrittore scomodo, testo a cura di Nello Ajello uscito poco dopo la pubblicazione della Vita interiore: “Per me un romanzo impegnato è un cattivo romanzo come opera d’arte e una cattiva propaganda come opera politica”.27
Così anche la figura femminile, come il terrorismo, viene colta nella propria dimensione profonda e “privata”.28 Nonostante Moravia appoggiasse la battaglia femminista,29 le figure femminili del romanzo non sono il tramite di tesi o affreschi sociali. Desideria – che fu letta dalla critica ora in chiave totalmente antifemminista30 ed ora come “il più appassionato e convincente elogio della donna apparso nella narrativa contemporanea”31 – è paradossalmente perversa e vergine votata alla rivoluzione. La protagonista è donna perché più del personaggio maschile permette una “interiorizzazione” degli eventi descritti32 – grazie al fatto che la donna in sé conserva, secondo Moravia, uno sfondo selvaggio33 che le permette di non integrarsi mai totalmente con le regole di società.
Desideria dialoga con un Io che la intervista (e che rappresenterebbe l’autore, cui il personaggio piano piano si rivela) ed è guidata da una Voce, nata dalla lettura che Moravia fece dei verbali d’interrogatorio di Giovanna d’Arco. Con la Voce l’autore ripropone i temi della dissociazione e del doppio, che erano presenti nel romanzo precedente a questo, Io e lui e lo saranno nel successivo 1934; e risolve precisi problemi narrativi che gli si presentarono nei sette anni di sofferte riscritture: “Avrei dovuto mettere insieme un’analisi tradizionale di un carattere, mostrare come una borghese diventa marxista, poi rivoluzionaria, poi terrorista – e non mi andava. E a questo punto interviene la Voce”.34
Tuttavia, di fronte a questa tripartizione di identità, immediato fu il riferimento al modello freudiano – l’Io sarebbe stato rappresentato daH’intervistante, l’Es da Desideria e il super-Ego dalla Voce. Ora, forte è in Moravia il debito con Freud: “Prima di Freud e di Marx, la famiglia e la società erano innocenti; adesso noi sappiamo cosa si nascondesse sotto questa innocenza” rilevava un ventennio prima lo scrittore.35 È in quest’ottica psicanalitica che lo scrittore usa il sesso come codice, “mezzo per ridurre l’universo a un universo dicibile”.36 Notava già nel ’60 Dominique Fernandez che “il problema sessuale in Moravia non è mai disgiunto dal problema del rapporto col mondo”;37 ed anche nella Vita interiore – qui più che mai – il sesso causa di tanto scandalo è linguaggio, “realtà culturale”.38 “Nel mio libro il sesso serve a caratterizzare i personaggi, né più né meno come la redingote serviva a caratterizzare i personaggi di Balzac e di Dickens”39 ripete perentorio Moravia ai molti che lamentavano gli eccessi sessuali della Vita interiore. Notava Giuliano Gramigna, “Moravia configura ogni esercizio erotico come l’articolazione di una lingua nella quale ciascun ‘parlante’ prende atto di sé”.40 Il sesso svela e definisce l’identità dei personaggi; segna ritmi, modi e modelli di vita.
Nonostante Freud entri dunque rielaborato e totalmente assimilato nelle opere dello scrittore,41 non pare tuttavia che il parallelo fra teoria freudiana e struttura dei personaggi della Vita interiore abbia preceduto la stesura del romanzo. Moravia afferma infatti, rivendicando un rapporto induttivo nei confronti del freudismo42 e ribadendo essere nella creazione letteraria un nucleo irriducibile di “mistero”, di essersi accorto solo ad opera quasi finita come l’autore, la Voce e Desideria si potessero sovrapporre ai tre personaggi freudiani. “Non ho pensato una sola volta a Freud e al suo teatrino psichico con i tre personaggi ben noti: es, ego e super ego, bensì soltanto a risolvere narrativamente il problema coi mezzi che sono propri del romanzo”.43
Le dinamiche psicologiche che vivono attraverso i rapporti fra i tre personaggi sono innegabilmente al centro della storia. Dinamiche che vogliono rifuggire dalla psicologia classica – lo si è già rilevato nel caso della Voce, scelta per evitare la descrizione di una evoluzione psicologica consueta – e proporsi nella loro natura meccanica, prevedibile: “La vita interiore non è irrazionale, non è disordinata, non è caotica [...]. La vita interiore ha un suo ordine, una sua organizzazione”.44 Da qui, il romanzo “è un meccanismo: all’idea ottocentesca di un mondo interiore, fluente, lirico, wagneriano, Freud ha messo un teatrino molto razionale [...] che sostituiva quell’altro teatrino a due personaggi, il Bene e il Male, che era stato quello del Cristianesimo [...] Ho voluto costruire una specie di cibernetica interiore, una macchinetta – e questa è la vera struttura del romanzo”.45
È singolare però che la resa raziocinante dei meccanismi psicologici si innesti su una storia che ha come motore una rivolta assolutamente irrazionale nella genesi, nei modi e nello svolgimento. Vittorio Spinazzola rilevava nel testo del ’78 una “base esorbitante di giustificazioni oggettive all’insorgere della volontà di rivolta”;46 e sottolineava come i personaggi facessero scempio47 della razionalità che, abbondante, si spandeva nel romanzo. Credere, dunque, alla lucidità che l’autore propugnava, o guardare il suo assoluto controllo sulla materia con occhio disincantato, forando il sipario delle interviste e delle dichiarazioni di intenti? La questione non si pone chiaramente in termini così manichei e la provocazione, il bivio tutto virtuale, serve ad illuminare La vita interiore nei suoi lati meno risolti, ossessivi, contraddittori. Notava acutamente Saverio Esposito in un testo scritto nel 1991, in occasione della scomparsa dello scrittore, che “Moravia era [...] attratto e terrorizzato dall’irrazionale. E così aveva lavorato per trasformare una vocazione artistica in qualcosa di programmabile”.48 Che anche nella Vita interiore la punta massima di razionalità si stenda su un nucleo nevralgico della sua esperienza? Tre anni prima, nel ’75, in un racconto dal titolo Piazza della psicanalisi pubblicato sul “Corriere della Sera”, Moravia narrava la storia di una psicanalista che guardava da una finestra il corpo del suo uomo ucciso su una piazza. Mentre dal proprio appartamento considerava la scena, la donna cercava di portare a termine la scrittura di un saggio, il cui argomento, significativamente, recitava: “Freud ha proiettato la luce della ragione nella vita interiore. Là dove c’era buio, ha eretto un palcoscenico bene illuminato sul quale recitano sempre la stessa commedia sempre gli stessi attori [...] Ma intorno a questo palcoscenico chiaro e visibile le tenebre sono più fitte che mai”.49 Mentre scriveva il romanzo dell’ordine della vita psichica, il romanziere non rifuggiva dalla verità diametralmente opposta, l’esistenza di un disordine interiore irriducibile, “misterioso”.
È lecito interrogarsi su quali siano in realtà i confini tra la meccanicità “rappresentata”, voluta cioè dall’autore, e gli effetti di involontaria schematicità all’interno della narrazióne. Certo l’intento di descrivere una “cibernetica interiore”, allontanando personaggi dai contorni classici, genera spigolosità e automatismi nello svolgersi dell’azione. Il rumore meccanico e le impressioni di “totale, glaciale irrealtà”50 di cui il testo fu accusato51 derivano dalle ragioni e dalla struttura del romanzo stesso. Sono allora dati negativi in rapporto ad una presunta oliata adesione alla realtà, cui avrebbe dovuto obbedire un romanzo che invece più di qualsiasi altra opera dello scrittore romano fin dalla prima battuta si mostra visionario. Fin dalla prima battuta Moravia offre al lettore l’immagine di una strana, perversa affascinante “realtà che deride la realtà”.52
Romanzo?
A causa dell’abbondante bottino di temi racchiusi nella Vita interiore, ed in sintonia con un Moravia che si diceva da sempre legato ai narratori di idee, piuttosto che ai formalisti53 nei confronti del testo del 1978 si sviluppò una critica concentrata prevalentemente sulla discussione dei contenuti.
Più di ogni altro aspetto, è invece il versante letterario e formale dell’opera il più destabilizzante e innovatore – e quello dal quale provengono difficoltà e incoerenze. L’inizio più ambiguo di tutte le narrazioni di Moravia – “Il mio nome è Desideria. E ho avuto una Voce”– fa da spia ad una strana mescolanza di registri e toni nella quale sta forse il punto critico del testo.
Il dialogo tutto letterario che si svolge nella Vita interiore è introdotto dalla postilla iniziale. Desideria è proposta come personaggio che si rivela all’autore – anzi: al “romanziere” – durante le successive riscritture. Coerente con questa sua identità, la giovane pariolina si dissolverà, brusca, alla fine dell’intervista. I due confini racchiudono una scrittura che, riecheggiando l’Attenzione (1965) e non senza l’ombra di Pirandello, ripropone il problema del rapporto fra l’autore e la propria creazione, l’autore e i personaggi. Con l’improvviso dissolvimento finale di Desideria, Moravia intende allacciarsi alla tradizione dei romanzi non finiti – e cita Kafka, Gadda, Musil: “I romanzi non dovrebbero mai finire perché il fine del romanzo è quello di permettere al personaggio o ai personaggi di manifestarsi”.54
La narrazione si svolge poi – e anche questo è anticipato nella breve nota iniziale – in forma di intervista. Qualcuno domanda e qualcuno dà risposte per 400 pagine. “Succede” tanto nella Vita interiore, c’è molta “azione”: eppure questa azione raccontata è quasi all’opposto dell’agire. I dialoghi di Io e Desideria sono come quelli di personaggi teatrali, preceduti cioè, in tutto il romanzo, dal nome di quello che, tra i due, ha la parola. Eppure, nonostante la narrazione sia fortemente dialogizzata, la pagina è ferma e verbale. Le battute dei due protagonisti non accompagnano lo svolgersi dell’azione, come avveniva invece in Io e lui; il presente nel quale avviene il dialogo è statico e senza tempo; e l’azione è riversata nei flashback, spesso introdotti da locuzioni (“Devi sapere che”... “come ti ho già detto”) che segnano i confini delle scene ed allontanano ogni gesto. Giovanni Raboni sottolineava, cogliendo un tono essenziale del testo, quanto il romanzo avesse in sé “una volontà recensoria, volta cioè alla dichiarazione, più che alla rappresentazione, alla spiegazione più che all’interpretazione”:55 e questa stessa impronta recensoria tingeva la Vita interiore di una tonalità “intermedia tra romanzo e saggio” che la avvicinava al “romanzo allegorico”.
Con il tono saggistico il romanzo condivide in effetti gli atteggiamenti didascalici; e dell’intervista ripropone, in generale, il fraseggio. Un italiano colloquiale, “quasi un’operazione magnetofonica”56 e uno scambio di battute ripetitivo, che vede riprendere l’ultima parola o l’ultima frase dell’affermazione precedente. Si crea un dettato tautologico quasi ingenuo o infantile. (“Era... bifronte” “Bifronte?” “Misteriosamente...” “Misteriosamente? Perché misteriosamente?”). Mima un dialogo non limato, l’autore, e Desideria talvolta inciampa in errori stilistici ed inesattezze. Su questo versante si rivelano alcune incoerenze; quelle che si creano, ad esempio, tra un personaggio che parla per anacoluti popolari ma si racconta poi improvvisamente con quelle che Spinazzola rilevò come “smagliature di un poeticismo lirico”57 che minano la compattezza del linguaggio.
A suffragio di tali irregolarità stilistiche si può ribattere che è lecito che tutto accada in un romanzo in cui la protagonista è oggetto di una vera e propria trasformazione da fiaba. Desideria infatti “ad un tratto” si accorge di essere ritornata in armonia con il proprio nome, da “grassona”, cioè, “bellissima” e, appunto, desiderabile: “... grosse gocce limpide e brillanti mi imperlavano il viso, il seno, il ventre, le gambe e parevano gocce di rugiada; allora, d’improvviso, mi sono accorta che non ero più grassa e che ero bella”.
Un romanzo-saggio allegorico sotto forma di intervista, dunque? Non solo. Moravia chiariva: “I miei personaggi non sono indifferenti, ma dissociati, cioè divisi tra quello che sono e quello che sentono che dovrebbero essere, che, poi, è un carattere tipico del personaggio tragico. Nel mio ultimo romanzo La vita interiore questa dissociazione diventa addirittura l’argomento del romanzo”.58 Passa dal tragico la scissione di Desideria: ma i personaggi, per come parlano, si muovono, agiscono e reagiscono, chiamano lo spettatore ad assistere ad una rappresentazione grottesca, più che limpidamente drammatica, riassunta da Desideria: “con un sentimento misto di sfida e di schifo”. Ed anzi, ecco che quando l’adolescente afferma che “il sesso è comico” il lettore riconosce ormai di essere stato preso in un vortice strano, all’incrocio inaspettato di tragedia, farsa e commedia. Pochi critici colsero i toni comici, seppelliti tra gli indizi abbondanti di realtà e contraddetti dal contrario movimento tragico. Si accennò a una “fosca comicità”,59 a una “realtà ironica”,60 ad una dimensione “tragico-farsesca”.61 Ma radicalizzava Raboni: “La Vita interiore non è un romanzo tragico, ma un romanzo comico [...] nel senso, cioè, che i gesti dei personaggi inducono al riso assai più che al raccapriccio [...] nel senso, ancora, che le domande del narratore sono di una così smaccata superfluità, da trasformare chi le pone in macchietta”.62 Non in ultimo, lì dove lo svolgersi dell’azione si astrae e si blocca, moravianamente, in scene grottesche rallentate, esercitò la propria influenza sul testo del ’78 il teatro, genere che segnò profondamente la scrittura di Moravia: “La mia prima lettura sono stati Molière, Cechov, Goldoni, Shakespeare. La mia idea dominante mentre scrivevo Gli indifferenti era di fondere la tecnica teatrale con quella del romanzo. I miei romanzi sono dei drammi travestiti da romanzo”.63
La tragedia è abbozzata e contraddetta, il romanzo vira al saggio e all’intervista, trasformazioni da fiaba capitano in una realtà schernita da spunti incontestabilmente comici. Ciò che forse irritò maggiormente i fruitori del ’78 che, con le dovute eccezioni, credevano di assistere ad una rappresentazione tridimensionale, fu forse questa strana, multipla, affascinante instabilità e schizofrenia con cui La vita interiore si propose – e si propone – al lettore.
Munchen, marzo 1998
Daniela Mangione