Parte terza

 

IL GRUPPO E L’ORGIA

I

 

 

 

 

 

 

 

Io: Il giorno dopo, Erostrato è venuto a pranzo a casa vostra. Tu non c’eri, no?

Desideria: Io c’ero.

Io: Avevi detto che non volevi esserci. Hai cambiato idea all’ultimo momento?

Desideria: È stata la Voce a farmi cambiare idea. Ha detto che se non fossi stata presente, avrei mostrato di essere gelosa, cioè avrei confermato il suo sospetto che ero innamorata di Erostrato. Così sono rimasta.

Io: Cosa è avvenuto durante il pranzo?

Desideria: Nulla di particolare. Erostrato sembrava molto sicuro di sé; si vedeva benissimo che non era la prima volta che si trovava in una simile situazione. Viola era tornata ad essere la signora americana dei Parioli, la madre affettuosa e matura con una figlia bella e adulta. Alla fine del pranzo ho detto che avevo da fare e me ne sono andata.

Io: Nei giorni seguenti che cosa è successo?

Desideria: È successo che Erostrato, gradualmente, ha preso il posto di Tiberi.

Io: E cioè?

Desideria: Prima della loro pretesa rottura, Tiberi veniva a pranzare a casa nostra due o tre volte alla settimana; Erostrato ha preso a venirci anche lui, un giorno sì un giorno no. Tiberi si chiudeva dopo pranzo nello studio con Viola, ad esaminare i documenti dell’amministrazione; Erostrato ha fatto lo stesso. Tiberi e Viola uscivano insieme la sera per andare al ristorante, al cinema, al teatro, al night; Erostrato, a sua volta, ha accompagnato Viola in questi luoghi. La sola novità è stata che ai tempi di Tiberi, ero ancora bambina e la sera restavo a casa, mentre adesso ero grande e Viola, innamorata di me, esigeva che uscissi con lei e con Erostrato.

Io: E tu accettavi?

Desideria: Per forza. La Voce lo voleva e io ubbidivo alla Voce che, alla fine, tra tanta confusione e tanta oscurità, era la sola cosa ferma chiara e coerente nella mia vita.

Io: Dove facevano l’amore, Viola ed Erostrato?

Desideria: Nella salumeria.

Io: Ma che dici? quale salumeria?

Desideria: Era un appartamento ricavato dentro un negozio di salumi. Erostrato lo chiamava, appunto, con impercettibile ironia moralista: la salumeria. Viola aveva preso in affitto l’appartamento dopo che l’avevo sorpresa mentre faceva l’amore a tre, con Chantal e Tiberi. Ricorderai che Viola il mattino seguente aveva licenziato Chantal e aveva cessato di far venire Tiberi in casa. Con me pretendeva di aver rotto del tutto ogni rapporto con Tiberi e, persino, di non far più l’amore con le donne. Erano due bugie, mentiva; in realtà aveva affittato la salumeria e lì aveva continuato a farci l’amore a tre con Tiberi e le terze donne di turno.

Io: Chi erano queste donne?

Desideria: Battone, squillo, modelle, commesse, segretarie, quello che offriva la piazza.

Io: Chi gliele procurava?

Desideria: Tiberi, penso. Ma l’ho vista, coi miei occhi, su un Lungotevere, fermarsi con la macchina davanti a una battona e, dopo breve contrattazione, farsela salire accanto. E almeno un paio di volte, l’ho sentita che telefonava a una cosiddetta massaggiatrice

degli annunzi economici per fissare un appuntamento. Quelle volte, mi ha colpito la sua voce, dura, esigente, proprio di cliente che spende e vuole qualche cosa in cambio del denaro.

Io: Erostrato abitava sempre nella pensione?

Desideria: No, abitava nel superattico.

Io: Quale superattico?

Desideria: Come ti ho già detto, Viola investiva il proprio denaro in restauri o costruzioni di piccoli appartamenti di lusso. Oltre che una maniera di salvare il denaro dall’erosione dell’inflazione, questi investimenti erano anche e, forse, soprattutto, un modo di occuparsi e di esercitare la propria volontà di potenza su tutti coloro che partecipavano a questa sua attività edilizia: architetti, costruttori, capomastri, falegnami, imprenditori, operai, artigiani vari e poi anche avvocati, amministratori, notai e così via. Da ultimo Viola aveva fatto costruire, al di sopra del nostro appartamento, un superattico composto di un grandissimo studio e di una piccola camera da letto. Più i servizi, naturalmente, nonché tutto intorno allo studio un’immensa terrazza da cui si vedeva il panorama di Roma. Io stessa avevo aiutato Viola ad arredarlo; l’idea iniziale era di affittarlo ammobiliato. Ma uno di quei giorni, a tavola, Viola mi ha informato casualmente, in presenza di Erostrato, che quest’ultimo sarebbe venuto ad abitare nel superattico.

Io: Come mai Viola ed Erostrato si incontravano nell’appartamento ricavato dalla salumeria, visto che c’era il superattico?

Desideria: Dopo la sorpresa di quella notte di sei anni fa, Viola aveva scoperto, a quanto pare, che il suo erotismo promiscuo era noto nel quartiere. Di qui la decisione di non ricevere più i suoi amanti nel nostro palazzo.

Io: Adesso Viola manteneva Erostrato?

Desideria: Tutto lo lasciava supporre. Gli passava uno stipendio. Diceva che l’aveva assunto come segretario.

Io: E tu hai più fatto l’amore con Erostrato?

Desideria: Io? no, perché avrei dovuto farlo?

Io: Lo odiavi?

Desideria: Per nulla. Continuavo a provare non so che dolore fraterno, accorato ed impotente, di saperlo e vederlo corrotto, questo sì.

Io: La Voce approvava questo dolore?

Desideria: Lo disapprovava. Diceva che ero una sentimentale incorreggibile.

Io: Evitavi di stare con lui o ci stavi?

Desideria: Cercavo di starci il più possibile. Mi aveva promesso di presentarmi al gruppo rivoluzionario; la Voce diceva che, corrotto o no, Erostrato andava frequentato almeno fino al giorno in cui avrebbe mantenuto la sua promessa.

Io: La Voce pensava che avresti anche potuto accettare l’amore a tre, pur di essere presentata al gruppo?

Desideria: Per la Voce, se il fine era la rivoluzione, tutti i mezzi erano buoni.

Io: Erostrato, lui, ha tentato di far di nuovo l’amore con te?

Desideria: Sì.

Io: In che modo?

Desideria: Ti sembrerà strano, ma soprattutto parlandomi del suo rapporto con Viola.

Io: In che modo te ne parlava?

Desideria: Mi parlava male di lei.

Io: Perché, secondo te?

Desideria: Perché, probabilmente, pensava che all’amore a tre dovevamo arrivarci per gradi. Aveva saputo diventare l’amante di Viola al primo colpo; adesso voleva riprendere il nostro rapporto al punto esatto in cui si era interrotto il giorno del nostro primo incontro. Più tardi, poi, avrebbe riunito e fuso i due rapporti, quello con me e quello con Viola, nell’amore a tre ed il gioco sarebbe stato fatto. Intanto, però, si studiava di presentarmi la sua relazione con Viola come qualche cosa di professionale e di interessato e la sua attrazione per me come qualche cosa di sentimentale e di disinteressato. Tutto questo ti sembrerà forse un po’ calcolato, premeditato. Ma non era così. Erostrato non calcolava nulla; semplicemente viveva con istintiva naturalezza una situazione che gli era congeniale.

Io: Vuoi dire che non era cosciente di quello che faceva?

Desideria: Perché avrebbe dovuto esserlo? Non ne aveva bisogno. Erostrato era oggettivamente un prostitute che ‘ si faceva mantenere da una donna che non amava e, anzi, probabilmente, odiava. Al tempo stesso il suo sentimento per me così disperato e mortuario si era oggettivamente espresso nella sua maniera di far l’amore orale. Così, anche se il suo scopo era di arrivare all’amore a tre, c’era in lui, realmente, qualche cosa di simile all’amore, per me, e all’odio, per Viola.

Io: Ma, insomma, che diceva?

Desideria: Non diceva molto; perché era piuttosto laconico, come mi sembra di averti fatto capire. Ma lasciava intendere che non provava nulla per Viola, che il suo sentimento era tutto per me, che noi due eravamo fatti l’uno per l’altro, che dovevamo metterci d’accordo contro Viola.

Io: Contro Viola?

Desideria: Sì. Per ora soltanto per parlarne male e magari fare l’amore noi due da soli, poi, magari, chissà?

Io: Ma allora ti amava?

Desideria: Non proprio: voleva soprattutto bussare di nuovo alla porta del mio sesso per raggiungere il nulla prenatale, come la prima volta. E voleva che non lo considerassi un prostitute, come infatti lo ritenevo, e che non lo disprezzassi. Tutto questo non si può ancora chiamare amore.

Io: Ma che diceva, insomma, di Viola?

Desideria: Che era egoista, dura, avara, moralista, sciocca, noiosa, esigente. Soprattutto, esigente.

Io: Esigente, in che modo?

Desideria: Faceva capire che lo era in tutti i modi. Dal farsi accompagnare la sera al ristorante e agli spettacoli, alle prestazioni, diciamo così, professionali.

Io: Cosa rimproverava a Viola per quanto riguardava le prestazioni?

Desideria: Non lo diceva con precisione: anche questa discrezione era, a ben guardare, un tratto professionale. Ma mi è sembrato di capire che Viola esigeva da lui che andasse fino in fondo nell’atto sessuale; lui, invece, avrebbe voluto risparmiarsi, perché conosceva le sue possibilità e non desiderava oltrepassarle.

Io: Che andasse fino in fondo? fin dove?

Desideria: Cioè che avesse l’orgasmo ogni volta che facevano l’amore, il che avveniva quasi tutti i giorni. Anche per questo preferiva me a Viola: quella sola volta che avevamo fatto l’amore, io non gli avevo chiesto nulla, voglio dire nulla che riguardasse il suo corpo. Insomma, il genere di rapporto sessuale che preferiva era quello nel quale poteva usare il membro in maniera limitata e incompleta, piuttosto per provocare il piacere della donna che per provarlo lui stesso. Trasportato dalla fiducia, o meglio dal desiderio di ispirarmi fiducia, mi ha fatto, a questo proposito, delle confidenze quali divertenti e quali imbarazzanti; e tutte, pur sempre, non mi stanco di dirlo, strettamente professionali.

Io: Per esempio?

Desideria: Viola voleva che lui la sodomizzasse, era il genere di rapporto sessuale che lei preferiva. In questa posizione, lei non poteva vederlo in faccia. Così, mentre le stava sopra e la penetrava, lui le faceva delle smorfie, le tirava la lingua. Poi si metteva a soffiare e a gemere rumorosamente benché non provasse praticamente nulla. Alla fine urlava, l’addentava alla nuca, le ficcava le unghie nelle spalle per darle ad intendere che stava avendo l’orgasmo.

Io: Viola gli credeva?

Desideria: Qualche volta sì, qualche volta no. Erostrato mi spiegava, pur sempre con quel suo tono di uomo del mestiere, che Viola era costituita in modo da non provare, davanti, che poco o nulla, e invece, dietro, molto, anzi moltissimo. A questo proposito mi raccontava che qualche volta lui si divertiva a premerle leggermente col dito l’orificio anale; subito se la vedeva cadere tra le braccia, con gli occhi bianchi e revulsi e la bocca semiaperta. Questi particolari gli sembravano curiosi, come dettagli di quella macchina misteriosa che era il corpo femminile che lui conosceva da esperto e nella quale tuttavia gli avveniva di scoprire continuamente aspetti nuovi e imprevisti. A questa straordinaria sensibilità delle parti erotogene posteriori, attribuiva il fatto che Viola, stravolta dal godimento, spesso non si accorgeva che lui faceva in modo di non avere l’orgasmo. Ma altre volte, lei si rendeva conto che Erostrato si controllava e si risparmiava e allora erano scene insieme penose e ridicole.

Io: Che specie di scene?

Desideria: Lei gli intimava con durezza che doveva eiacularle dentro, perché quel seme era suo, di sua proprietà e lei l’aveva già pagato in anticipo. Erostrato diceva che queste scene lo esasperavano, anche perché, alla fine, era costretto, a soddisfare le esigenze di Viola pur non avendone alcuna voglia. Erostrato mi ha descritto una di queste scene con un realismo, diciamo così, tecnico, che in lui non pareva accompagnarsi con alcun giudizio morale. Mi ha detto che uno di quei giorni che lui, dopo aver urlato falsamente per il preteso orgasmo, le si era abbattuto sulle spalle fingendosi ansimante ed esausto. Viola, tutto ad un tratto, si era rivoltata di scatto, gli aveva afferrato il pene asciutto e ancora gonfio e rigido, glielo aveva strizzato facendogli notare che non ne usciva neppure una stilla di sperma; quindi, in maniera burlesca ed autoritaria, chiamandolo in inglese: “My dear boy” e in italiano “carino mio”, lo aveva invitato a fare il suo dovere di maschio. Così dicendo, si era gettata di nuovo a bocconi, gli aveva di nuovo offerto le sue perfette, splendide natiche. Allora, mentre sospeso su di lei, si adoperava affannosamente e a freddo per penetrarla di nuovo, Erostrato aveva visto Viola chiudere vogliosamente gli occhi nell’attesa del rinnovato piacere proprio della sodomizzazione; ma al tempo stesso conservare nel volto l’attenzione inorecchita ed ostinata come di chi ascolta un rumore fievole e lontano; e aveva capito che lei voleva essere sicura che non fingesse di nuovo e ottemperasse davvero al suo dovere di prostitute. Alla fine, pieno di rabbia impotente al pensiero che il proprio prezioso seme andava a perdersi nell’ingordo intestino di Viola, lui aveva avuto l’orgasmo e aveva visto Viola dipingersi in volto di rasserenata soddisfazione mentre seguiva con pignola ed esperta attenzione il graduale fluire, nel suo retto, del caldo fiotto dell’eiaculazione. Poi, dopo che era uscito da lei, col pene ridotto ad un piccolo cencio di carne fradicia, Erostrato aveva ancora avuto l’umiliazione dell’elogio padronale: “Questa volta è andata bene. Bravo, lo vedi che quando vuoi, lo sai fare benissimo? ”

Io: Tu hai detto che le sue confidenze erano ora divertenti ora imbarazzanti. Questa descrizione tecnica del coito appartiene senza dubbio alla categoria delle confidenze divertenti. Parliamo adesso di quelle imbarazzanti.

Desideria: Sì, c’erano anche le confidenze imbarazzanti dovute al fatto che, nel candore della sua volgarità, lui credeva in buona fede che fossi così solidale con lui da non provare ripugnanza per certi particolari.

Io: Per esempio?

Desideria: Per esempio, il fatto che Viola, qualche volta, non aveva provveduto a vuotare l’intestino, e così, quando lui si tirava indietro dopo l’orgasmo vero o finto, si ritrovava il pene tutto screziato di gialle macchie escrementizie.

Io: Che effetto ti facevano queste informazioni?

Desideria: Mi facevano schifo, naturalmente.

Io: Ma gli facevi capire che ti facevano schifo?

Desideria: Questo è il punto: no. Continuavo a provare per lui un senso di compassione fraterna e solidale, non tanto lontana, dopotutto, dalla complicità in cui lui avrebbe voluto coinvolgermi. Tra le cqnfidenze imbarazzanti devo metterne anche una che riguardava un’anomalia fisica di Viola, la quale, sia detto di passaggio, spiegava in parte la sua preferenza per il coito anale.

Io: Anomalia?

Desideria: A quanto pare, se Viola si faceva penetrare in maniera normale, via via che si acceleravano i movimenti del suo ventre e del ventre di Erostrato, lei andava riempiendosi d’aria, come un mantice manovrato con energia. Poi sopravveniva l’orgasmo, i muscoli del suo ventre si rilasciavano e allora l’aria usciva fuori con quei rumori sgradevoli e, in qualche modo, osceni che di solito produce la stessa aria sfuggendo dall’intestino. Erostrato mi ha detto che tutte le volte che facevano l’amore normale e Viola, alla fine si abbandonava nelle sue braccia con tutti i segni del più completo trasporto amoroso, gli pareva che i rumori delle flatulenze che sfuggivano dall’utero di lei, si beffassero di lui e gli ricordassero la propria condizione di inferiorità mercenaria. Lui avrebbe voluto che almeno Viola si scusasse di fare quei rumori involontari e beffardi; l’irritava soprattutto il fatto che lei non gli chiedesse scusa, si comportasse proprio come una padrona con un servitore il quale deve sopportare tutto e al quale non è dovuto alcun riguardo.

Io: Queste confidenze alla fine hanno modificato in qualche modo quel tuo sentimento per Erostrato che tu chiami fraterno e compassionevole?

Desideria: No, al contrario, l’hanno approfondito e reso più straziante.

Io: Ma non al punto di farti desiderare di far l’amore con lui, oppure sì?

Desideria: No, per me il rapporto amoroso con lui era cominciato e finito il pomeriggio del nostro primo incontro. Mi ero servita di lui e non desideravo ripetere l’esperienza, assolutamente. Anche perché non ne avevo bisogno, per sentirmi vicina a lui.

Io: E cioè?

Desideria:- Dell’amore orale che avevo fatto con lui, avevo trattenuto soltanto e definitivamente il suo disperato e del tutto inconscio desiderio di morte. Non avevo bisogno di ripetere il rapporto per confermare a me stessa la compassione impotente che mi ispirava questa intuizione.

Io: Parliamo d’altro. Dopo averti rubato l’amante, Viola aveva cessato di perseguitarti con le sue attenzioni?

Desideria: Per niente, più che- mai mi stava addosso. Del resto non è esatto che mi avesse rubato l’amante, o meglio lei non lo pensava.

Io: Cosa pensava?

Desideria: Apparentemente, che aveva fatto un passo avanti verso il suo scopo finale il quale, per lei come per Erostrato, era l’amore a tre. D’altra parte, ho capito che Erostrato, chissà perché le faceva credere che lui ed io continuavamo ad amarci. Così, era piuttosto naturale che Viola pensasse non tanto di avermi rubato l’amante quanto di condividerlo con me. Questo le faceva sperare che un giorno, invece di vedere Erostrato ciascuna per conto suo e separa tamente, ci saremmo riuniti tutti e tre insieme, nell’orgia triplice che era la sua maniera preferita di fare l’amore.

Io: Ma tu perché non hai smentito questa bugia di Erostrato?

Desideria: La Voce non voleva. Del resto non è che Viola mi parlasse apertamente del suo rapporto con Erostrato. Conservava, come si dice, la forma: Erostrato era il segretario, lei la datrice di lavoro. Un po’ allo stesso modo che io ero la figlia e lei era la madre.

Io: Ma, visto che credeva che tu ed Erostrato foste amanti, come faceva a non pensare che tu fossi gelosa di lei?

Desideria: Pensava, al contrario, che ero contenta di dividere il mio uomo con lei.

Io: Perché?

Desideria: Probabilmente perché desiderava che così fosse.

Io: Hai detto che ti perseguitava con le sue attenzioni. Dammi un esempio.

Desideria: Erano attenzioni strane. Forse le erano ispirate dal ricordo di quella notte in cui avevo tentato di travolgerla con la macchina.

Io: Cioè?

Desideria: Voleva che le facessi del male.

Io: Male in che modo?

Desideria: Fisicamente.

Io: Cosa era diventata, masochista?

Desideria: No, era innamorata e siccome mi ero dimostrata più forte di lei, essere, come tu dici, masochista, era per lei semplicemente la maniera più naturale di dimostrarmi il suo amore.

Io: Cosa ti chiedeva? di batterla?

Desideria: Sì.

Io: In che modo?

Desideria: Mi inseriva nel suo continuo estenuante movimento pendolare tra l’affetto materno e l’amore incestuoso. Un giorno, ci siamo recate in macchina al ristorante, lei, io ed Erostrato. Mi sono seduta al volante, lei accanto a me, Erostrato dietro. Allora, mentre guidavo ho sentito la sua mano posarsi sulla mia coscia e poi strisciare scendendo verso l’inguine. Ho detto tra i denti: “Non fare questo,” con voce molto bassa, in modo che Erostrato non sentisse. Lei ha ritirato subito la mano; poi la serata si è svolta normalmente. Abbiamo mangiato, siamo andati a vedere un film, siamo tornati a casa, ci siamo coricati, ciascuno per conto suo. Stavo già a letto, quando la porta si apre e Viola entra senza bussare, in lunga e bianca camicia da notte, camminando ritta ed impettita come una sonnambula, con i capelli sciolti e sparsi sul petto, gli occhi fissi davanti a sé, le braccia pendenti. Naturalmente penso che vuole riprendere la carezza accennata in macchina, le domando un po’ infastidita cosa vuole, cosa c’è, perché non mi lascia dormire in pace. Lei si avvicina, mi guarda un momento, poi dice: “Stasera in macchina ti ho toccata e ho visto che, se non ci fosse stato Erostrato tu mi avresti dato uno schiaffo. Ebbene sono venuta a prendermi lo schiaffo. Adesso Eros non c’è e tu devi darmelo.”

Io: Devi?

Desideria: Sì, anch’io ho notato questo verbo e le ho risposto: “Io non devo nulla.”

Io: E lei?

Desideria: Mi ha pregata: “Dammelo, guarda, mi metto qui, su questa seggiola e tu me lo dài. Sono una madre indegna: devi punirmi.” Allora le ho risposto, un po’ brutalmente: “Chiedendomi di darti uno schiaffo, continui ad essere una madre indegna. Per te, lo schiaffo sarebbe una carezza. Cosa credi che non ti capisco? ” Sai cosa ha fatto?

Io: Che cosa?

Desideria: Ha capito che non volevo, come lei diceva, punirla; e allora ha cambiato metodo. Mi ha provocato. Ecco, si raddrizza ed esclama con la sua voce più puritana: “Sei una bugiarda, un’insolente, come ti permetti di parlare in questo modo a tua madre?” Aggiunge ancora altre frasi dello stesso genere; quindi, in una sua maniera goffa e maldestra cerca di schiaffeggiarmi. Lo schiaffo, per niente violento e come contenuto dal timore di farmi male, mi prende tra il naso e la guancia e mi lascerebbe indifferente se lei non avesse, al dito, medio, un anelo con uno zaffiro dalla legatura di platino molto massiccia e sporgente. L’anello mi fa proprio quel male che lei avrebbe voluto evitare; d’improvviso, anche per l’esasperazione causata dalla sua insistenza, perdo la testa, balzo giù dal letto e la schiaffeggio sul serio e con tutta la forza di cui sono capace. Subito dopo, mi accorgo che ho fatto esattamente quello che lei mi chiedeva. E infatti, a riprova, ecco che lei mi afferra la mano, se la porta alle labbra, la copre di baci, la lecca, la bagna di saliva e di lagrime.

Io: Di lagrime?

Desideria: Sì, piangeva, forse anche a causa del dolore degli schiaffi. Tutto quanto, del resto, è durato pochissimo; poi Viola si è alzata ed è andata via tutta arzilla dicendomi dalla soglia in maniera enigmatica: “Dormi bene, bambina mia,” quasi avesse voluto, con queste parole, prendere in giro se stessa e me. Ma io ero sconvolta.

Io: Perché?

Desideria: Perché era la prima volta che la percuotevo. La guancia di una madre, sia pure adottiva, non è una guancia come tutte le altre.

Io: Ci sono stati altri episodi simili?

Desideria: Sì, molti. Voglio raccontartene un altro solo per farti capire che non era una cosa casuale, occasionale, ma continua ed ossessiva. Devi sapere che Viola leggeva ogni giorno, oltre ai giornali italiani, un giornale americano che le arrivava in abbonamento-. Uno di quei giorni, dopo colazione, stava leggendo il giornale, d’improvviso me lo porge dicendo: “Leggi qui.” Prendo il giornale e leggo. Era la storia di un delitto: un uomo aveva attirato una modella fotografica nel deserto nei pressi di San Francisco in California e, con la scusa di fare delle fotografie insolite, l’aveva legata in modo che la povera ragazza, dopo molte ore di agonia, aveva finito per strangolarsi da sé. La polizia aveva arrestato l’assassino e aveva trovato il rullino delle fotografie nelle quali il maniaco aveva ripreso le varie fasi della morte atroce della sua vittima. Ho letto la notizia, poi ho detto: “Che cosa terribile, povera ragazza, quanto deve aver sofferto.” Viola ha risposto: “Si è mantenuta calma fino all’ultimo; le fotografie ne fanno testimonianza. Ha parlato, ha tentato di convincere l’uomo, ha cercato di ritardare la morte tenendo le gambe in modo da non tendere la corda. Alla fine, però, le gambe si sono raddrizzate e lei si è lentamente strozzata da sé. Intanto lui la fotografava, in tutte le fasi della sua morte.” Viola è stata zitta un momento, come sopraffatta da un improvviso turbamento. Poi ha soggiunto con voce bassa e stentata: “Ecco, vorrei che tu ed io facessimo per gioco la stessa cosa. “ A queste parole, la guardo stupefatta e allora riconosco nel suo volto quel rossore impuro ed ardente che a lei saliva dal basso verso l’alto; si sarebbe detto dal ventre, su su per il busto, fino ad investire il collo ed il viso; e che era un indizio sicuro dell’improvviso risveglio dei sensi. Mi metto a ridere, un po’ crudelmente e le dico: “Vuoi che ti strangoli? Ma allora è più facile farlo con le due mani.” “Con le mani non sarebbe più un gioco: o mi strangoleresti davvero o non mi faresti nulla.” “Ma perché desideri che ti faccia quello che ha fatto quel maniaco alla modella? “ “Così.” “Così non è una risposta.” “Vorrei che tu mi legassi e poi facessi delle fotografie: il gioco consisterebbe soltanto in questo.” “Sempre fotografie, perché ti piace tanto fotografare e farti fotografare?” “Una volta ci si guardava negli specchi ma non si era mai naturali. Adesso abbiamo le fotografie per guardarci e vederci come siamo realmente. Che c’è di strano?” “Va bene, sia. Dove vuoi essere legata?” “Non so; dove vuoi tu, anche qui.” Ma eravamo nel soggiorno ed ho risposto: “Qui no, sei matta, se viene qualcuno che penserebbe? Poi non sono buona a fare quel genere di legatura che è descritta nel giornale. Tutto quello che posso fare, è legarti a qualche cosa come un palo o una colonna, come San Sebastiano, e poi scattare le fotografie.” “Un’idea, legami alla balaustra, sul pianerottolo del superatti- co. Tanto nessuno viene a trovare Eros e lui, oggi, è fuori a colazione e non tornerà tanto presto.”

Io: Ma tu perché ti prestavi a questo gioco?

Desideria: Era sempre la Voce, con quella sua idea di impedire a Viola di rientrare nel ruolo materno. Intanto Viola, tutta infatuata, è uscita ed è tornata dopo un attimo con una lunga corda di nylon che aveva trovato non so dove. Abbiamo preso la Polaroid e siamo uscite dall’appartamento. Dal nostro pianerottolo, una scala di legno portava al superatti- co. Siamo salite fino alla porta e allora abbiamo scoperto che, meglio ancora della balaustra, troppo bassa, avrebbe servito al nostro scopo una finestra rettangolare situata presso l’uscio di Erostrato e protetta da un’inferriata molto complicata e robusta. Questa finestra che si apriva dall’interno dello studio, era sempre chiusa; ma la distanza tra l’inferriata e le imposte permetteva di passarci la corda. Inoltre era alta abbastanza per legarci Viola senza costringerla a mettersi in ginocchio, come invece sarebbe stato necessario se l’avessi legata alla balaustra. Così Viola si è messa in piedi sul pianerottolo, il dorso contro la finestra, ed io ho passato la corda tra le sbarre dell’inferriata. Viola si era tolta la giacca ed era restata con le braccia nude fino alle ascelle; gliele ho fatte distendere per quanto larga era la finestra, e, dopo alcuni errori e ripensamenti, sono riuscita a legarle alle sbarre. Quindi ho avvolto la corda intorno al collo e ho legato anche questo all’inferriata. Dal collo ho fatto scendere i due capi della corda fino alla vita, li ho girati due volte intorno al ventre, li ho fatti passare tra le gambe e ho fissato i fianchi alla grata con due nodi molto stretti. Viola stava al gioco con grande serietà; evidentemente le piaceva che recitassi la parte dell’aguzzina; forse sperava che mi eccitassi anch’io. Ho finito di legarla, ho fatto per prendere la Polaroid ma lei mi ha fermato dicendo: “Nell’articolo del giornale, è scritto che l’assassino, prima di fotografare la ragazza, l’ha baciata sulla bocca. Anche tu devi fare lo stesso. “ Ho risposto che questo non faceva parte del gioco, almeno come lei me l’aveva prospettato finora. Lei ha avuto allora questa frase ambigua: “Lo vedi, non sei quella figlia affettuosa che dici di essere. Non vuoi neppure dare un bacio a tua madre.” Ho risposto seccamente: “Va bene, va bene, ma che sia veramente il bacio di una figlia alla madre” e mi -sono avvicinata a lei per accontentarla. Stava davvero nell’atteggiamento della crocefissione, con le braccia distese, legata all’inferriata non soltanto per i polsi ma per il collo, per la vita e per i fianchi. Le braccia tonde e giovani avevano la parte interna rivolta in fuori, con le vene rese visibili dallo sforzo, azzurre e rilevate; la corda che le avevo girato tre volte intorno al collo, le faceva come gonfiare la faccia, le dava un’aria congestionata ed infantile. Mi ha colpito l’assurdità dèi gioco; ma la Voce mi ha rimbeccato: “L’erotismo è sempre assurdo. Più la spingerai in questa direzione, meglio sarà.” Ho alzato gli occhi verso Viola e allora, con sorpresa, ho visto che piangeva esattamente con lo stesso genere di pianto che aveva avuto nella mia camera quando l’avevo schiaffeggiata: un pianto non tanto di dolore, quanto di desiderio esasperato e inappagato e perciò doloroso. Ho chiesto allora levando una mano e asciugandole con le dita le lagrime sulle guance: “ Perché piangi? Adesso ti fotografo e poi ti slego.” “No, non fotografarmi, slegami subito, credo che il gioco sia proprio finito.” Questo ripensamento ha fatto imbestialire la Voce, come se, all’ultimo momento, Viola fosse sfuggita d’istinto ad una specie di agguato. Ha gridato: “Slegala pure, ma prima baciala sulla bocca, sì, ficcale la lingua nella bocca, proprio dentro prima di slegarla.” Non ho osato disubbidire del tutto alla Voce ma non ho voluto che il bacio fosse un bacio d’amore come lei mi suggeriva. Ho detto a Viola: “ Come vuoi, ma non piangere; ecco adesso ti dò il bacio” e le ho scoccato un secco bacio sulle labbra. Allora ho sentito che mormorava: “Dammi un vero bacio, dammi la lingua, “ ma ho finto di non udire e mi sono affaccendata a disfare i nodi della corda. Alla fine lei si è staccata dalla finestra sfregandosi le braccia ed il collo indolenziti e ha detto: “Siamo due vere pazze” con un tono di stravolta ed intensa complicità e come parlando a se stessa.

Io: Così non ha voluto che tu la fotografassi crocefissa alla finestra di Erostrato. Perché?

Desideria: Suppongo perché all’ultimo momento si è ricordata che dopotutto era la mia madre adottiva.

Io: Ma poi ti ha supplicato di darle un bacio non precisamente filiale.

Desideria: Per lo stesso motivo ma inverso: si era quasi subito stancata del ruolo di madre e voleva tornare a quello di amante.

II

 

 

 

 

 

 

 

Io: Con la frase: “Slamo due pazze,” Viola ha inteso dire che ormai eravate poco meno che amanti. D’altra parte, però, tu mi hai detto che lei non ti aveva ancora mai proposto esplicitamente l’amore a tre il quale nella sua intenzione doveva essere l’espressione suprema della vostra pazzia. Alla fine poi, te l’ha proposto o ha continuato a girarci intorno? Insomma eravate “due pazze” davvero o no?

Desideria: Sì, me l’ha proposto.

Io: Esplicitamente?

Desideria: Nella maniera più franca.

Io: Così debbo pensare che la questione dell’amore a tre finalmente è stata posta tra te e Viola. E come l’avete risolta?

Desideria: Non l’abbiamo risolta, l’abbiamo vissuta.

Io: Cosa vuoi dire?

Desideria: Che nella vita non ci sono problemi cioè scelte oggettive ed esterne; c’è soltanto la vita che noi non risolviamo come un problema ma viviamo come . un’esperienza, qualunque sia poi l’esito finale.

Io: Allora, diciamo pure, come hai vissuto la questione dell’amore a tre?

Desideria: È stata Viola a costringermi a viverla.

Una di quelle sere ritorno a casa poco dopo la mezzanotte, dopo essere stata al cinema con degli amici e vedo che il soggiorno è illuminato. Mi affaccio, scorgo Viola seduta tutta sola su un divano, davanti ad un tavolo sul quale noto, oggetti per me significativi, la bottiglia del whisky ed un bicchiere mezzo pieno. L’ho salutata da lontano e ho fatto per ritirarmi; ma lei mi ha fermato, alzando la mano e muovendo il solo indice, in quella maniera confidenziale e perfino un po’ losca che equivale ad una frase come, per esempio: “Ehi tu, carina, vieni un po’ qui, debbo dirti qualche cosa.” Ho capito, da questo gesto, che era ubriaca, e che probabilmente si era ubriacata apposta per dire o magari fare qualche cosa che altrimenti non avrebbe avuto il coraggio di dire o di fare.

Io: Perché, era timida Viola?

Desideria: No, ma c’era in lei quella continua oscillazione tra il ruolo di madre e quello di amante: l’alcool le permetteva di fermare il pendolo nella direzione della passione incestuosa.

Io: E allora?

Desideria: Allora, mi sono avvicinata malvolentieri di un passo o due; ma lei, adesso, con la distrazione quasi canzonatoria dei beoni, si era già disinteressata di me e badava a versarsi il whisky nel bicchiere ancora pieno. Poi ha detto tra i denti senza alzare la testa: “Ma perché non ti avvicini di più? Di che hai paura? “ Ho fatto ancora un passo avanti; adesso le ero proprio vicina; e allora, tutto ad un tratto, lei ha avuto verso di me come uno scatto di bestia selvatica in agguato tra l’erba; ed eccomi, d’improvviso, afferrata per il vestito, tirata giù sul divano, sbattuta di schianto supina, con lei che mi stava sopra e che, come potrebbe fare un uomo, mi metteva la mano frenetica sotto la gonna e cercava di denudarmi. Poi, ecco, la gonna mi viene rivoltata con un solo colpo sul viso; imbacuccata ed accecata, sento i denti di Viola addentarmi al pube con una violenza strana, insieme vorace e prudente che mi fa pensare di nuovo ad un animale, un gatto per esempio, il quale addenta un suo piccolo e lo trasporta in salvo. In realtà, come ho capito, più che di mordermi, Viola pareva avida di riempirsi la bocca di carne e di pelo, come se avesse fame di me o meglio di quella parte del mio corpo che in quel momento eccitava il suo desiderio.

Io: E tu?

Desideria: Io ho avuto una reazione tra la paura e la sorpresa, come se fossi scivolata in terra. Mi sono liberata con violenza dalla gonna che mi avvolgeva la testa, ho respinto Viola con un calcio e sono balzata in piedi.

Io: E Viola?

Desideria: Si era rimessa a sedere e, come se niente fosse, si chinava a riprendere il bicchiere sulla tavola. Poi ha cominciato a parlare senza guardarmi, a testa china, gli occhi rivolti in basso, il bicchiere in mano: “È dalle dieci che ti aspetto, adesso è quasi l’una. Sono quasi tre ore che ti aspetto qui, tutta sola.” “Mamma, non sapevo che mi aspettavi.” “Ti ho aspettato tre ore ma avrei anche aspettato di più perché devo assolutamente parlarti.” “Dimmi, mamma.” “Tra noi due c’è una situazione impossibile che va assolutamente chiarita.” “Quale situazione?” “Non fingere di non capire. Tu sai benissimo che fra di noi due c’è una situazione impossibile che va chiarita, lo sai e allora perché mi chiedi quale situazione? “ “Non ti capisco, mamma.” “Non chiamarmi mamma, lo sai che non siamo madre e figlia. Siamo state per molto tempo due estranee e adesso siamo qualche cosa di diverso, di molto diverso da una madre ed una figlia.” “Ma che dici mamma?” “Siamo due amanti, che tu lo ammetta o no. Ma siccome fingi di ignorarlo, voglio che la nostra situazione sia chiarita. Lo voglio assolutamente. Hai capito? Lo voglio assolutamente, proprio assolutamente.” Ripeteva questo suo “assolutamente” a fronte bassa, proprio da ubriaca com’era. Ho detto, con impaccio: “Sì, capisco o meglio non capisco.” “Per prima cosa non chiamarmi mamma, chiamami Viola.” “Sì, Viola.” “Anzi Violetta.” “Violetta?” “Sì, Violetta è il nome che mi dà Eros. Anche tu devi chiamarmi Violetta. “ “Non ti capisco, Viola, o meglio, voglio dire, Violetta.” “Non mi capisci, eh!” “Non ti capisco, penso che è tardi e dobbiamo andare a dormire.” “Eh no, non prima che la situazione tra noi due sia chiarita.” “Allora, va bene, chiariamo ia situazione. Parla.” “Io parlo, chi dice che non parlo? parlo e dico la verità. E la verità è che tu sei la puttana di Eros e al tempo stesso sei la mia puttana. E allora, visto che sei la puttana di Eros e la mia puttana, non vedo perché non potresti essere la puttana di tutti e due.” “Scusami, Viola, ma io non capisco nulla. Non sono la tua puttana, non sono la puttana di Eros, non voglio essere la puttana di voi due né di nessuno.” “Ecco, lo vedi che avevo ragione io, tu non vuoi riconoscere che, tra noi due, c’è un rapporto d’amore, molto tenero, molto bello, molto profondo. E invece c’è, ed è per questo che io ti dico che la situazione va chiarita. Sì, assolutamente chiarita fino in fondo. Tutto deve essere chiaro tra di noi, non più commedie, infingimenti. Tutto deve essere chiaro: tu, Eros ed io dobbiamo abbattere la barriera di ipocrisia che ci divide e tutto deve essere chiaro, chiarissimo una buona volta.” Continuava a parlare da beona, sempre a testa bassa, il bicchiere in mano. Mi è venuta compassione, le ho steso la mano, le ho fatto una carezza e le ho detto: “Non lo vedi che tutto è chiaro e che non c’è bisogno di chiarire nulla? Non hai forse detto che tra di noi c’è qualche cosa di molto bello, molto tenero, molto profondo? Ebbene fermiamoci qui e andiamo a dormire. “ “Allora lo ammetti che sei la mia puttana! “ A queste parole ho fatto una giravolta e sono scappata dal soggiorno.

Io: Sei andata a dormire?

Desideria: Sì. Ma non ho dormito. Ho passato gran parte della notte sveglia.

Io: Perché?

Desideria: Perché tra me e la Voce è scoppiata la disputa peggiore che ci fosse stata finora tra di noi.

Io: E cioè?

Desideria: D’improvviso, mi è apparso, come si diceva una volta nei romanzi d’appendice, l’abisso o se preferisci un termine scientifico, il buco nero in cui la Voce mi stava facendo precipitare e ho puntato i piedi, rifiutando di caderci.

Io: Fuori di metafora, cos’hai rimproverato alla Voce?

Desideria: Di avermi portata, per gradi, con il pretesto prima della dissacrazione e poi della rivoluzione, a diventare l’amante di mia madre e l’amante dell’amante di mia madre.

Io: Questo era l’abisso, ossia il buco nero; come hai fatto a puntare i piedi per non caderci ?

Desideria: Prima di tutto, per un pezzo, sono riandata con la memoria a quello che era avvenuto tra me e Viola, quella sera. Ero disperata; mi rendevo conto che non ero né la ragazza integra a cui una proposta come quella di Viola riesce incomprensibile, né la rivoluzionaria smaliziata che la Voce avrebbe voluto che fossi. La disperazione veniva dalla coscienza della mia debolezza di fronte alla passione di Viola che, invece di farmi orrore, come avrei voluto, mi turbava e in qualche modo mi tentava.

Io: Ti tentava?

Desideria: Mi sembrava di sentire ancora al pube, il morso che Viola ci aveva dato; nel silenzio e nel buio della camera, quella sensazione mi appariva come staccata dalla persona che l’aveva provocata e, per questo, in qualche modo, accettabile ed innocente. Ma quasi -subito, ricordavo Viola, seduta sul bordo del divano, curva sopra se stessa, in atto di ripetere, con l’ostinazione della beona, die la nostra situazione andava chiarita; e mi rendevo conto che quel morso l’aveva dato proprio lei, che era la mia madre adottiva, e che la sensazione del morso non era separabile da lei.

Io: Qual è stato il risultato di questa rievocazione?

Desideria: È stato che d’improvviso ho detto alla Voce: “Basta, non voglio più darti retta. Mi hai fatto credere una quantità di balle ma adesso basta.”

Io: Quali erano le “balle”?

Desideria: Tutto: il piano di trasgressione e dissacrazione, dettato a Zermatt con tanta solennità che, poi, si era ridotto ad alcune azioni dimostrative del tutto insignificanti; la rivoluzione che, secondo lei, avrei dovuto attuare con l’aiuto del mantenuto di Viola. Tutto. “In realtà,” ho concluso, “sono soltanto una modesta ragazza borghese che non va d’accordo con la propria madre adottiva. Sai che cosa deve fare questa ragazza? Secondo me, mettere da parte tutte le balle della sua cosiddetta Voce, affittare un quartierino di due camere e cucina ed andarci a vivere da sola. Tutto qui.”

Io: Un discorso pieno di buon senso. E come ha reagito la Voce?

Desideria: Con calma, lucida e razionale: prima di tutto ha confermato la sua idea che E piano era stato giusto e necessario e adesso non poteva fermarsi alla sfera privata ma doveva logicamente trapassare nella pubblica. D’altra parte, ha riconosciuto volentieri che la situazione tra me e Viola era giunta ad un punto morto. Occorreva sbloccarla, appunto, con qualche cosa di eccezionale e di violento, che lei ha subito designato con il termine di azione rivoluzionaria. Ma quest’azione dipendeva purtroppo da Erostrato, dalla serietà della sua promessa di presentarmi al gruppo di Milano. Da qualche tempo, però, Erostrato pareva essersi dimenticato della sua promessa. Secondo la Voce, dovevo rinfrescargli la memoria, costringerlo a mantenere la promessa, insomma: metterlo alla prova. In che modo? A questo punto la Voce mi ha fatto una proposta straordinaria.

Io: Una proposta non meno straordinaria te l’aveva fatta Viola. E quale era la proposta straordinaria della Voce?

Desideria: Sempre calma e ragionevole, la Voce mi ha spiegato che per mettere veramente alla prova Erostrato, dovevo alzare il tiro, cioè rendere più impegnative le mie richieste. Finora si era trattato solamente di essere presentata al gruppo di Milano. Adesso dovevo imporre ad Erostrato di organizzare un sequestro.

Io: Un sequestro?

Desideria: Sì, un sequestro politico in piena regola e con il solito rituale: rapimento, custodia in un carcere popolare, richiesta del riscatto, eccetera, eccetera.

Io: E chi era la persona che la Voce pensava di sequestrare?

Desideria: Naturalmente, Viola.

Io: Viola? Desideria a questo punto non potrai sperare che ti creda.

Desideria: Eppure è la verità. La Voce ha detto proprio così: “Va bene, facciamo un ultimo tentativo per far uscire Erostrato allo scoperto. Proponiamogli di organizzare il sequestro di Viola.”

Io: Non mi sono spiegato. Ti credo quando mi dici che la Voce si è espressa in questo modo. Ma non posso fare a meno di pensare che un’idea simile non può venire in mente che ad una mitomane in preda a un lucido quanto incontrollato delirio.

Desideria: Ma se ho protestato subito che era una follia. Che non ci stavo a nessun patto. Che non se ne parlava neppure.

Io: Però, alla fine, a quanto pare, hai ceduto.

Desideria: Sì.

Io: Perché, visto che ti pareva una follia?

Desideria: Per piegare la mia volontà la Voce è ricorsa a un mezzo eccezionale e imprevisto.

Io: Quale?

Desideria: Ha provocato in me qualche cosa di simile alla convulsione di un’indemoniata.

Io: Indemoniata?

Desideria: Giudica tu stesso: dopo aver respinto il progetto del sequestro mi volto nel letto, decisa a dormire. Ed ecco che mi sento invasa improvvisamente da una inquietudine incontenibile. Butto per aria le coperte, getto via il cuscino, sbarro gli occhi nel buio, mi prendo la testa tra le mani ed ascolto. Allora sento la Voce che mi sussurra dall’oscurità: “Sei legata, sei in trappola, sei in gabbia; devi liberarti, devi riacquistare la tua libertà, lo devi, a qualsiasi costo.” A queste parole segue una crisi violenta come di epilessia. Dò in convulsioni, digrigno i denti, agito le braccia e le gambe, mi dibatto con estrema violenza come lottando contro qualcuno o qualche cosa che voglia tenermi ferma e rinchiusa. La camicia mi impaccia, me la strappo, sono nuda, mi graffio i seni e il ventre, mi tiro i peli del pube, mi acciuffo i capelli e mi sbatto la testa contro la colonnina del letto, con una tale forza che perdo la conoscenza, casco giù sul pavimento e lì rimango, inebetita e spossata, rotta per tutto il corpo, in un inerte e ottuso dormiveglia che dura fino al mattino. All’alba, probabilmente, mi sono alzata, sono risalita sul letto e rannicchiata su me stessa, senza coperte, tutta nuda, sono piombata in fondo a una specie di letargo. Quando mi sono svegliata, era mezzogiorno e ho subito capito che la Voce, con le buone e con le cattive, aveva avuto ragione della mia resistenza. Adesso non pensavo più di andarmene via di casa a vivere per conto mio, da sola; il sequestro di Viola mi appariva non soltanto giusto ma anche inevitabile. Un avvenimento di quella mattinata ha dato ragione alla Voce.

Io: Quale avvenimento?

Desideria: Mentre bevo il caffè in cucina come sono solita ogni mattina, il cameriere si affaccia e mi dice che c’è una ragazza, di là in anticamera, che desidera parlarmi. Gli domando chi è, risponde che non ha voluto dire il suo nome. Mi alzo, vado nell’anticamera. La ragazza sta in piedi davanti allo specchio della console, per un momento l’ho vista soltanto di spalle. Indossava la solita divisa giovanile di quegli anni, il maglione e i blue-jeans, gli indumenti che avevo io stessa in quel momento, ma mi è bastato uno sguardo per vedere che erano dei blue- jeans e un maglione speciali, voglio dire, delle imitazioni quasi parodistiche e, comunque, lussuose, confezionate per un genere di clientela desiderosa non già di spendere poco ma di essere alla moda. Il maglione era molto corto, di una splendida lana nera, lucida e gonfia; i blue-jeans, senza toppe né sdruciture, salivano fin quasi al seno, stretti alla vita da un’alta cintura di cuoio con borchie di ottone e avevano sulla natica sinistra un ricamo rosso in forma di cuore. La ragazza era di spalle larghe, con la vita stretta, i fianchi ampi, le gambe alte. Non so perché mi è venuto fatto di pensare che avevo già visto quella schiena e quelle gambe. Poi si è voltata; e allora ho capito chi era.

Io: Chi era?

Desideria: Ero io. Gli stessi capelli castani, chiari e lisci; lo stesso genere di viso un po’ lungo e dai tratti germanici; lo stesso collo forte e nervoso; la stessa espressione troppo seria e quasi ombrosa. Ho notato che portava il maglione sulla pelle nuda, come me; e ho avuto per un momento la strana sensazione che il suo seno fosse il mio e che la lana del suo maglione sfregasse e indurisse non già i suoi ma i miei capezzoli. Poi la ragazza ha parlato con una voce che non era la mia, dall’accento straniero; e infatti, come ho saputo in seguito, era austriaca. Ha detto tendendomi la mano: “Mi chiamo Brigitte. Veramente avrei dovuto parlare con tua madre ma preferisco non vederla. Tu ti chiami Desideria, non è vero? Bene, Desideria, va’ da tua madre e dille che ieri ho dimenticato nel suo appartamento la mia patente di guida. Dille che ti dia la chiave dell’appartamento e poche storie. Poi tu mi accompagni, io prendo la patente e ti riporto a casa.”

Io: Ma quale appartamento?

Desideria: Ovviamente, quello in cui Viola ed Erostrato si incontravano con le squillo.

Io: E tu cosa hai detto?

Desideria: Non ho detto nulla. La guardavo, ero tuttora colpita dalla sua rassomiglianza con me. Questa rassomiglianza mi turbava come può turbare, vista d’improvviso e di sorpresa, la propria immagine in uno specchio. Brigitte ha scambiato questo silenzio per un atteggiamento ostile e allora ha fatto un gesto sgarbato e impaziente, quasi a significare che dovevo ubbidirle: “Su, vai, perché mi guardi? Sono una ragazza come te, che ho di speciale da guardarmi in questo modo?” Ho detto trasognata: “Lo vedo che sei una ragazza come me. Vado subito a prendere la chiave.” Ho fatto un giro sopra me stessa, sono uscita dall’anticamera e sono andata di corsa nella camera di Viola. L’ho trovata ancora a letto, che leggeva il giornale, tenendolo spiegato in aria, davanti agli occhi. Ho detto tutto di un fiato: “C’è di là Brigitte. Dice che ha lasciato la sua patente nel tuo appartamento. Devi darmi la chiave, così l’accompagno, lei prende la patente e poi mi riporta qui.”

Io: Cosa ha detto Viola?

Desideria: Molto poco. In quel momento era americana al cento per cento, magari con la crudele sensualità che è propria del puritanesimo, ma senza neppure l’ombra del sentimentalismo italiano. Ha indicato il comò, con un gesto della mano, continuando a tenere gli occhi sul giornale. Ha detto: “La chiave è nella mia borsa e la borsa è nel primo cassetto. Guarda, è una chiave con un cartellino con sopra scritto: Via Gaeta.” Sono andata al comò, ho aperto il cassetto e poi la borsa, ho trovato subito la chiave. Viola d’improvviso ha soggiunto: “Ci deve anche essere nella borsa, una busta con delle fotografie. Dammela.” Ho fatto come mi chiedeva; ha aperto la busta, ne ha estratto alcune fotografie e le ha esaminate una per una; quindi me ne ha dato due, dicendo: “Da’ a Brigitte anche queste due fotografie, da parte mia. Dille che le telefonerò al più presto.” Ho preso la busta e sono uscita. Nel corridoio, ho aperto la busta e ho guardato le fotografie. In ambedue si vedevano Brigitte e Erostrato, nudi, in due posizioni diverse: nella prima, Brigitte era a quattro zampe; Erostrato, in piedi, la penetrava da dietro; nella seconda Brigitte stava inginocchiata e faceva l’amore orale a Erostrato che era anche qui in piedi. In ambedue le fotografie si vedeva Brigitte tutta intera; di Erostrato, invece, soltanto la parte di mezzo del corpo, senza né piedi né testa. Ma ho intuito lo stesso che era lui, dalla mano con la quale si premeva la testa di Brigitte contro il ventre; quella mano che mi pareva così volgare e aveva all’anulare l’anello con le cifre intrecciate sul castone. Ho pensato che Viola mi aveva dato queste fotografie apposta, affinché le guardassi e mi riconoscessi non soltanto, nella persona fisica di Brigitte ma anche nella sua funzione di ragazza di turno nell’amore a tre. Ho rimesso le fotografie nella busta, l’ho intascata e sono passata nell’anticamera. Brigitte mi aspettava, tuttora in piedi, appoggiata alla console. Aveva acceso una sigaretta; quando mi ha visto l’ha gettata in terra e l’ha schiacciata con la punta dello stivale. Senza dir nulla, ho aperto la porta e l’ho preceduta di fuori. Nella strada, Brigitte mi ha sorpassato, dirigendosi verso la macchina. Camminava davanti a me, coi grandi passi delle gambe alte forti ed eleganti, mettendo nei movimenti un’energia sprezzante che dava risalto ai muscoli delle natiche. Era davvero una splendida creatura, dotata in alto grado di quella bellezza dura e severa che Viola pareva tanto ammirare in me. Ma, insieme, mi rendevo conto che, quella durezza e quella severità, che in me erano spontanee e disinteressate, in Brigitte andavano considerate come una precisa e consapevole specialità erotica che lei offriva in vendita ai suoi clienti. È salita in una piccola utilitaria, mi sono seduta accanto a lei, la macchina è partita. Dopo un poco, mentre lei guidava, gli occhi rivolti alla strada, le ho chiesto: “Sei stata una sola volta nell’appartamento o più volte? “ Ha alzato una mano con quattro dita: “Quattro volte.” “In che modo hai conosciuto Viola?” “Me l’ha presentata un’amica.” “Che era stata anche lei nell’appartamento?” “Sì, parecchie volte.” “Come hai fatto a sapere che Viola aveva una figlia e che mi chiamavo Desideria? “ “Me l’ha detto lei stessa. Ha detto che ti somigliavo; non fa che parlare di te. Ma di’ un po’...” “Che cosa?” “Tua madre non avrebbe, per caso, preso una cotta per te?” “Non è mia madre, è la mia madre adottiva.” “Adesso capisco. Succede. Io per esempio ho fatto l’amore con il mio patrigno.” “Nell’appartamento, ci hai incontrato uno che si chiama Eros?” “Sì.” “Ti era simpatico?” “Non mi era né simpatico né antipatico, mi era indifferente.” “Viola mi ha detto di darti queste fotografie. È Eros, l’uomo con te? “ Le ho messo le fotografie sul volante; lei ci ha buttato una rapida occhiata e ha detto: “Sì è lui. Ma non so cosa farmene delle fotografie. Tienile come mio ricordo.” “Ricordo di che cosa?” “Di me, delle mie gambe, del mio corpo. Poco fa mi guardavi in una certa maniera. Con quella fotografia, potrai continuare a guardarmi.” “Mia madre mi ha detto che ti telefonerà al più.presto.” “Per me, può telefonarmi quanto vuole, non mi vedrà più.” “Perché, che ti ha fatto?” “Intanto, quella fissazione della Polaroid; non m’importa di essere fotografata, ma c’è un limite. E poi è violenta tua madre, mi ha .messo le mani addosso, voleva che la schiaffeggiassi e secondo lei non lo facevo tanto bene. Alla fine avrei dovuto farmi chiamare Desideria e dirle: ‘Sì mamma, 110 mamma.’ Ah no, troppe complicazioni, non fa per me.” Ho esitato, mentre lei parlava: dovevo strappare le fotografie oppure conservarle? La Voce è intervenuta: “Conservale, serviranno per Erostrato.” “Ma in che modo?” “Per ricattarlo, costringerlo a presentarti al gruppo.” Sempre il gruppo! Ho intascato le fotografie. Brigitte ha detto: “Lo sai che mi sei simpatica? Hai qualche cosa che proprio mi piace.” Non ho risposto nulla; così siamo rimaste zitte fino a Via Gaeta. A Via Gaeta, Brigitte ha parcheggiato la macchina di fronte ad una piccola porta di legno chiaro, dal pomo e dalla serratura di ottone ben lucidati. Accanto a questa porta così nuova, si vedeva una serranda di negozio, di quelle di vecchio tipo, di lamiera ondulata, tutta rugginosa e polverosa, abbassata fino a terra e fissata al suolo con un grosso lucchetto. Brigitte mi ha detto con improvvisa aria di simpatia, senza muoversi, la chiave già in mano: “Vuoi venire anche tu, su nell’appartamento?” Ho pensato che era una curiosa maniera di manifestare la propria benevolenza, ho detto incerta: “Se vuoi, non ci sono mai stata.” Mi guardava con quei suoi occhi liquidi e trasparenti, di un azzurro vitreo. Ha detto con voce tranquilla: “Mi piaci, davvero, forse perché ci somigliamo. Vieni su, facciamo l’amore, ti farò pagare poco, il meno possibile. Ma facciamo presto, perché mi aspettano in un altro luogo. “ Sono rimasta colpita dalla spontaneità del tutto priva di consapevolezza che appariva in questa offerta; non ho potuto fare a meno di pensare che bellezza ed incoscienza facevano di Brigitte una specie di animale non tanto diverso da un bellissimo cavallo da corsa e da un magnifico cane di razza. Così, è stato proprio con il tono di rammarico di un conoscitore che si trovi a corto di quattrini, che ho risposto: “Adesso, no; magari un’altra volta.” “Come vuoi. “ Ha aperto lo sportello, è balzata fuori, ha attraversato la strada, è scomparsa nel porton- cino di fronte. Sono rimasta ferma e come stupefatta, guardando la strada stretta e lunga, con pochi negozi di aspetto modesto, molte case squallide e insignificanti e, laggiù in fondo, a quanto sembrava, un’officina: si vedeva un uomo in tuta azzurra che si dava da fare intorno a un’automobile col cofano aperto. Ed ecco, d’improvviso, la Voce grida: “Eureka! Ho trovato il luogo dove terremo Viola, una volta che l’avremo rapita.” “E qual è questo luogo?” “Ma qui, in questo stesso appartamento che lei ha affittato per farci le sue orge.” “Ma sei pazza? “ “No, non sono pazza; c’è una logica in tutto questo. Trasformeremo la volgare garsonnière borghese in un carcere popolare, purificheremo l’appartamento, per così dire lo riconsacreremo. “ “Ah, ecco, anche per te ci sono delle cose sacre.” “Si capisce, tutto quello che ha a che fare con la rivoluzione è sacro. Questo appartamento è un bordello; mettendoci Viola sequestrata, lo riconsacreremo come dimora umana. “ Ha continuato su questo tono, tra esaltato e dimostrativo; quella che lei chiamava “logica”, le dava alla testa come un vino troppo forte; poi, ecco, la porta si è riaperta e Brigitte è uscita nella strada. È risalita in macchina, ha chiuso lo sportello, ha acceso il motore e mi ha chiesto se volevo che mi riportasse a casa. Così dicendo, mi porgeva la chiave, con aria distaccata come per dire: “Fra di noi tutto è finito prima ancora di cominciare.” Sono stata zitta un momento, mi era venuta un’idea strana e folle. Brigitte mi somigliava, era pronta a fare per denaro tutto quello che non mi sentivo di fare per alcuna ragione; perché non proporle di prendere il mio posto in casa e fuori di casa, con Viola, con Erostrato, con Tiberi e tutti quanti? Con lei sarebbero scomparsi i dubbi; la rivoluzione sarebbe stata definitivamente accantonata; l’amore a tre non sarebbe più stato un problema; il sequestro sarebbe sfumato; la Voce se ne sarebbe andata definitivamente, chissà dove, come se ne andava laggiù, in fondo alla strada, un mulinello di polvere e di cartacce che un’improvvisa folata di vento stava sospingendo via. Ma la Voce mi ha ricondotta alla realtà proprio come un ufficiale ligio al dovere riconduce in prima linea il soldato fuggiasco: ‘ “Non ti fare illusioni. Sei quello che sei e non puoi cambiarti con un’altra. Forse quella mattina, da Diomira, avresti potuto ancora diventare una come Brigitte. Invece hai scelto me, una volta per tutte; e adesso non ti resta che andare avanti con me per la strada che hai imboccato quel giorno, anche se ti fa paura. “ Tutto questo è avvenuto in un attimo. Poi ho detto a Brigitte che avevo da fare da quelle parti e sono discesa in fretta dalla macchina.

Io: Così la Voce ti ha fatto definitivamente accettare l’idea del sequestro di Viola, come la sola cosa che ti restasse da fare?

Desideria: In qualche modo, sì.

Io: Ma ti pareva giusto sequestrare la tua madre adottiva?

Desideria: A me per niente; pareva giusto alla Voce.

Io: A proposito, ammettendo che il sequestro riuscisse e Viola pagasse il riscatto, cosa intendeva fare la Voce del denaro così ottenuto?

Desideria: Mi ha fatto capire che avrebbe potuto servire a finanziare il gruppo rivoluzionario di Erostrato o qualsiasi altro gruppo dello stesso genere.

Io: Ma era poi sicuro che Erostrato facesse parte di un gruppo? e che il grappo esistesse davvero?

Desideria: No, non era sicuro affatto. Per esserne sicura una di quelle mattine ho telefonato a Erostrato e gli ho detto che desideravo parlargli, ma non a casa mia e neppure nel superattico. Abbiamo allora fissato un appuntamento a mezzogiorno, a Villa Borghese, dove mi recavo qualche volta a far passeggiare il mio cane.

III

 

 

 

 

 

 

 

Io: Che cane avevi?

Desideria: Un bruttissimo bastardo che avevo preso al canile municipale di Porta Portese. La Voce aveva voluto che prendessi un bastardo come per sfida contro i cani di razza che all’ora della passeggiata si vedevano scorazzare su e giù per i prati con i loro padroni pariolini, eleganti e ben vestiti. L’avevo chiamato Bico e alla fine mi ci ero molto affezionata.

Io: Perché Bico?

Desideria: Da bicolore. Era una specie di lupo, con il corpo esattamente diviso in due parti di colore diverso: la parte anteriore molto scura, la parte posteriore molto chiara.

Io: Allora tu metti il cane nella macchina e vai a Villa Borghese. Che succede adesso?

Desideria: Ho parcheggiato la macchina presso la staccionata, sotto gli alberi. Il cane è saltato fuori ed è corso subito giù per il pendio, verso i prati. Ho scavalcato la staccionata e l’ho seguito, il guinzaglio in mano. Ho subito visto Erostrato che mi veniva incontro, e l’ho guardato mentre camminava. Allora ho notato un tratto fisico, che, chissà perché, mi era finora sfuggito.

Io: Quale?

Desideria: Ho visto che aveva le gambe storte come ce l’hanno talvolta i giapponesi che, da bambini, vengono portati a cavalcioni dalla madre. Dopo le mani, dopo il pene, è stato il terzo particolare fisico che in maniera inspiegabile mi ha dato l’impressione della volgarità. Ed anche questa volta ho provato di nuovo il senso di solidarietà fraterna, come da plebea a plebeo. Poi ho ricordato la frase ossessiva ed ottusa che Viola aveva ripetuto tante volte due sere prima: “Dobbiamo chiarire la nostra situazione”; e mi sono detta che dovevo davvero chiarire il rapporto con Erostrato ma non da beona, come Viola, bensì da persona affettuosa e razionale. Sì, dovevo metterlo alla prova col mezzo drastico del sequestro; ma, soprattutto, dovevo fornirgli l’occasione, l’ultima, di tirarsi fuori dalla menzogna in cui si era avviluppato. Ho pensato queste cose; benché la Voce mi disapprovasse, mi sono commossa e mi sono sentita molto sollevata.

Io: La Voce ti disapprovava?

Desideria: Sì, la Voce considerava Erostrato nien- t’altro che un mezzo per conseguire un certo fine. Tutto il resto era sentimentalismo e non serviva a nulla.

Io: Che ti ha detto Erostrato quando vi siete incontrati?

Desideria: Stavo in piedi su un monticello erboso con tante foglie morte gialle e rosse ammucchiate intorno a me, si era a metà dicembre, l’autunno stava per finire. Erostrato è salito fino a me, sdrucciolando sull’erba e, una volta arrivato in cima al monticello, mi ha detto con la sua voce più profonda e più emozionata: “Lo sai, che stamattina, quando ho sentito la tua voce al telefono, sono stato così contento che dopo, mentre mi facevo la barba, mi sono sorpreso a cantare? “ Ho provato un improvviso senso di irritazione al pensiero che lui parlava sempre con quel tono commosso, qualsiasi cosa dicesse; e gli ho risposto seccamente: “Devo parlarti ed è per questo che ti ho fatto venire qui. Non si tratta di un appuntamento tanto per vederci ma di qualche cosa di molto preciso.” “Preciso? E cioè? “ “E cioè io non posso più aspettare.” “Aspettare che?” In quel momento il cane ha risalito il monticello con un ramo secco tra i denti per il solito gioco di farsi gettare il ramo e poi riportarmelo indietro; gli ho tolto il ramo dalla bocca, l’ho lanciato lontano; e poi ho detto: “Aspettare che arrivi il tuo compagno da Milano. Intanto, che importa il compagno? Possiamo cominciare ad agire noi, da soli; quando viene, sarà contento di scoprire che non siamo stati con le mani in mano.” “Ma agire in che modo?” “Come mi dici sempre tu, a livello rivoluzionario. “ Ha fatto finta di non notare l’ironia e ha detto: “A livello rivoluzionario possiamo agire, certo, senza bisogno di aspettare il compagno. Ma vorrei sapere prima di tutto in che cosa consisterebbe l’azione.” “Tu conosci una squillo austriaca che si chiama Brigitte? “ In quel momento Erostrato guardava i prati sparsi di cani che correvano di qua e di là con i padroni che passeggiavano lentamente su e giù per i pendii annebbiati, sotto gli alberi dai rami spogli e distesi in tutte le direzioni, come in gesti di costernazione e di richiamo. È stato zitto un po’ a lungo, alla fine ha risposto: “La conosco; e allora? “ “Allora ieri si è presentata a casa e ha chiesto di Viola. Diceva che aveva dimenticato la patente nell’appartamento di Via Gaeta dove tu, Viola e lei vi eravate incontrati il giorno prima. Mi sono fatta dare la chiave da Viola, sono salita in macchina con lei e tutte due insieme siamo andate a prendere la patente. Allora mentre l’aspettavo in strada, che era salita nell’appartamento, mi è venuta un’idea. “ “Quale idea? “ “Viola mi sta addosso affinché la prossima volta io prenda il posto di Brigitte, a Via Gaeta. Non protestare, è così. Ebbene, l’azione che ti propongo consisterebbe in questo: andiamo tutti e tre a Via Gaeta e quando siamo lì, noi due saltiamo addosso a Viola, la leghiamo ben bene, la chiudiamo in una stanza, poi scriviamo alla famiglia, cioè a me stessa e chiediamo una grossa somma di riscatto. Io prendo la lettera e la porto da Tiberi il quale ha la procura di Viola. Tiberi preleva il denaro dalla banca e me lo consegna. Quando arriva il compagno da Milano, gli diamo il denaro come contributo al finanziamento del gruppo: e poi si vede.” “E Viola? “ “Viola ritorna a casa dove io, cioè la famiglia, l’aspetto a braccia aperte.” “E se ci denuncia? “ “Non ci denuncia, sta’ tranquillo. Prima di tutto non lo saprà e poi, anche se lo sapesse, non ci denuncerebbe. Non mi ha denunciato quando ho tentato di ammazzarla, non mi denuncerà, a maggior ragione, per un po’ di milioni che le porto via.” Questa volta non ha detto nulla, è rimasto fermo e zitto guardando ai prati, ai cani e ai padroni dei cani, con le mani ficcate nelle tasche del giaccone. Il cane è tornato con il ramo in bocca, glielo ho tolto e l’ho rilanciato lontano, quindi ho detto a Erostrato, con leggerezza, tranquillamente : “Tu ci guadagnerai, oltretutto. Ti darò, diciamo, il dieci per cento della somma che ricaveremo dal riscatto.” Non ha detto nulla, di nuovo; poi, con improvvisa decisione, si è mosso, ha preso a scendere rapidamente dal monticello. La Voce mi ha gridato, allora: “Lo vedi, scappa! È un vigliacco, un bugiardo; il gruppo non esiste, non esiste nulla salvo il suo enorme cazzo e il denaro che ne ricava. Ma digli la verità in faccia una buona volta, digliela. “ Non so perché, questa volta gli incitamenti della Voce mi hanno infiammato. Erostrato ormai mi precedeva di qualche passo, l’ho raggiunto correndo e ho preso a parlargli in fretta e con veemenza. Lui ha affrettato il passo, come chi cerca di ripararsi da una pioggia improvvisa; io mi sono messa a correre accanto a lui. Dovevamo essere una coppia curiosa, lui, piccolo, che camminava più in fretta che poteva, con le mani infilate nel cappotto corto; ed io alta, più grande di lui, in maglione e blue-jeans, che gli correvo accanto parlandogli senza tregua; e il cane che, credendo a un gioco, ci correva intorno e abbaiava festosamente.

Io: Infatti dovevate essere una coppia curiosa. E si può sapere che cosa gli hai detto?

Desideria: Su per giù ecco il mio discorso: “Vigliacco, bugiardo, ero venuta qui con l’intenzione di essere sincera con te e di fare in modo che tu lo fossi con me. Io non ti amo anche se il giorno del nostro primo incontro abbiamo fatto l’amore; non ti amo e non ti amerò mai; ma provo per te un sentimento di affetto come può provarlo una sorella per un fratello. E lo sai perché? Perché io sono una trovatella, una bastarda, una figlia del popolo venduta da sua madre ad una signora pariolina e introdotta a forza e senza il suo consenso in questa borghesia di merda e so anche, bada bene, nonostante tutte le frottole che mi hai raccontate, so di certo che tu sei come me, sei un proletario, un figlio del popolo sprofondato fino agli occhi nel pantano borghese. Ma la differenza fra me e te è che io tutto questo non soltanto lo so, ma anche lo accetto e tu invece non lo accetti e a forza di non accettarlo quasi ti convinci di ignorarlo. Io ero venuta oggi affinché fra di noi ci fosse la verità, -soltanto la verità con il suo coraggio e la sua luce; ed invece che cosa ho trovato? un vigliacco che non parla e non risponde e scappa via come un topo di fogna stanato dal suo buco. Sì, tu sei un bugiardo, non posso provarlo ma lo so di certo; non è vero che sei figlio di un barone siciliano proprietario di terre, non è vero che sei laureato in scienze economiche, non è vero che sei mantenuto a Roma da tuo padre; non è vero niente. Tu sei un figlio del popolo, ma la vergogna di esserlo, la smania che ti divora di essere un borghese hanno fatto di te un uomo volgare, un tipo losco, un tanghero. Invece di ribellarti, ti sei adattato, hai mentito a te stesso e agli altri, ti sei ven- eluto, ti sei prostituito. Sei corrotto a fondo, fino al midollo, sei una vera e propria merda e non vuoi essere che una merda. Quanto al gruppo, all’azione rivoluzionaria e a tutte le altre balle, è chiaro che ti sei inventato ogni cosa, per abbindolarmi, per portarmi a fare l’amore a tre, come vuole Viola, di cui sei il servo, il mantenuto, il mezzano. Adesso vorrai sapere come faccio ad essere così sicura, che sei un bugiardo, un vigliacco e una merda ed io ti rispondo che lo so perché ti ho capito fin dal nostro primo incontro ed ho penetrato il tuo segreto, come se tu fossi stato trasparente ed io ti avessi letto dentro. E quale è il tuo segreto? Il tuo segreto è che, dopotutto, anche tu hai una coscienza, magari sepolta sotto un monte di merda, e questa coscienza consiste nel fatto che sai di essere corrotto fino al midollo e siccome lo sai desideri morire, non esistere più, tornare ad essere quello che eri prima di nascere, vale a dire un feto, un embrione, nulla. E sai come me ne sono accorta? Me ne sono accorta dal modo con il quale quel giorno hai fatto l’amore orale. Mentre stavo supina, con le gambe spalancate e tu inginocchiato davanti a me mi baciavi il sesso, ho sentito con precisione che non cercavi il tuo piacere, ma volevi semplicemente morire, sì, morire dentro il mio ventre che per te, in quel momento, era il ventre di tua madre, cioè rifare a ritroso il cammino che avevi già fatto venendo al mondo, acciambellarti dentro di me, come il feto, con le braccia conserte e gli occhi chiusi, e poi regredire indietro indietro, tornare ad essere un embrione, un grumo di vita, un nulla. Sì, questo è ciò che mi chiedevi con la coscienza di chiedermi l’impossibile; infatti facevi un gemito triste e disperato che mi ha commosso, perché ci ho sentito tutto il tuo orrore della vita e tutta -la tua nostalgia della morte. Mi ha commosso e mi ha ispirato il sentimento fraterno che oggi mi ha fatto venire qui per proporti il sequestro di Viola. Già, perché questa è la tua ultima occasione per tirarti fuori dalla merda ed essere un uomo e non avere più la nostalgia del nulla ed amare la vita. Se tu fai con me questo sequestro, anche se il grappo non c’è e non esiste, come sono convinta, fai qualche cosa che ti salva. Ma se rifiuti la mia proposta, allora non ci sarà più nulla da fare, sarai perduto senza rimedio e continuerai a battere alle porte del nulla tra le gambe delle donne, a tentare l’impossibile e naturalmente non ti sarà aperto e perciò continuerai fino all’ultimo ad essere un vigliacco, un bugiardo, un uomo volgare, un prostitute, un tanghero! ”

Io: Gli hai detto queste cose?

Desideria: Sì e molte altre ancora. Lui cercava di sottrarsi alla grandinata, affrettando il passo ma io gli stavo a pari senza sforzo, avevo le gambe più lunghe delle sue. Così lui correndo e tacendo, io correndo e parlando, il cane saltandoci intorno e abbaiando, abbiamo attraversato i grandi prati annebbiati, tra i cani ed i proprietari dei cani, e siamo risaliti alla staccionata. La grossa Jaguar polverosa ed ammaccata di Erostrato stava parcheggiata proprio in quel punto; lui è corso disperatamente allo sportello, l’ha aperto, si è infilato dentro; ma io sono stata pronta a fare il giro della macchina e a salirgli accanto. Ho chiuso con violenza lo sportello e gli ho gridato: “Ma rispondi, parla una buona volta, di’ magari che non ho ragione, che non è vero niente, conferma che sei il figlio di un barone siciliano, che sei laureato in scienze economiche, che sei un rivoluzionario, che il gruppo esiste, che non vuoi affatto morire, che ti piace vivere; di’ quello che vuoi, ma parla.”

Io: E lui?

Desideria: Allora è successo qualche cosa di terribile, almeno per me. Lui mi ha risposto in modo da lasciarmi intendere che prendeva sul serio le mie parole, l’angoscia che ci traluceva, l’affetto fraterno che le ispirava; ma, al tempo stesso, sono stata sicura, in maniera definitiva, che non mi capiva e non mi avrebbe mai capita.

Io: E cioè?

Desideria: Non so come recuperare la verità della scena. Io, da una parte commossa, sincera e veemente e, in fondo, appassionatamente affettuosa; lui, dall’altra, preciso, freddo, controllato e... totalmente incomprensivo, proprio come chi si trova di fronte ad uno straniero e s’illude di intenderne il linguaggio e invece non lo capisce e gli risponde con parole che dimostrano che non lo capisce.

Io: Insomma, che ha detto?

Desideria: Improvvisamente ha deciso di rispondermi. Ha acceso una sigaretta, ha portato alle labbra la sua volgarissima mano dalle dita gialle di nicotina e poi ha detto: “Adesso ti risponderò per ordine: punto primo, non desidero morire, non voglio tornare nel ventre materno, non so nulla del nulla prenatale e non voglio regredirci, mi piace la vita, mi piace vivere, voglio vivere. Punto secondo: mi dispiace ma non posso che confermare quello che ho già detto circa le mie origini: sono figlio di un barone siciliano proprietario di terre e di una madre figlia di un avvocato. Punto terzo: il gruppo rivoluzionario di Milano esiste, ha un nome e un programma ed io ne faccio parte regolarmente. Punto quarto: non ho nulla in contrario all’idea di un eventuale sequestro di Viola, ma non possiamo farlo da soli, senza prima consultarci con quelli di Milano. Per questo dobbiamo aspettare l’arrivo del compagno del direttivo. Punto quinto: il compagno arriva tra una settimana, dieci giorni al massimo.”

Io: Erano tutte bugie, no?

Desideria: Ecco il punto. Alcune erano bugie come, per esempio, quelle che riguardavano la famiglia; alcune verità, che, però, erano verità soltanto per lui, come quelle che negavano il suo desiderio inconsapevole di morte; altre ancora, mezze verità come il fatto che non aveva nulla da obiettare al sequestro di Viola. Infine c’erano verità, diciamo così falsamente oggettive, come l’affermazione che il gruppo esisteva e che il compagno di Milano arrivava tra dieci giorni. Sì, forse il gruppo esisteva ed il compagno sarebbe arrivato davvero ma questo non voleva dire affatto che lui fosse un rivoluzionario. Semmai, l’esistenza del gruppo e l’arrivo del compagno erano in rapporto con la sua aspirazione ad essere quello che non era. Comunque, che importanza aveva la verità? quello che mi importava in quel momento era che Erostrato non tanto dicesse la verità quanto fosse reale, sia pure a forza di bugie.

Io: Ti ho già sentito dire questo.

Desideria: Lo dirò sempre; e infatti dopo che lui mi ha risposto in quel modo, cioè riconfermando tutte le sue menzogne, ho capito che il sentimento che provavo per lui era giusto e non poteva essere che quello.

Io: Quale sentimento?

Desideria: Il sentimento oscuro e straziante di una fraternità impotente, di una compassione inerte.

Io: Così il vostro incontro non è servito a nulla. Le cose sono rimaste al punto in cui erano sempre state.

Desideria: Non è servito nulla a me. Ma è servito alla Voce. Adesso lei sapeva di certo che il gruppo esisteva, che il compagno arrivava e che l’idea del sequestro era accettata in linea di massima. Tutto il resto non le importava un fico. Sai cosa ha detto delle mie riflessioni su Erostrato e sulla differenza tra verità e realtà: “Sei incorreggibile, quando non ti lasci andare al sentimentalismo, fai qualche cosa di peggio, fai della psicologia. ”

Io: Beh, cosa hai risposto ad Erostrato?

Desideria: Nulla. Ho detto soltanto: “Se le cose stanno come tu dici, ed io non ho nessun motivo di dubitarne, aspettiamo l’arrivo del compagno di Milano.”

Io: E lui?

Desideria: Lui mi ha ribattuto con una domanda inaspettata: “Intanto che cosa debbo dire a Viola?”

Io: Davvero inaspettata. Che cosa hai risposto?

Desideria: Ho risposto che non doveva dirle niente. Ho soggiunto: “E poi che c’entra Viola?”

Io: Te l’ha spiegato còsa c’entrava Viola?

Desideria: È stato zitto così a lungo che per un momento ho pensato che non mi avrebbe spiegato un bel nulla. Finalmente ha detto: “Viola sa che tu hai chiesto di vedermi. Era lì da me, quando hai telefonato. Io ho capito fin da principio che tu volevi parlarmi del gruppo di Milano; ma le ho fatto credere che si trattava invece di lei, di me e dell’appartamento di Via Gaeta. Così lei adesso si aspetta che io ritorni e le dica un sì o un no.” Hai capito? Viola si aspettava che io dicessi sì o no all’amore a tre. Mi è venuto in mente, d’improvviso, che c’era un parallelismo tra Viola e me, nel nostro rapporto con Erostrato. Ambedue tiravamo Erostrato, l’una da una parte e l’altra dall’altra, verso qualche cosa che ci premeva: a Viola l’orgia, a me il gruppo. Erostrato era in mezzo ed ora pareva dar ragione all’una ed ora all’altra.

Io: Mi pare che desse ragione soprattutto a Viola, no?

Desideria: Mica tanto. Prima di tutto non l’amava, forse addirittura l’odiava. Poi, il fatto stesso che il gruppo esisteva davvero e lui ne faceva parte, dimostrava che, almeno in teoria, lui dava ragione a me. Del resto ho avuto la conferma della mia supposizione sul parallelismo tra me e Viola nei confronti di Erostrato quasi immediatamente. Alla sua domanda su che cosa lui dovesse dire a Viola da parte mia, ho risposto d’istinto: “E tu cosa pensi che dovrei dire? “ Allora è avvenuto qualche cosa di imprevisto.

È stato zitto un momento e poi ha detto: “Tu pensi che io vorrei che tu rispondessi con un sì. Ma ti sbagli. Per me puoi anche rispondere con un no. Tu non mi conosci, io non sono quello che credi. “

Io: Imprevisto, davvero.

Desideria: Poi ha proseguito: “Tu credi che io sia venuto all’appuntamento per conto di Viola. Ti sbagli ancora una volta. Anche io, come te, sono venuto all’appuntamento per essere sincero, per dirti certe cose che mi stanno a cuore e non ti avevo ancora mai detto.”

Io: Ti sarai meravigliata, no?

Desideria: Sì e persino mi è venuta una specie di speranza che lui, finalmente, si scostasse in qualche modo dall’immagine menzognera di se stesso che finora mi aveva offerto. Ma non mi fidavo; ho detto con precauzione: “E quali sarebbero le cose che non mi hai mai detto e che oggi volevi dirmi? “ L’ho visto buttare con decisione il fumo fuori dal naso e poi pronunciare: “La tua idea di sequestrare Viola per portarle via dei soldi, è semplicemente pazzesca. Eppure avrai notato che non ho rifiatato, che l’ho accettata subito. E lo sai perché? Perché io su Viola la penso come te.” “Cioè?” Invece di rispondere a questa domanda, si è voltato verso il sedile posteriore e ha preso un libro che stava posato sui cuscini. Ha detto: “Per farti capire quello che penso di Viola, ho portato questo libro. “ Mi porgeva il libro, l’ho preso e con qualche meraviglia ho visto che era un album di fotografie sulla rivoluzione in Cina, di Car- tier Bresson. Quest’album lo conoscevo benissimo, Viola l’aveva comprato un paio di anni addietro e per un pezzo l’avevo visto nel soggiorno, insieme con altri libri; poi era scomparso e adesso rispuntava tra le mani di Erostrato. Non ho potuto fare a meno di esclamare: “Ma questo libro è nostro!” E lui: “Sì, l’ho preso nel soggiorno e l’ho portato nel superat- tico per guardarlo. Là dentro, c’è una fotografia che mi ha colpito e che vorrei che tu guardassi.” Ho aperto l’album, lui ha teso la sinistra mentre portava la sigaretta alla bocca con la destra, e con quella sola mano ha cercato nel libro, sulle mie ginocchia, la pagina e me l’ha indicata. Ho guardato. Era una fotografia scattata alla vigilia immediata dell’ingresso delle truppe comuniste a Shanghai, nel 1949. Vi si vedeva una fila di cinesi, che, stretti l’uno contro l’altro e con le facce tese per lo sforzo, stringendo al petto chi dei documenti chi dei libretti di risparmio, lottavano per arrivare al più presto agli sportelli di una banca, con lo scopo di ritirare il denaro e di fuggire prima che l’esercito di Mao occupasse la città. Ho osservato la fotografia, quindi ho levato gli occhi verso Erostrato e l’ho guardato interrogativamente: “Sono i borghesi cinesi che ritirano i loro risparmi dalla banca, prima che arrivi Mao. E allora? “ Ha scosso la testa e ha risposto con inaspettata ingenuità: “Allora, ecco, questo è ciò che vorrei vedere anche qui a Roma.” “E cioè?” “E cioè una fila di borghesi che lottano per ritirare i soldi dalla banca e tra loro anche Viola con il suo libretto di risparmio stretto al petto. E intanto le truppe della rivoluzione stanno già occupando la città.” “È per dirmi questo che hai portato l’album di Cartier Bresson?” “Sì, così ti convinci che la penso come te.” “Ma cosa pensi, insomma?” Ha preso il suo tempo e poi ha risposto: “Quella fotografia mi ha fatto capire tante cose. Il giorno in cui le truppe entravano a Shanghai è stato, come dire? la linea di confine tra due epoche. Prima di quel giorno, c’erano il capitalismo, la borghesia, le banche, le persone come Viola; dopo quel giorno tutto è cambiato per sempre, non ci sono più stati né il capitalismo, né la borghesia, né le banche, né la gente come Viola. Beh, io vorrei che questo giorno venisse.” Non guardava me ma, puntigliosamente, pur fumando, al parabrezza; e io, sebbene fossi tanto più giovane di lui e tanto più inesperta, mi sono sentita come una madre di fronte al suo bambino, che va esprimendo con parole immature e approssimative un suo oscuro sentimento.

Io: Ti sentivi superiore a lui in quel momento?

Desideria: Come sempre, perché io capivo lui, ma lui non capiva me.

Io: Ma ti sei mai domandata perché tu capivi lui e lui non capiva te?

Desideria: Sicuro. Io capivo lui ma lui non capiva me perché io avevo la Voce e lui no.

Io: Chi ti diceva che non avesse anche lui una Voce tutta sua, personale, esattamente come te?

Desideria: Me lo diceva il fatto che non mi capiva.

Io: Beh: il serpente che si morde la coda. Allora che cosa gli hai detto col tuo tono indulgente ed affettuoso di madre che interroga il suo bambino?

Desideria: Gli ho chiesto: “Ma tu da quale parte ti vedi stare, mentre Viola lotta per ritirare il denaro dalla banca: dalla parte della rivoluzione o dalla parte di Viola? “ “Dalla parte della rivoluzione.” “Ma non avresti paura che, una volta occupata Roma dall’esercito rivoluzionario, ti accuserebbero di essere stato un borghese, un capitalista e ti farebbero fuori?” “Io un borghese, un capitalista, che cazzate vai dicendo.” “Beh, se non proprio un borghese e un capitalista, uno che si faceva mantenere da una borghese, da una capitalista.”

Io: Ma eravate così franchi fra di voi anche sul fatto che lui si faceva mantenere da Viola?

Desideria: Sì, eravamo franchi ormai, come per tante altre cose. L’avevo veduto troppe volte, in casa e nei ristoranti, ricevere del denaro da Viola, perché lui pretendesse da me di accettare la finzione del segretario stipendiato. E poi questa franchezza faceva parte della nostra complicità nei riguardi e contro Viola. Infine l’avevo messo a suo agio un giorno dicendogli: “Tu ed io ci rassomigliamo anche in questo: siamo due mantenuti di Viola, tu in qualità di amante ed io in qualità di figlia.”

Io: Non l’ha sconcertato la tua previsione che i comunisti l’avrebbero fatto fuori?

Desideria: Stranamente, non ha protestato; ha accettato in qualche modo il mio punto di vista. Ha detto, dopo un momento di riflessione: “Io non scapperei con Viola, resterei in tutti i casi a Roma. Poi, magari, mi farebbero un processo, magari mi farebbero fuori; ma sarei contento lo stesso perché la rivoluzione ci sarebbe stata e la gente come Viola non esisterebbe più.”

Io: Ce l’aveva proprio con Viola!

Desideria: Ce l’aveva e non ce l’aveva. Gli ho chiesto: “Ma perché ci tieni tanto a che Viola sia travolta nella ressa dei borghesi che lottano per arrivare agli sportelli della banca? “ Ha riflettuto un momento, poi ha risposto: “Non lo so. Suppongo che ogni tanto ce l’ho con lei perché è proprio la donna ricca ed egoista che non ama veramente niente al di fuori del proprio denaro. E allora dimentico che ha anche lei delle qualità e che, qualche volta, mi capita persino di volerle bene; e vorrei saperla partita, fuggita, con i suoi gioielli, le sue pellicce e il suo oro per chissà dove, per sempre. Dopo che lei se ne fosse andata, ci sarebbe la rivoluzione e tutto sarebbe nuovo e il mondo potrebbe alfine respirare. ”

Io: Che era per lui, Viola? La borghesia?

Desideria: Direi proprio di sì. Cioè l’equivalente femminile dell’immagine emblematica del capitalista nelle caricature della fine del secolo, in tuba, panciotto bianco, marsina, brillante al dito mignolo. Gli ho chiesto con curiosità: “Ma insomma tu a Viola, le vuoi bene o la odi?” E lui: “In certi momenti le voglio bene. Non, però, quando mi fa dei regali o mi dà del denaro. No, quando, magari, si mette a piangere sulla mia spalla e mi dice che non ne può più della vita e che vorrebbe morire. Ma in certi altri momenti, proprio la odio. L’altro giorno, mi stava sotto ed io stavo sopra, e lei si teneva bene aperte’ le natiche con le due mani, per farselo entrare meglio dentro e io, ti dico la verità, in quel momento ho avuto la tentazione di stendere la mano al tavolino da notte, dove c’era un candeliere di bronzo, e spaccarle la testa con un colpo solo. Lei non se ne sarebbe nemmeno accorta perché stava con gli occhi chiusi e con la faccia affondata nel cuscino.” È stato zitto un istante come sopraffatto dal sentimento, poi ha soggiunto: “Ma alla fine la compatisco perché è infelice. Il motivo principale della sua infelicità, però, sei proprio tu. Con me fa l’amore; ma a te ti ama e siccome tu la respingi, è infelice. A causa mia, non l’ho mai vista piangere. Ma quando parla di te, sempre, gli occhi le si riempiono di lagrime e comincia a balbettare e poi si mette a piangere.” “Ti ha mai detto perché piange quando parla di me?” “Non me l’ha detto, ma io lo so.” “E cioè?” “È un pianto di esasperazione. Piange come chi vorrebbe a tutti i costi qualche cosa e non riesce ad averla. Se vogliamo, è un motivo egoistico, ma è pianto vero, tanto che in quei momenti mi fa proprio compassione.” È stato per un momento soprappensiero, poi, d’improvviso, ha ripreso, con strano ritorno al suo ruolo professionale: “Tu mi hai chiesto cosa vorrei poter dire per te a Viola. Io non ti chiedo di farmi dire un sì o un no deciso. Ma è tanto infelice, lo desidera tanto, che basterebbe che tu mi mandassi a dire che vuoi prendere tempo. Che vuoi abituarti all’idea.” “Quale idea? Quella di prendere il posto delle squillo nell’appartamento di Via Gaeta?” Non si è scomposto, ha detto: “L’idea che non siete madre e figlia ma due amiche e magari, domani, qualche cosa di più.”

Io: Come è andato a finire l’incontro a Villa Borghese?

Desideria: È andato a finire che guardando l’orologio al polso, proprio come una ragazza qualsiasi che si è trattenuta a chiacchierare con un cosiddetto conoscente, ho esclamato: “Ma è tardi, Viola mi ha chiesto di accompagnarla a un pranzo in non so quale ambasciata”; e sono balzata fuori dalla macchina, con un frettoloso: “Ciao, ciao.” Il cane che si era messo ad aspettarmi sotto un albero, mi è saltato subito incontro, abbaiando; sono corsa alla mia macchina e sono subito partita. A casa ho trovato Viola già vestita di tutto punto che mi aspettava con impazienza; mi sono precipitata a cambiarmi in camera mia e poco più tardi siamo uscite insieme.

Io: Hai poi saputo come ha accolto Viola l’informazione che tu volevi “abituarti all’idea”?

Desideria: Sì e no, perché non ho voluto indagare su quello che poteva averle riferito Erostrato. Lui mentiva continuamente; ed io lo sapevo. Poteva averle detto che volevo “abituarmi all’idea”; come poteva averle detto che mi ero già abituata all’idea ed ero pronta ad incontrarmi con lui e con Viola nell’appartamento di Via Gaeta. Però, che lui le abbia parlato è sicuro perché Viola, quella stessa sera, al ristorante, ha avuto un gesto di gratitudine allusiva. Erostrato si è alzato per andare a pagare il conto; lei ha allungato la mano per farmi una carezza ed ha detto: “Grazie per quello che mi hai mandato a dire da Eros.” Avrei voluto chiederle che cosa le aveva veramente detto Erostrato; ma la Voce, che, al solito, voleva che io facessi diventare Viola sempre più amante e sempre meno madre, mi ha suggerito invece questa frase piena di sibillina civetteria: “Non mi ringraziare; tu lo sai che ti voglio bene”; frase filiale che, però, nel contesto in cui era inserita, poteva anche passare per amorosa. La stessa notte ho fatto un sogno che voglio raccontarti.

Io: Un sogno che riguardava Viola?

Desideria: Sì, sta’ a sentire. Mi pare di essere nella cosiddetta salumeria di Via Gaeta. Sono distesa sul letto, supina, le mani riunite sotto la nuca ed aspetto. Aspetto che arrivino Viola ed Erostrato, ho accettato l’amore a tre e sono pronta a farlo, convinta che ormai sia inevitabile. Mentre aspetto, mi avviene di guardare oltre al letto, in fondo alla stanza e di vedere che tutta la parete di fondo è occupata da un grande divano nero; e che su questo divano sta disteso un corpo nudo di un colore rosa acceso che spicca sul nero in una maniera attraente anche se in qualche modo quasi oscena. Salto giù dal letto, mi avvicino e vedo che è Viola, tutta nuda, legata con una corda che, partendo dal collo, le attraversa il petto, le avvince i due polsi, le gira più volte intorno alle gambe, le stringe l’una all’altra le due caviglie. Viola non può parlare a causa di,un bavaglio di nastro adesivo che le sta incollato sulla bocca; ma per lei parlano nastro e corda: è chiaro, Erostrato ed io l’abbiamo attirata, con il pretesto dell’amore a tre, nell’appartamento di Via Gaeta; l’abbiamo aggredita e legata; ed io, adesso, le faccio la guardia. Infatti, a riprova, un mitra sta posato sulla seggiola, lì accanto: il mio mitra di ormai consumata guerrigliera. Ma c’è qualche cosa che manca in questo quadro abbastanza esatto e comune di un sequestro a scopo politico; ed è il sentimento di odio che dovrei provare per Viola. Non soltanto sento che non la odio; in qualche modo, provo il sentimento opposto. Che sentimento è? È un turbamento torbido e profondo, nel quale confluiscono la mia qualità di guerrigliera; il fatto che sono la figlia della donna che sto sorvegliando; e, infine, la consapevolezza della passione incestuosa di questa donna per me. Guardo al corpo legato ed imbavagliato; quindi, dopo aver girato gli occhi intorno per essere sicura che nessuno mi spia, mi decido. Mi chino su Viola, strappo pian piano, per non farle male, il nastro adesivo dalla sua bocca, incollo le mie labbra sulle sue, in un lungo bacio appassionato. Il bacio dura molto; è così voluttuoso che perdo la nozione del tempo; poi, d’improvviso, provo la sensazione scomoda di qualcuno che mi sta dietro le spalle e mi guarda. Mi volto ed ecco, scorgo il mio mitra sospeso a mezz’aria, puntato contro di me da una figura di uomo ritto in piedi. Chi è quest’uomo? Qualcuno di cui non vedo la testa che appare come nascosto da un’ombra nera; ma so di certo che è il cosiddetto “compagno di Milano” di cui Erostrato, durante l’incontro a Villa Borghese, mi ha annunciato il prossimo arrivo. Provo una terribile paura, so che lui sta per sparare, per uccidermi; è giunta l’ora della mia morte, lo so, emetto un lungo gemito amaro e pietoso... e mi sveglio.

Io: Mi pare un sogno molto chiaro.

Desideria: Sì, chiarissimo. Ma la Voce mi ha fatto notare che era, appunto, un sogno. Cioè che, nella vita, non agivo; mi limitavo, sia pure con grande precisione e complessità, a sognare.

Io: Cosa voleva dire la Voce con questo?

Desideria: Che era tempo che agissi, che avevo il dovere di agire.

IV

 

 

 

 

 

 

 

Io: Cosa è successo nella settimana, diciamo pure, decisiva, tra l’incontro con Erostrato a Villa Borghese e l’arrivo del compagno di Milano?

Desideria: È successo che il giorno dopo l’incontro con Erostrato a Villa Borghese, Tiberi mi ha telefonato una mattina molto presto, che ancora dormivo, e mi ha chiesto di andare da lui perché doveva dirmi qualche cosa di importante.

Io: Lo vedevi ancora, da ultimo, Tiberi?

Desideria: No, da qualche tempo era scomparso dalla mia vita. A casa non veniva più da molto tempo; quando doveva consultarlo per i suoi affari, Viola andava a trovarlo a casa sua oppure alla sua galleria di antiquario. Ogni tanto ma sempre più raramente, mi aspettava per la strada con la macchina e mi seguiva passo passo, guidando accosto al marciapiede e dicendo con voce calma e signorile le solite oscenità postribolari. Ma era chiaro che ormai lo faceva più per sua privata soddisfazione che perché si aspettasse che mi decidessi a dargli retta.

Io: Hai accettato di andarci?

Desideria: Sì, mi ha rassicurata dicendo che si trattava di cose che riguardavano soprattutto Viola. Allora ho detto che sarei venuta da lui il giorno stesso, il pomeriggio.

Io: Sei andata a casa sua o alla galleria?

Desideria: Alla galleria.

Io: Dov’era la galleria?

Desideria: Era in un palazzo antico, nei pressi di Piazza di Spagna.

Io: Tiberi era un antiquario importante?

Desideria: Sì, uno dei maggiori di Roma.

Io: Come mai faceva l’amministratore di Viola?

Desideria: Il marito di Viola era stato suo socio; lui, a sua volta, era stato l’amante di Viola. Poi il marito di Viola era morto e Tiberi aveva continuato ad amministrare il patrimonio della sua amante. Oltretutto, Viola aveva investito del denaro nella galleria antiquaria di Tiberi.

Io: Tu arrivi a Piazza di Spagna e vai direttamente alla galleria. Che avviene adesso?

Desideria: Ho salito due rampe di uno scalone bianco con decorazioni d’oro, ho suonato ad una elegante porta bianca e oro in stile impero. Mi è stato subito aperto da un vecchio commesso che mi conosceva e che mi ha fatto entrare senza chiedermi cosa volevo.

Io: Il commesso ti conosceva. Allora ci venivi spesso alla galleria?

Desideria: In passato, sì. Viola mi incaricava di portare delle carte a Tiberi, ero un po’ la sua galoppina. Qualche volta mi fermavo a chiacchierare con lui.

Io: Quando gli portavi le carte, che età avevi?

Desideria: Tredici, quattordici anni.

Io: E lui non aveva mai dato a vedere la sua passione per te?

Desideria: No, forse perché non mi vestivo ancora da hippy ma come una ragazzina borghese qualsiasi; e così i pantaloni blue-jeans ed i maglioni non gli avevano ancora fatto pensare che ero una pericolosa rivoluzionaria da sconfiggere attraverso l’atto sodomitico.

Io: Tu entri nella galleria e cosa vedi?

Desideria: Una lunga galleria, appunto, dal pavimento specchiante. Da una parte si allineano grandi finestroni velati di bianco, dall’altra i mobili esposti in vendita. Laggiù, in fondo, scorgo Tiberi in atto di accompagnare una coppia di clienti anziani; un uomo obeso, rubicondo e canuto, chiuso in un soprabito blu ed una donna anch’essa rubiconda e canuta, gonfia come una botte e con le gambe sottili. Tiberi, al solito, fa pensare ad un attore di cinema degli anni ‘30: giacca di grisaglia a doppio petto, camicia bianca, cravatta scura, scarpe nere. I due coniugi camminano piano lungo la fila dei mobili; si fermano ogni tanto davanti ad un esemplare che li colpisce; allora Tiberi si ferma anche lui e parla. Guardo questa scena per un momento, poi percorro senza fretta tutta la galleria, dalla porta da cui sono entrata fino alla porta all’altra estremità che, come so, dà in una piccola stanza che serve da ufficio a Tiberi. Nel momento in cui oltrepasso Tiberi e i suoi due clienti, gli lancio uno sguardo d’intesa e lui a sua volta mi fa un cenno come per dirmi di andare nell’ufficio ed aspettarlo lì.

Io: Come era l’ufficio di Tiberi?

Desideria: Era molto piccolo, un prolungamento della galleria da cui era separato da un tramezzo. C’era una scrivania in stile impero, senza dubbio anch’essa in vendita; c’erano un grande divano di cuoio chiaro e due poltrone. Mi sono seduta sul divano e per un momento, meccanicamente, mi sono guardata intorno, senza però fermare gli occhi su nulla di particolare. Poi il mio sguardo ha indugiato sulla scrivania, allora ho notato che era sgombra di carte, salvo uno smilzo scartafaccio verde. Ho guardato ancora in giro, ho visto che in un angolo c’era una vecchia cassaforte, molto simile a un frigorifero, e nell’altro opposto, un casellario d’acciaio, da ufficio, ed ho pensato che Tiberi probabilmente teneva le carte del suo commercio in questi due mobili. Ma il mio sguardo era calamitato invincibilmente dallo scartafaccio verde. Ad un tratto mi sono alzata, sono andata a sedermi dietro la scrivania, ho aperto lo scartafaccio. Conteneva pochi fogli dattiloscritti: ho guardato la prima riga ed ho letto: “Oggetto: rapporto su Occhipinti Erostrato.” Allora ho continuato a leggere.

Io: Cosa c’era scritto?

Desideria: Non voglio dirtelo adesso, perché Tiberi, di lì a poco, me l’ha rivelato lui stesso. Per capire quello che è avvenuto tra me e Tiberi quel giorno, è meglio che tu venga a saperlo nel momento che Tiberi me ne ha parlato. Posso dirti, però, due cose: la prima, che si trattava di una relazione dei carabinieri su Erostrato, con tutta la sua vita raccontata dal punto di vista, diciamo così, giudiziario, dall’adolescenza fino ad oggi. La seconda che, sebbene raccontasse una quantità di cose che ignoravo, queste stesse cose, in qualche modo, ho avuto l’impressione ■ di averle sempre sapute.

Io: Che vuoi dire?

Desideria: Voglio dire che avevo avuto, fin da principio, una esatta intuizione del modo come era combinato il carattere di Erostrato.

Io: E cioè?

Desideria: E cioè, allo stesso modo che io ero divisa tra me stessa e la Voce; allo stesso modo che Viola oscillava tra il ruolo di madre ed il ruolo’di amante; così Erostrato era lacerato tra le esigenze della menzogna e quelle della verità, tra la realtà della corruzione e l’aspirazione alla rivoluzione. Lacerato, del resto, è forse, un termine improprio. Più giusto sarebbe dire: equilibrato.

Io: Ho capito. Cosa succede allora?

Desideria: Ho letto con cura, dalla prima all’ultima riga, la relazione dei carabinieri. Poi ho rimesso lo scartafaccio sulla scrivania e sono andata a sedermi di nuovo sul divano. Ho aspettato ancora cinque minuti e Tiberi è entrato.

Io: In che stato d’animo ti trovavi adesso, dopo la lettura della relazione dei carabinieri su Erostrato?

Desideria: Nello stato d’animo di uno spettatore che conosce la commedia e sa quello che sta per fare e per dire l’attore sulla scena.

Io: Altro?

Desideria: Sì, mi accorgevo, dopo la lettura della relazione, che il mio sentimento per Erostrato si era modificato.

Io: E cioè?

Desideria: Cioè riconoscevo che il meccanismo equilibrante pareva essere più forte di me, voglio dire del sentimento di solidarietà fraterna che avevo provato per lui fin dal primo incontro. Ero un po’ disperata, pensavo che soltanto un miracolo poteva salvarlo.

Io: Salvarlo da che cosa?

Desideria: Da se stesso, cioè dal meccanismo.

Io: Allora cosa avviene con Tiberi?

Desideria: È entrato e ha subito assunto un atteggiamento per niente confidenziale o anche soltanto amichevole, ma formale e burocratico, come chi riceve una persona per motivi di ufficio e nel suo ufficio. Ha detto in fretta: “ Ciao, Desideria, scusa se ti ho fatto aspettare, ma c’era quella coppia, gente noiosa e molto lunga, ma seria e infatti hanno finito per concludere. Come stai? Felice di vederti.” Quindi si è seduto alla scrivania, ha inforcato gli occhiali, ha considerato un momento, ma senza toccarlo, lo scartafaccio, ha alzato gli occhi verso di me e mi ha informato: “ Questo è un rapporto dei carabinieri su quel- l’Occhipinti Erostrato col quale, da ultimo, tua madre e te avete allacciato un rapporto, a quanto sembra, assai complesso. Se tra Occhipinti, tua madre e te ci fosse stata soltanto una relazione, diciamo così, sentimentale, non mi sarebbe mai passato per la testa di occuparmi del vostro amico. Ma da certe frasi che tua madre si è lasciata sfuggire, ho capito che non è così. Tra di voi ci sono anche dei rapporti di ordine economico, e allora, in qualità di amministratore dei beni di tua madre, ho sentito che dovevo fare qualche cosa. Così sono andato da un generale dei carabinieri mio buon amico e l’ho pregato di fare per me una piccola inchiesta su Occhipinti. Ne sono venute fuori queste pagine che ho qui sotto gli occhi. Non te le leggerò, sarebbe troppo lungo. Ti riassumerò i punti salienti.” Tiberi ha riabbassato gli occhi verso lo scartafaccio, poi ci ha ripensato, ha alzato di nuovo gli occhi verso di me: “Ti avverto che ho provveduto a informare tua madre del contenuto di questa relazione e questo perché, in fondo, la relazione riguarda soprattutto lei. Tu c’entri pure, si intende, ma voglio sperare soltanto indirettamente. ”

Io: Che voleva dire?

Desideria: In parole povere, si augurava che non mi facessi scopare anch’io da Erostrato.

Io: Sentiamo i punti salienti.

Desideria: Erano molti, si potrebbe dire che tutta la relazione fosse un punto saliente. Tiberi ora leggeva senza parlare, con gli occhi bassi, ora alzava gli occhi verso di me e riassumeva : Attraverso tua madre mi erano pervenute le informazioni che di solito Occhipinti fornisce su se stesso. Dunque Occhipinti, secondo Occhipinti, sarebbe figlio di un barone siciliano proprietario di terre e sua madre sarebbe figlia di un avvocato; dal matrimonio sarebbero nati due maschi e due femmine. Il nostro, diciamo così, eroe avrebbe frequentato una scuola di preti per figli dell’alta borghesia, a Palermo, poi si sarebbe iscritto alla facoltà di scienze economiche nella università di quella città e avrebbe conseguito la laurea a pieni voti. Dopo la laurea avrebbe amministrato in sottordine al padre un loro feudo molto esteso (duemila ettari) e poi, alla fine, col consenso del padre che avrebbe accettato di mantenerlo finché lui non fosse riuscito a mantenersi da sé, sarebbe venuto a Roma dove, da allora, lavora nel cinema in qualità di soggettista e sceneggiatore. Come ho detto questo è Occhipinti secondo Occhipinti. Ma i carabinieri hanno disegnato un personaggio molto diverso. Qui Occhipinti è figlio unico di un bidello e di una infermiera e vive in una piccola città della Sicilia occidentale, in casa dei genitori. Il barone e sua moglie, figlia di un avvocato, ci sono; ci sono anche i quattro figli, ma è la famiglia principale del luogo. Occhipinti non va alla scuola di preti per figli della borghesia alta ma in una qualsiasi scuola media della città; non va a Palermo e non si iscrive all’università; si limita a passare l’esame di maturità e poi abbandona gli studi. Intanto viene assunto dal barone in qualità di scrivano o qualche cosa di simile, nell’amministrazione del feudo. A questo punto si inserisce il primo di una serie di episodi finanziari-sentimentali-politici che punteggiano con regolarità la vita di Occhipinti. Il barone è vecchio e malandato e sta quasi sempre a Palermo; la baronessa, ancora giovane, ha la passione dell’occultismo: frequenta maghi, astrologhi, stregoni, fa delle sedute spiritiche, interroga le anime dei morti. Occhipinti, non si sa come, rivela estese conoscenze nel campo dell’occultismo, aiuta la baronessa nella sua attività metapsichica e, naturalmente, ne diventa l’amante. La baronessa vive sola nel feudo con una delle figlie. I due figli e l’altra figlia vivono a Palermo col padre. Occhipinti, non si capisce bene, se all’insaputa della madre o meno, diventa l’amante anche della figlia. Tutto va avanti per un poco senza incidenti degni di nota, tra sedute spiritiche, amori e anche attività di specie economica, perché nel frattempo la baronessa ha elevato Occhi- pinti dal grado di scrivano a quello di suo segretario particolare, quando, attraverso una spiata, il barone viene a sapere che qualche cosa non funziona nel suo feudo, vi piomba da Palermo, caccia via Occhipinti, ìo denuncia: appropriazione indebita. Però, piuttosto misteriosamente, (ma è un mistero che tra poco chiarirò) l’azione giudiziaria non ha seguito, il barone ritira la denuncia, Occhipinti, sano e salvo, parte dalla piccola città natale e si trasferisce su quello che i siciliani chiamano il continente. Passa un anno e ritroviamo Occhipinti a Perugia. Anche qui è legato da un rapporto sentimentale con una donna matura, vedova e con una sola figlia. La vedova è molto religiosa. Occhipinti entra in rapporto con lei attraverso la religione, cioè per mezzo di un prete che si serve di lui come di una specie di aiutante per star dietro a una ventina di bambini che le madri affidano alla parrocchia. Occhipinti è affiancato nella stessa incombenza dalla figlia della vedova, una maestrina che insegna ai bambini i primi rudimenti della religione. Occhipinti, prontamente, diventa l’amante anche della maestrina e al tempo stesso mette il naso negli affari della madre che gestisce a Perugia un negozio di oggetti casalinghi. Tutto procede bene finché, d’improvviso, tutto va male: la figlia tenta il suicidio con i barbiturici; la madre caccia Occhipinti e lo denuncia per una partita di pentole di alluminio, mai arrivate al negozio anche se da lei pagate regolarmente. Anche questa volta, però, Occhipinti se la cava; la denuncia viene archiviata. Occhipinti parte da Perugia e si trasferisce a Roma. Questa volta passano appena sei mesi e poi rivediamo Occhipinti nella solita situazione, diciamo pure, tipica. Ambiente: la Roma dei palazzinari, degli speculatori sulle aree fabbricabili; la coppia di madre e figlia: Aurora Zendrini, ex diva degli anni ‘30, moglie, appunto, di un costruttore, e sua figlia Emanuela; ideologia: fascista. Grazie alla comunanza delle idee politiche, Occhipinti diventa prima di tutto amico dei due figli di Aurora; i due fratelli lo presentano alla madre e alla sorella; questa volta il solito ordine è invertito: Occhipinti diventa prima l’amante della sorella e poi, col pretesto di farla lavorare in un film di cui ha scritto il soggetto, quello della madre. Intanto frequenta un gruppo di estrema destra, pronuncia discorsi, partecipa ad azioni dimostrative. Poi, il solito crollo: i figli scoprono che il film in cui Aurora dovrebbe ripresentarsi al pubblico dopo dieci anni di assenza non esiste; che Occhipinti se la fa con la madre e la sorella; che un’automobile di lusso, una Jaguar, è passata di proprietà dalla madre ad Occhipinti senza plausibile ragione. Seguono le solite cose: cacciata di Occhipinti, denuncia, archiviazione.” Tiberi, a questo punto, ha posato lo scartafaccio sulla scrivania e mi ha guardato: “Che ne dici di tutte queste belle notizie sul vostro amico?”

Io: Già, che gli hai detto?

Desideria: La Voce mi ha consigliato di “coprire” Erostrato, cioè di rispondere che erano tutte invenzioni della polizia perché Erostrato era di sinistra. Naturalmente la Voce sapeva benissimo che la relazione dei carabinieri diceva la verità, ma questo non le importava: il compagno di Milano stava per arrivare; Erostrato aveva accettato l’idea del sequestro di Viola; dovevo stare ad ogni costo dalla parte di Erostrato. Così ho ubbidito alla Voce ma non senza ambiguità: “Dico che sono tutte cose che sapevo già.” “Ma in che modo?” “Me l’ha dette Erostrato stesso fin dalla prima volta che ci siamo incontrati.” “Ah è così, te le ha dette lui, ma sono sicuro che non ti ha detto tutto.” “E cioè?” “Cioè che il mistero dell’archiviazione delle denunce nasconde una verità molto semplice.” “Quale verità?” “Che Occhipinti, fin dai tempi che viveva in Sicilia è un confidente della polizia, cioè una spia pagata con un regolare stipendio.” Sono stata zitta un momento, poi ho detto intrepidamente: “Sapevo anche questo, mi ha detto anche questo. Ma non lo è più da almeno un anno.” “Sì, non lo è più, ma lo sai perché? Perché la polizia lo ha licenziato per scarso rendimento. Lui non avrebbe domandato di meglio che continuare a fare la spia. Ma siccome non rendeva, lo hanno cacciato.” “Era questo ciò che volevi dirmi?” “Sì, niente altro, ma mi pare che basti, no?” Non ho risposto nulla, mi sono alzata in piedi.

Io: C’erano davvero, nella relazione che tu avevi letto, tutte le cose che via via Tiberi ti ha raccontato a proposito di Occhipinti?

Desideria: Sì, tutte, non aveva aggiunto né tolto nulla..

Io: Anche il fatto che fin dalla Sicilia fosse stato confidente della polizia?

Desideria: Sì, anche questo.

Io: Ma tu, mentre lui ti diceva queste cose, cosa pensavi?

Desideria: Pensavo che le conoscevo già da tempo, da molto tempo prima di aver letto la relazione. Il mio pensiero si appuntava su due aspetti della relazione.

Io: Quali?

Desideria: Il primo era che ritornavano sempre due donne, madre e figlia; che c’era sempre una giustificazione ideologica (occultismo, cattolicesimo, fascismo e, da ultimo, nel mio caso, ultrasinistra); infine che non mancava mai qualche pasticcio finanziario (la sottrazione indebita nel feudo siciliano, l’affare delle pentole a Perugia, la Jaguar con gli Zendrini, il salario di segretario con Viola). Il secondo aspetto che mi colpiva era che aveva cessato di essere confidente da un anno. Cioè da alcuni mesi prima del nostro incontro.

Io: Che voleva dire questo, secondo te?

Desideria: Poteva voler dire che l’avevano davvero licenziato per scarso rendimento. Ma poteva anche voler dire che, in qualche modo, forse era cominciata in lui una presa di coscienza della realtà della sua situazione. E questo mi faceva di nuovo sperare per lui.

Io: Cosa pensava la Voce di queste due ipotesi diverse?

Desideria: La Voce se ne infischiava, le profondità psicologiche non la interessavano.

Io: Allora come è andato a finire il tuo colloquio con Tiberi?

Desideria: È finito subito. Tiberi pareva sconcertato, si capiva che non sapeva che dire né che fare. Ma mi guardava con immutato desiderio, la faccia da samurai roseo più rossa che mai. Gli ho detto seccamente “Ciao,” tendendogli la mano e lui, con gesto galante ed antiquato, l’ha portata alle labbra. Ha detto: “Desideria, uno di questi giorni vengo ad aspettarti sotto casa all’ora che vai a scuola.” “Per dirmi che cosa? Che sono una troia, che debbo darti il culo? “ Non si è sconcértato affatto per la risposta brutale suggerita dallà Voce. Ha detto con curiosa reticenza: “No, una cosa diversa, ma prima di dirtela, voglio pensarci su.” “Pensaci pure quanto ti pare.” Sono uscita per una porticina e mi sono trovata improvvisamente nello scalone.

V

 

 

 

 

 

 

 

Io: Cosa avviene adesso? E prima di tutto hai parlato ad Erostrato del rapporto dei carabinieri?

Desideria: Sì, quel giorno stesso. Era a pranzo da noi, Viola non era ancora arrivata, l’ho trovato che ci aspettava leggendo il giornale nel soggiorno e gli ho detto tutto.

Io: E lui?

Desideria: Mi ha ascoltato fino alla fine senza interrompermi, con la solita aria impassibile e poi ha fornito una spiegazione proprio da piccolo delinquente plebeo.

Io: E cioè?

Desideria: Parlando in tono reticente, evasivo e sfuggente e scegliendo con cura le parole, ha detto che Tiberi, per ragioni ovvie, sulle quali era inutile soffermarsi, ce l’aveva con lui; che anche nella polizia, aveva molti nemici; che, insomma, era vittima di una congiura; e via di questo passo. Alla fine, tuttavia, ha ammesso che c’era “qualche cosa” di vero nel rapporto dei carabinieri, ma si trattava di cose prive di importanza, di “errori di gioventù”. Allora ho cercato di stringerlo da vicino con delle domande precise sul suo passato. Mi ha ascoltato con attenzione, senza muovere un solo muscolo della faccia, senza deviare per un solo attimo il suo sguardo fisso e inespressivo. Alla fine, le narici gli si sono increspate come per un soffio di emozione e ha pronunciato, con la sua voce più profonda e più vibrante, questa frase: “Non ho intenzione di risponderti, questa volta. Quello che avevo da dire, l’ho già detto. Da me non otterrai una parola di più.”

Io: E la sua ribellione contro la borghesia? La sua aspirazione ad una palingenesi totale che spazzasse via tutto, lui compreso? E la fotografia di Cartier Bresson?

Desideria: Niente, tutto dimenticato, rimosso, cancellato. A questo punto, la Voce mi ha detto che non dovevo insistere nella verifica dell’attendibilità della relazione. Adesso si trattava di aspettare dieci giorni, poi sarebbe venuto il compagno di Milano e allora si sarebbe veduto se Erostrato poteva ancora servirci o no. Le ho ubbidito, come al solito. E così, in attesa dell’arrivo del compagno di Milano abbiamo ripreso la nostra vita normale.

Io: Com’era la vita normale?

Desideria: Com’era? Non era.

Io: E cioè?

Desideria: Non era né normale né anormale. Non era una vita.

Io: Spiegati meglio.

Desideria: Voglio dire che non era una vita perché la sentivo provvisoria, da capo a fondo, in attesa dell’arrivo del compagno di Milano, cioè dell’azione, ossia del sequestro di Viola.

Io: Allora che facevate?

Desideria: Niente di particolare. Erostrato ormai veniva a pranzo ogni giorno. Scendeva dal superatti- co dove lavorava tutta la mattina ad un suo sedicente copione cinematografico, si sedeva sul divano e leggeva i giornali. Poi arrivavo io, dalla scuola, salutavo seccamente Erostrato, mi impadronivo a mia volta di un giornale e mi sprofondavo nella lettura. Ultima, arrivava Viola che usciva ogni mattina per i suoi affari o per fare degli acquisti. Si affacciava un momento, ci salutava con un cordiale: “Salve, ragazzi”, quindi usciva di nuovo, andava in camera a togliersi il soprabito; poco dopo faceva un’incursione in cucina per vedere se tutto procedeva regolarmente; alfine tornava nel soggiorno, si preparava un whisky a guisa di aperitivo. Intanto, siccome i giornali li aveva già scorsi a letto, alla mattina, con il caffelatte, chiacchierava con noi, come si dice, del più e del meno. La mattina era il momento in cui Viola era più madre, più signora dei Paridi, più padrona di casa, più oriunda americana. Questo ruolo lei lo sosteneva tutto il giorno; ma via via che le ore passavano lo recitava sempre più stancamente e forzatamente. Cosicché, quando veniva la sera, le era del tutto naturale uscirne ed entrare in quello della lesbica incestuosa.

Io: Che avveniva a pranzo?

Desideria: Nulla. Mentre mangiavamo, parlavamo poco, ma non perché fossimo “impacciati bensì come persone della stessa famiglia che non hanno bisogno di parlare per stare insieme. Chi ci avesse guardati, mettiamo, attraverso i vetri della finestra, avrebbe certamente pensato che eravamo una madre, un figlio e una figlia; oppure una madre, una figlia e il marito della figlia. Un gruppo familiare, insomma, dei più normali.

Io: Come finiva il pranzo?

Desideria: Come tutti i pranzi” di questo mondo. Ci alzavamo, andavamo a prendere il caffè sempre nello stesso angolo del soggiorno. Dopo il caffè, me ne andavo senza salutarli, mi chiudevo in camera a studiare (dovevo passare in quell’anno l’esame di maturità) oppure a leggere. Qualche volta uscivo, andavo a studiare in casa di un’amica. Insomma non rivedevo Viola ed Erostrato fino alla sera.

Io: Ma loro che facevano nel pomeriggio?

Desideria: Non lo so, non me lo sono mai veramente chiesto. Niente di particolare, suppongo. Salvo i giorni che andavano a fare l’amore a tre nell’appartamento di Via Gaeta.

Io: L’amore a tre lo facevano al pomeriggio?

Desideria: Sì, mai la notte che era, invece, dedicata a me. Del resto, le squillo, come tutti coloro che esercitano un mestiere fisso, lavorano di solito dalla mattina alla sera e si riservano la notte per la vita privata.

Io: In quei dieci giorni di vita “né normale né anormale”, Erostrato e Viola hanno fatto l’amore a tre nell’appartamento di Via Gaeta?

Desideria: Sicuramente, almeno una volta.

Io: Come hai fatto a capirlo?

Desideria: L’ho capito una mattina a pranzo da un segno circolare, rosso, sul collo di Viola, come di un bacio accompagnato da un prolungato succhiamento; dall’aria devastata del suo volto disfatto e tuttavia ancora eccitato; nonché dalle due unghiate nere di fatica sessuale che le cerchiavano gli occhi e ne smentivano l’espressione distante ed autoritaria.

Io: Hai detto che durante tutta la giornata Viola recitava sempre più stancamente la sua parte di madre e poi, venuta la notte, se ne disfaceva, entrava con decisione in quella dell’erotomane scatenata. Puoi darmi un esempio di questo scatenamento?

Desideria: Sì, proprio in quei giorni è avvenuto qualche cosa del genere di quello che tu vorresti sapere. Ma per capire quello che è avvenuto la notte, bisogna risalire a qualche cosa che è accaduto la mattina, a pranzo.

Io: A pranzo Viola avrà ancora avuto la grinta puritana americana, suppongo, visto che se ne disfaceva soltanto dopo il calare del sole.

Desideria: Infatti. Ma hai mai pensato che cosa possa essere il moralismo puritano applicato ai pasticci dell’erotismo? Ad ogni modo è andata così. Arrivo da scuola, trovo Erostrato che in attesa del pranzo legge il giornale, lo saluto; prendo anche io un giornale e mi metto a leggere; poi, ecco, arriva Viola. Risponde seccamente al mio buongiorno ma non si siede; dalla soglia fa un cenno ad Erostrato, come invitandolo ad uscire dal soggiorno, per parlargli da sola a solo. Erostrato si alza, raggiunge Viola nell’anticamera e lascia la porta aperta. Tendo l’orecchio, sento che parlottano; poi questo parlottare si trasforma in una discussione piuttosto aspra; la voce di Viola è incalzante, anche se bassa; quella di Erostrato altrettanto bassa ma reticente. Alla fine rientrano, Viola col viso teso da un furioso scontento, Erostrato, come sempre, impassibile. Andiamo a tavola, viene servito il primo piatto, Viola rifiuta, sta ferma e zitta, molto eretta nel busto, l’immagine stessa della severità puritana. Il cameriere esce, Viola dice improvvisamente : “Adesso restituiscimi quel denaro visto che non serve più. ” Erostrato non dice nulla, mette la mano nella tasca interna della giubba, ne estrae e porge a Viola alcuni biglietti di banca piegati in quattro. Viola non prende il denaro, ma fissa Erostrato con occhi che l’ira pare rendere quasi neri (li aveva, in realtà, marrone-verdi) e poi dice con lentezza e disprezzo: “Tienili pure. Ti sei dato da fare, dopotutto, tienili come mancia.” Erostrato non dice nulla, rimette il denaro in tasca. Viola continua: “La tua specialità, secondo il rapporto dei carabinieri, sarebbe madre e figlia. Una madre e una figlia in Sicilia con truffa e sedute spiritiche. Una madre e una figlia a Perugia, con truffa e sacrestia. Una madre e una figlia a Roma, con truffa e fascismo. Ma adesso le cose non ti vanno altrettanto bene. La madre l’hai trovata ma la figlia, no. O meglio la figlia c’è, è Desideria, ma Desideria è un osso duro, è una donna che sa quello che vuole e non vuole e tra le cose che non vuole è fare da terza donna con me e con te. Certo Desideria ogni tanto ti chiede qualche prestazione perché sei bravo e ben fornito dalla natura; ma questo non vuol dire dartela vinta nella faccenda dell’amore a tre. Te l’ho detto, Desideria è un osso duro e non c’è niente da fare, o meglio c’è da fare che almeno mi trovi qualche bella ragazza che faccia con noi quello che Desideria non vuol fare e, apparentemente, non farà mai. Ma tu sei un mantenuto da quattro soldi anche se di soldi ne mangi tanti e non sai neppure fare una telefonata o due, proporre un compenso, passare sottomano qualche biglietto. Ti avevo detto che volevo una certa cosa, ti avevo dato il denaro, tu, questa cosa, avevi il dovere di trovarmela a tutti i costi. Invece ti presenti con la coda tra le gambe, mi dici che Brigitte non ha voluto, assolutamente, che ti ha gettato il denaro in faccia ed altre assurdità e menzogne del genere. Non è vero, Brigitte è una che si vende, sta in vendita dalla mattina alla sera, come un pezzo di carne con il cartellino del prezzo sta in vendita dalla mattina alla sera sul banco del macellaio. Se non ha voluto, vuol dire che non ci hai saputo fare. E non mi venire a raccontare che non ha voluto perché le ho dato uno schiaffo; sai benissimo che lo schiaffo era incluso nel conto e pagato in anticipo. No, tu non hai voluto combinare con Brigitte perché lei ti disprezza e te lo fa capire e magari te lo dice e allora la tua preziosa sensibilità è ferita e tu preferisci non avere a che fare con lei. Ma io me ne infischio della tua sensibilità, io volevo vedere Brigitte questa sera, a tutti i costi, ti avevo dato tutto il denaro che ci voleva e tu non hai voluto combinare l’incontro perché odi Brigitte. Ma che me ne importa a me di tutto questo? Io compro te e compro Brigitte; è il mio diritto visto che siete in vendita tutti e due, e, una volta che vi ho comprato, dovete fare quello che voglio io, tu il magnaccia e lei la puttana! ”

Io: Una bella scenata, non c’è che dire. Erostrato cosa ha risposto?

Desideria: Non ha risposto nulla. Ha aspettato che Viola avesse finito, poi ha posato il tovagliolo sulla tavola e se ne è andato.

Io: Ma cosa era successo realmente?

Desideria: Lo sai già: Erostrato, si vede, procurava a Viola la terza donna per i loro incontri di Via Gaeta. L’ultima, in ordine di tempo, era stata Brigitte, la squillo che mi somigliava. Appunto perché mi somigliava, Viola si era incapricciata di lei, ma durante l’ultimo incontro, per qualche motivo, Viola aveva schiaffeggiato Brigitte e allora Brigitte, benché Viola, per mezzo di Erostrato, le avesse fatto ervenire una grossa somma di denaro (mi è sem- rato che fossero cinque biglietti da centomila piegati in quattro) non aveva più voluto saperne.

Io: Cosa è avvenuto quel giorno?

Desideria: Nulla di particolare. Ho studiato da un’amica. Quando sono rientrata, ho trovato Viola ed Erostrato seduti nel soggiorno, come se niente fosse. Viola era già vestita per uscire, mi ha detto che facessi in fretta, era tardi, dovevamo andare al più presto al ristorante per poi fare in tempo a vedere un certo film. Da una specie di esitazione e di impastamento della voce, ho capito subito che Viola era ubriaca. La bottiglia di whisky stava sul tavolo, di fronte a lei; teneva il bicchiere in mano, dopo avermi intimato di fare presto, ha levato il bicchiere e, strizzando l’occhio, ha fatto un brindisi ad Erostrato che, a sua volta, ha levato il suo bicchiere ed ha contraccambiato il brindisi. Ho pensato logicamente che si erano riconciliati e senza dire parola sono andata in camera a cambiarmi.

Io: Allora uscite insieme, cosa avviene al ristorante?

Desideria: Vuoi dire cosa avviene in macchina perché al ristorante quella sera non ci siamo arrivati. Dunque, poco più tardi, usciamo di casa e saliamo nella macchina di Erostrato. Lui si è messo al volante, io accanto a lui e Viola dietro. Appena la macchina si è mossa, Viola si è protesa in avanti, ha girato il braccio intorno al collo di Erostrato ed ha preso a baciarlo nell’orecchio. Erostrato ha detto tra i denti: “Sta’ ferma, sennò non posso guidare e andiamo a sbattere.” Allora lei, da vera ubriaca, ha gridato: “Non mi importa, ti ho regalato questa macchina, costa dieci milioni, avrò il diritto di abbracciarti.”

lo: Non aveva la vecchia Jaguar che gli aveva regalato Aurora Zendrini?

Desideria: No, era una macchina nuova, una Mercedes ancora in rodaggio, l’aveva inaugurata appena due giorni prima. Lui le ha risposto: “Sì, ce l’hai il diritto di abbracciarmi, ma non in macchina, si fa presto ad andare fuori.” Per un po’ è stata zitta, facendo il broncio, rannicchiata sul sedile posteriore, poi ha gridato: “Allora fermati, voglio venire davanti. Mi avete confinato qui dietro, voglio stare davanti anche io.” La macchina si è fermata, Viola è discesa, ha aperto lo sportello, mi si è gettata addosso impetuosamente prima che facessi a tempo a discendere per farle posto e, strisciandomi sopra con chiara intenzionalità, come per una prolungata carezza del suo corpo, al mio, è scivolata tra me ed Erostrato. La macchina è ripartita e allora è cominciata tra lei ed Erostrato una scena di aggressione sessuale da parte di lei e di infastidita resistenza da parte di lui. Ebbra e tuttavia precisa nei gesti che testimoniavano una lunga abitudine, lei ha preso ad accarezzarlo all’inguine, con una mano sola, senza guardarlo, stando ritta al suo posto, con gli occhi fissi sul parabrezza. Ho visto Erostrato, che, pur tenendo con una mano il volante andava due o tre volte con l’altra a prendere la mano di Viola e cercava invano di allontanarla. Questo gioco è andato avanti per un poco, fino a quando lei ha giudicato di essere riuscita nel suo intento che era di provocare, per così dire, tecnicamente, l’erezione a Erostrato. Allora è cominciata la seconda fase: Viola voleva aprire la chiusura lampo, Erostrato, ancora una volta, si opponeva. Alla fine, però, sia che lei sia stata più brava (adesso si adoperava con tutte due le mani, piegata verso di lui) sia che in lui l’eccitazione abbia prevalso, Viola è riuscita a tirar giù la linguetta della chiusura e ad aprire largamente i pantaloni. La guardavo con la coda dell’occhio; l’ho vista, con gesti furtivi, ghiotti e pieni di delicatezza e di rispetto, introdurre la mano nell’apertura, frugare piano e poi, guardando in aria e come cercando di ricostruire con l’immaginazione e la memoria la posizione esatta dei genitali, estrarre finalmente con precauzione tutto il mazzo di carne viva e gonfia. È seguita, adesso, una scena di ammirazione e di devozione in qualche modo religiosa e, in fondo, priva di erotismo. Il membro di Erostrato stava ritto sotto il volante: Viola ha preso ad accarezzarlo, affascinata, trepidamente e leggermente, appena sfiorandolo con le dita; e intanto diceva: “Non è forse bello, non è la cosa più bella che si possa vedere, non è l’incarnazione vivente della bellezza del mondo? “ Gli occhi le scintillavano, girava con la mano intorno al membro, come se avesse voluto dargli una forma, con gli stessi gesti di un vasaio che dà una forma al suo vaso; alla fine l’ha stretto nell’anello di due dita per vederlo inturgidire e poi, con gesto rapido e fuggitivo, si è passata la mano sotto il naso annusandone avidamente l’odore. Quest’odore sessuale, per lei delizioso e inebriante, ha travolto il suo ultimo ritegno; eccola gettarsi di lato, con la decisione accecata con la quale ci si getta da un trampolino molto alto, e subito prendere ad andare su e giù col capo al di sopra del ventre di Erostrato. Ho pensato per un momento che, noncurante al solito della mia presenza, volesse portare a fondo l’amore orale. Mi sbagliavo, in realtà si trattava di una specie di preparazione in vista di qualche cosa di più complicato e di più inedito. Viola va su e giù col capo non più di due o tre volte; quindi si raddrizza di scatto, si gira verso di me, ho appena il tempo di intravederne il volto illuminato dalle luci della strada, ed ecco che lei mi acciuffa per i capelli e mi tira verso di sé o meglio verso Erostrato. Grida: “Adesso tocca a te. Berrai la mia saliva e io berrò la tua, tutte e due berremo il suo seme e così ci sarà tra di noi un legame più forte di qualsiasi altro, per sempre, e saremo uniti tutti e tre per la vita e tutti e tre adoreremo insieme la bellezza del mondo. “ Dice questo e molte altre cose simili; intanto mi tira per i capelli verso il membro che sta tuttora ritto nell’ombra, sotto il volante. Con una scossa riesco a liberarmi, sorgo a sedere, scarmigliata, grido ad Erostrato: “Ferma, ferma”; lui esegue, la macchina si arresta bruscamente. Allora, con mia oscura meraviglia, ecco, a sua volta, Erostrato, gettarsi su Viola, afferrarla per i capelli e spalancare la portiera dalla sua parte. È seguita una scena penosa, straziante, di una violenza terribile. Erostrato cercava in tutti i modi di tirare Viola fuori dalla macchina; Viola si opponeva con tutte le sue forze e intanto lo pregava: “ No, non fare così, ti giuro che non lo farò più, no, lasciami, te ne prego, lasciami. “ Io guardavo ma stavo ferma; Viola mi faceva pietà, ma la Voce non voleva che intervenissi. Alla fine Erostrato è saltato in strada e, dal marciapiede, ha preso a tirare Viola per un braccio, cercando di estrarla dalla macchina. Lei continuava a dibattersi, si era aggrappata con le due mani al volante. Allora la Voce mi ha detto: “Su, aiuta Erostrato a buttar fuori dalla macchina questa cagna. “ Come un automa, mi getto anch’io su Viola, l’afferro a piene mani dove capita, la spingo verso la portiera; dal canto suo, Erostrato raddoppia i suoi sforzi; Viola è proiettata con metà del corpo fuori dalla macchina; vedo venire il momento che cascherà sul marciapiede. Ma, ecco, d’improvviso, lei caccia un grido acutissimo, straziante, che mi fa gelare il sangue; al di sopra di lei, i nostri sguardi si incontrano: Erostrato dice: “ Non vuole scendere. Allora scendiamo noi, vieni Desideria, andiamo. “Queste parole ci hanno calmato. A mia volta sono discesa dall’automobile. Erostrato mi ha preso per mano, siamo andati insieme incontro alle luci pubblicitarie bianche e violette di una strada più importante, lasciando nel buio della traversa buia, la macchina e Viola. Abbiamo camminato in silenzio; la mano con la quale Erostrato stringeva la mia, mi commuoveva; mi pareva di nuovo che in qualche modo sarei arrivata a raggiungere il mio scopo: salvarlo da se stesso. Abbiamo percorso poca strada, in uno spiazzo abbiamo trovato un taxi, siamo saliti ed Erostrato ha dato il nostro indirizzo. Una volta a casa, quando siamo stati sul pianerottolo dell’ultimo piano, Erostrato mi ha detto: “Non vuoi venire su?” indicando la scaletta che portava al superattico. Ho esitato, sarebbe stata la prima volta che andavo nel superattico, Erostrato ha soggiunto: “Debbo farti vedere qualche cosa.” Non ho detto nulla, l’ho seguito su per la scala e siamo entrati nello studio. Mi sono seduta sul divano, di fronte al camino; Erostrato è andato alla libreria, ne ha tolto un libro, l’ha sfogliato per un momento, quindi me l’ha dato aperto, indicando col dito l’inizio di un paragrafo. Prima di leggere, ho guardato la copertina del libro e con qualche meraviglia ho visto che era la Bibbia. Quindi ho letto: “Jeu entrò in Jezrael. Ora Jezabel, avendo saputo della sua venuta si tinse gli occhi di nero, si adornò il capo e guardò dalla finestra a Jeu che entrava per la porta e disse: ‘Può esservi mai pace per Zambri che ha ucciso il suo padrone?’ Jeu levò gli occhi verso la finestra e domandò: ‘Chi è costei?’ E due o tre eunuchi si inchinarono a lui ed egli disse loro: ‘Buttatela giù.’ Ed essi la buttarono giù e il muro fu imbrattato di sangue e gli zoccoli dei cavalli la calpestarono. Come fu entrato per mangiare e bere, disse: ‘Andate a vedere quella maledetta e seppellitela perché è figlia di re.’ Nell’andare per seppellirla non trovarono che il cranio, i piedi e le estremità delle mani. E Jeu disse: ‘Nel campo di Jezrael, i cani mangeranno le carni di Jezabel e saranno le carni di Jezabel come lo sterco sulla faccia della terra nel campo di Jezrael. Cosicché quelli che passeranno dovranno dire: È costei quella Jezabel’.” Ho letto il passo biblico, quindi ho chiesto: “Debbo andare avanti? “ “No, basta così. Lo sai perché ti ho fatto leggere l’episodio di Jezabel? Perché Jezabel per me è Viola e la morte di Jezabel è proprio quella che qualche volta vorrei che facesse Viola.” “Qualche volta? Per esempio stasera, quando hai tentato di buttarla fuori dalla macchina?” “Sì, come stasera.” “Tu vieni all’ appuntamento a Villa Borghese con le fotografie sulla Cina di Cartier Bresson; stasera mi fai leggere la Bibbia. Si può sapere di che cosa vuoi convincermi?” “Che non sono quello che credi, che la penso come te.” “Io non credo nulla, o meglio, credo una cosa.” “Quale?” “Che in qualche modo, cioè a modo tuo, sei un moralista.” “Moralista?” “Il moralista è uno che odia se stesso negli altri, che condanna se stesso negli altri, che uccide se stesso negli altri. A se stesso perdona ma, appunto per questo, non perdona agli altri. In realtà tu vorresti morire, regredire al nulla; ma non ne sei cosciente e allora vuoi far morire Viola. Magari buttandola, come Jezabel, da una finestra e facendola mangiare ai cani.” “Ecco le tue solite cazzate. Non è vero che mi odio e non è vero che odio gli altri; semplicemente Viola qualche volta mi fa venire il desiderio di ammazzarla.” “Va bene, come vuoi, non ti arrabbiare, dimmi piuttosto come mai leggi la Bibbia.” “La leggevo da ragazzo, era uno dei pochi libri che c’era-’ no in casa.” “Che cos’è che ti spingeva a leggerla?” Ha esitato, poi ha detto: “Da ragazzo ero molto religioso. Pregavo, mi raccomandavo a Dio, frequentavo il prete della mia parrocchia, ho perfino servito messa.” “Poi come ti è passata la fede?” “Non me ne sono neppure accorto. Ho pensato ad altro.” “All’occultismo, per esempio?” “Sì, all’occultismo.” “E poi alla religione di nuovo e poi al fascismo ed oggi al comunismo. A partire da quando sei diventato confidente dalla polizia?” “Ti ho già detto che preferisco non parlare del mio passato.” “Beh, con me puoi parlare di tutto, ormai, non ti pare? “ “Ho cominciato ad avere a che fare con la polizia a sedici anni. Per quanto possa sembrarti strano, non sono diventato confidente per motivi di interesse.” “Lo sei diventato per motivi ideali? “ “Tu mi sfotti, ma è così. Da ragazzo ero per l’ordine, per la morale, per l’autorità. Odiavo la mafia che in Sicilia è così potente e che mi pareva la radice del disordine. Passavo delle ore ad immaginare il modo migliore di sterminare i mafiosi. Pensavo che se fossi diventato ministro oppure capo della polizia, avrei radunato tutti i mafiosi in un cortile, poi avrei aperto il fuoco con le mitragliatrici e li avrei ammazzati tutti. Alla fine avrei mandato a dire alle famiglie che si venissero a prendere i loro morti e così la mafia non ci sarebbe stata più. Siccome credevo che la polizia era contro la mafia, sono stato contento di collaborare.” “Ma la polizia era veramente contro la mafia? “ “Vuoi scherzare! No, che non lo era. Magari beccava i pesci piccoli, quando proprio non poteva farne a meno. Ma i grandi li lasciava stare. Alla fine loro stessi si sono accorti che non rendevo e allora mi hanno mandato via. ”

Io: Come è finita la vostra serata?

Desideria: In maniera inaspettata. D’improvviso abbiamo sentito una chiave girare nella serratura e Viola è entrata, tranquilla, serena, sicura di sé. Ha detto casualmente: “Ah, siete qui. Vi ho cercato di sotto ma non vi ho trovato, credevo che foste fuggiti insieme. Ma se deve esserci una fuga, allora fuggiamo tutti e tre. Mi volete?” Siamo rimasti un po’ imbarazzati: era dunque questa Jezabel, buttata giù dalla finestra e mangiata dai cani? Non ci ha lasciato il tempo di rispondere, si è seduta e ha detto improvvisamente : “ Sentite, ragazzi, voglio farvi una proposta: l’Italia mi annoia e anche mi fa paura: troppo disordine, troppi scioperi, troppo terrorismo, troppi sequestri. Allora vi propongo a tutti e due di partire con me: facciamo il giro del mondo.” C’è stato un silenzio poi io ho arrischiato: “Il giro del mondo in quanto tempo? “ “È un vecchio progetto, è un pezzo che lo studio, mi sono fatto fare un piano dettagliato da un’agenzia di viaggi: nel maggior tempo possibile, visto che il nostro scopo è di non stare in Italia: due, tre, cinque anni. Il denaro non è un problema; ho il mio conto di banca in Svizzera. Partiamo; nel primo paese che ci piace, ci fermiamo. Poi partiamo, arriviamo in un altro paese, anche questo ci incuriosisce, ci fermiamo di nuovo e così via. Ho qui la lista dei paesi. Sentite un po’: Grecia, Turchia, Egitto, Siria, Iran, Afganistan, India, Nepal, Birmania (per la Birmania, però, non è sicuro), Tailandia, Malesia, forse la Cina comunista, Hong Kong, Giappone, le Filippine, le Hawaii, la Polinesia, l’Australia, gli Stati Uniti, il Messico e, alla fine, l’Europa. Possiamo andare anche in Africa e nell’America Latina. Possiamo andare dove vogliamo.” Ha recitato la sua filastrocca geografica con noncuranza e leggerezza, come se avesse avuto davanti agli occhi un mappamondo sul suo treppiedi e l’avesse fatto girare a suo piacimento con qualche colpetto della mano. Ha ripreso dopo un momento: “Ci sono dei luoghi meravigliosi: Bali, Tahiti, le Seychelles, dove si fa la vita naturale, col mare, il sole, le spiagge, i palmizi. Sono sicura che in quei luoghi saremo felici. Vivremo nudi, non leggeremo i giornali, non ascolteremo la radio, non guarderemo la televisione. Staremo tutto il giorno all’aperto, dormiremo in una capanna. Non vi piace quest’idea? A me sì, non faccio che pensarci.”

Io: Il paradiso terrestre.

Desideria: Sì, anche se offerto dalle agenzie turistiche.

Io: E voi due che cosa avete risposto?

Desideria: Io ho detto che volevo pensarci su, che dovevo dare l’esame di maturità e perciò, ancora per qualche tempo, non potevo assentarmi dall’Italia. Erostrato non ha detto nulla. D’improvviso mi sono alzata, ho detto che avevo sonno e andavo a coricarmi. Viola ha esclamato: “Ma non hai cenato, ceniamo adesso; usciamo e andiamo al ristorante. Oppure ceniamo a casa.” Ho risposto che non avevo fame e me ne sono andata.