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Adeguate punizioni: la maledetta

Juventus Stadium, 10 novembre 2013. La Juve affronta il Napoli in una sfida che da qualche tempo è tornata a essere di alta classifica. E c’è tensione nell’aria. Tensione che si amplifica quando Andrea Pirlo posiziona la palla per battere un calcio di punizione.

Storicamente, i modi di Pirlo per battere un calcio di punizione sono due. Se è vicino alla porta, si posiziona a sinistra del punto di battuta e calcia a effetto, facendo girare il pallone su se stesso; se invece è lontano, spara un missile a diverse centinaia di chilometri all’ora direttamente all’incrocio dei pali.

In questo caso è vicino alla porta (circa 23 metri, dirà la telemetria), ma la posizione non è quella ideale per un tiro a effetto: troppo centrale, e troppo prevedibile la traiettoria. Pirlo decide perciò di fare qualcosa di lievemente differente. Invece di prendere la rincorsa da sinistra, parte dritto, per impattare la palla con le ultime tre dita del piede – in modo secco, come uno schiaffo.

Il risultato è sorprendente. La palla parte, senza alcuna rotazione, diretta verso la tribuna; ma, a qualche metro dalla porta, cambia automagicamente direzione per abbassarsi repentina, insaccandosi alle spalle di un basito Pepe Reina.

Dopo la prima reazione (di gioia o di sconforto, dipende per quale squadra uno tifa), come sempre succede, la punizione viene fatta vedere al replay. E riproposta. E riproposta ancora.

E una domanda sorge spontanea, nella testa di chiunque guardi con un minimo di attenzione: come cacchio ha fatto, quella palla, a cambiare direzione?

Per poterlo capire appieno, inizieremo parlando di una Juventus-Napoli di una trentina d’anni fa, e del più grande giocatore di tutti i tempi. Non me ne vogliano Pelé, Messi e soprattutto l’odioserrimo Cristiano Ronaldo: ovviamente, si sta parlando di Diego Armando Maradona.

La punizione a giro, ovvero quello che la maledetta non è

Per molti, il gol più bello di Maradona è quello contro l’Inghilterra ai Mondiali del 1986, per segnare il quale il pibe de oro si ciuccia l’intera fascia destra inglese prima di fottere Shilton per la seconda volta (la prima, ognuno se lo ricorda, non del tutto legittimamente). Per me, la rete in assoluto più incredibile del brevilineo genio di Villa Fiorito è quella segnata su punizione alla Juve il 3 novembre 1985. Una punizione di seconda, in area, con una barriera di sei uomini a cinque metri dalla palla. Non ci sono spiragli per tentare di tirare in porta. Eraldo Pecci, che è sul punto di battuta, lo sa bene, e quando Maradona gli intima di passargli il pallone inizialmente si rifiuta. Ma nel Napoli del 1985-86, rifiutarsi di fare qualcosa per Diego può essere solo un atteggiamento temporaneo. Pecci allora, non troppo convinto, porge la palla, e il mancino argentino la colpisce imprimendole un effetto assurdo, per metà laterale e per metà superiore, con il piede sinistro più abile di tutti i tempi che si contorce come un serpente. La palla, dopo aver superato la barriera, si dirige verso la porta difesa (si fa per dire) da Stefano Tacconi. Questi, convinto che nessuno avrebbe tirato da quella posizione, si tuffa con un buon mezzo secondo di ritardo e, incapace di controllare il generoso ma tardivo impeto, si stampa sul palo di gengive, mentre la palla si infila con precisione disumana sotto la traversa.

Il fatto che una palla che gira su se stessa cambi direzione rispetto alla traiettoria rettilinea che uno si aspetterebbe era stato notato per la prima volta da Isaac Newton, nel 1671, guardando gli studenti di Cambridge che giocavano a tennis, ma venne spiegato con completezza solo un centinaio di anni dopo dal fisico tedesco Heinrich Gustav Magnus, grazie alle leggi dell’aerodinamica. Lo scienziato lo descrisse quantitativamente con tale efficacia da vederselo riconoscere alla stregua di un figlio legittimo: oggi, infatti, il fenomeno è indicato quasi esclusivamente come «effetto Magnus».

«L’effetto Magnus» è diretta conseguenza del caposaldo dell’aerodinamica, la legge di Bernoulli, la quale afferma che la pressione di un fluido che scorre è tanto minore quanto maggiore è la velocità con cui il fluido viaggia. È grazie alla legge di Bernoulli, sfruttando la diversa foggia delle due facce di un’ala, che un aereo riesce a volare. Ma lasciamo perdere le digressioni alate e torniamo sull’oggetto che ci affascina fin da quando siamo bambini.

Quando una palla viaggia girando su se stessa, la superficie della sfera trascina con sé un certo quantitativo d’aria, la quale agirà sul fluido che la circonda, accelerandolo o rallentandolo a seconda del punto in cui ci si trova. Se, mettiamo, la palla ha effetto superiore, la rotazione del pallone si oppone al flusso dell’aria nella parte superiore della sfera, mentre invece lo favorisce nella parte inferiore; ne consegue che, sopra la palla, l’aria viaggia più lenta, mentre sotto scorre più velocemente. La legge di Bernoulli ci assicura che maggiore è la velocità, minore è la pressione; sopra la palla, quindi, c’è una pressione inferiore che sotto di essa. A causa di questa differenza di pressione, la sfera si muoverà verso il basso più di quanto non farebbe per effetto della sola gravità.

Una palla (che viaggia da sinistra verso destra) ruotando in senso orario subisce una pressione più elevata nella parte superiore a causa delle differenti velocità del fluido sopra e sotto la sfera.

Figura 1. Una palla (che viaggia da sinistra verso destra) ruotando in senso orario subisce una pressione più elevata nella parte superiore a causa delle differenti velocità del fluido sopra e sotto la sfera.

Abbiamo visto quindi che una palla che ruota velocemente intorno al proprio asse subisce pressioni differenti in punti diversi della superficie, a causa della diversa velocità relativa dell’aria rispetto alla superficie dovuta, appunto, alla rotazione.

Questo spiega le cosiddette punizioni «a foglia morta», in cui il cuoio devia gradualmente ma inesorabilmente dalla traiettoria attesa al fine di buggerare il portiere.

Ma nel caso della «maledetta» di Pirlo, come si vede agevolmente al rallenty, la palla non ruota quasi per nulla. La spiegazione deve essere un’altra. E non può non coinvolgere la fisica: è inutile provare a rintracciare una tessera del tifoso a nome Harry Potter, residente a Hogwarts.

Inutile anche chiedere ad Andrea Pirlo. Talento pratico e cultura scientifica non vanno esattamente di pari passo, e il buon Pirlo (che di talento ne ha abbastanza da dare in mutuo) non fa eccezione. Tuttalpiù vi potrebbe raccontare di come l’idea di calciare il pallone in quel modo così singolare gli sia venuta sul cesso, luogo da sempre deputato alle idee brillanti.

Per svelare l’arcano, come avrete certamente capito, occorre tornare alla dinamica dei fluidi.

Un pericoloso cambio di regime

Per capire cosa è successo alla palla quando ha improvvisamente cambiato direzione, la cosa migliore da fare è provare a mettere una pallina da ping pong sotto l’acqua di un rubinetto. La pressione dell’acqua, dall’alto, contrasta con quella della nostra mano, che la regge dal basso. Esattamente come capita a un pallone che viaggia nell’aria a velocità costante. Da un punto di vista fisico, l’esperimento è analogo a quelli che si compiono nella galleria del vento per testare i coefficienti aerodinamici delle automobili, solo che qui usiamo acqua invece di aria. Quando il flusso scorre lentamente, vedremo l’acqua scivolare in modo regolare lungo tutta la superficie della pallina, bagnandola ben bene in ogni verso, per cadere poi dal fondo della pallina stessa in direzione verticale, verso lo scarico.

Se potessimo vedere a occhio nudo le molecole d’acqua, scopriremmo che il liquido è organizzato intorno alla pallina come una specie di cipolla: tanti straterelli di spessore minimo che ricoprono la sfera l’uno dopo l’altro. Lo strato immediatamente intorno alla palla ha velocità nulla, mentre quelli successivi hanno velocità crescente man mano che il liquido si allontana dalla superficie della sfera. Questa situazione si realizza solo se l’acqua scorre sufficientemente lenta da potersi organizzare, e il risultato è il cosiddetto «regime laminare»: il liquido si dispone in tante lamine sottili, infinitesimali, che si muovono intorno alla palla come carte da gioco che un mago apre a ventaglio. Non solo il flusso è regolare e prevedibile, ma l’acqua bagna completamente la pallina.

Proviamo ora a immaginare di aprire il rubinetto del tutto, e di allontanare la pallina in modo che l’acqua arrivi sull’indifesa sferetta nel modo più violento possibile. In queste condizioni, l’acqua schizzerà in tutte le direzioni dalla cima della palla per frangersi in un tripudio di schizofreniche gocce che sbagnuzzeranno allegramente qua e là, facendo irritare alquanto chi vive con voi, moglie, madre o compagno di cella che sia.

In quest’ultimo caso il regime di flusso è turbolento; il liquido, data la velocità, non ha tempo di riorganizzarsi in lamelle educate che scorrono rispettosamente l’una sull’altra, e il risultato è una specie di sommossa in cui le molecole più veloci si impongono sulle più lente, sbatacchiandole e brutalizzandole, creando dei vortici e delle linee di flusso assolutamente imprevedibili. E quando dico «assolutamente» intendo dire esattamente quello che dico: non esiste, la fisica non ha ancora elaborato un metodo per calcolare con esattezza il comportamento di un fluido turbolento.

La cosa importante è che, in questo caso, il liquido non ricopra interamente la pallina; alcune aree della superficie, in particolare sul fondo, non sentono arrivare nemmeno una goccia dell’acqua. Il coefficiente di attrito del liquido sulla pallina – ciò che determina la forza con cui un liquido oppone resistenza a un oggetto che si muove al suo interno – è minore in presenza di un regime turbolento. È inferiore cioè il numero delle molecole che, scontrandosi, trasformano l’energia cinetica della palla (che ha una precisa direzione) in energia termica delle molecole stesse, che si mettono a vibrare e ruotare in conseguenza delle botte prese con la superficie della pallina o fra loro. A causa di ciò, la dispersione di energia cinetica in calore è meno consistente rispetto al caso laminare: come se la palla si muovesse in un fluido meno denso.

Se una palla viaggia molto velocemente in un fluido, quindi, il rallentamento causato dalla differenza di pressione è minore quando avviene in regime turbolento, maggiore invece se in regime laminare. Quanto minore? Più o meno, cinque volte.

Detto ciò, possiamo capire cosa succede alla palla dopo la pedata di Pirlo. La palla, che viaggia a una velocità di circa trenta metri al secondo (a 110 km/h, tanto per avere un riferimento immediatamente comprensibile), è in pieno regime turbolento. L’aria, comunque, è in grado di rallentarla fino alla velocità alla quale avviene la transizione da turbolento a laminare (per il pallone di Pirlo, circa 50 km/h). A questo punto, la resistenza dell’aria si moltiplica per cinque e al pallone è come se arrivasse un’improvvisa folata di vento in faccia. Meglio: come se la nostra pallina da ping pong dall’acqua entrasse nella marmellata. E la pallina (o il pallone), poveretta (o poveretto) non può far altro che soggiacere a questo fatto, e rallentare.

Se tutto questo succede quando il pallone ha già iniziato a scendere, la discesa sarà parecchio più ripida di quanto preventivabile. E il povero portiere è fregato.

Fregato e incolpevole. Perché non c’è nessun modo di prevedere la transizione. L’esperienza, l’allenamento e l’abilità visiva non sono sufficienti. E questo principalmente per due motivi.

Palloni verso l’ignoto

Il primo motivo è abbastanza curioso: in realtà, quando calcia, nemmeno Pirlo sa dove andrà a finire il pallone. E questo perché, affidandosi alle ultime tre dita del piede, riesce a non imprimere alcuna rotazione alla palla stessa.

Se ruotasse su se stessa, infatti, la sfera sarebbe molto più stabile, e subirebbe sicuramente meno l’effetto dell’improvviso cambiamento di regime: la traiettoria sarebbe allora molto più prevedibile.

Un oggetto che ruota acquisisce tanta più stabilità quanto più veloce è la sua rotazione: un concetto che, in fisica, si spiega con il «principio della conservazione del momento angolare», ma che noi esseri di ciccia comprendiamo abbastanza presto da bambini, quando giochiamo con la trottola o impariamo ad andare in bicicletta.

A causa della velocità di rotazione, un qualsiasi oggetto che gira su se stesso possiede «un’inerzia rotazionale», ovvero una tendenza a non cambiare il suo stato di rotazione. Tale inerzia aumenta, oltre che con la velocità di rotazione, con la massa dell’oggetto e con le sue dimensioni.

Se poi l’oggetto, oltre che ruotare su se stesso, si muove in una determinata direzione (come, per l’appunto, una trottola dopo essere stata lanciata con entusiasmo), è decisamente riottoso a cambiare traiettoria e a deviare dalla direzione impartita; per farlo ci vuole molta più forza di quanta ne occorrerebbe se la trottola ruotasse lentamente.

Per tornare a Pirlo, quindi, la stabilità della traiettoria dipende dalla rotazione impressa al momento del tiro e questo effetto – noto come «effetto giroscopico» a chi ama usare parole lunghe e minacciose al fine di far vedere quante ne sa – consente ai calciatori di mantenere una traiettoria prevedibile.

Sì, va bene, abbiamo capito. Ma se il pallone non gira, ci chiediamo, è davvero così instabile?

Per verificarlo, alcuni ricercatori giapponesi e coreani hanno testato la stabilità della traiettoria di alcuni palloni di ultima generazione facendoli calciare da un robot, in grado di colpire la sfera sempre nello stesso punto e con la medesima velocità. Un essere umano troverebbe tutto ciò decisamente palloso (e mai volgarità potrebbe essere più adeguata), oltre che difficile da eseguire con la precisione richiesta; il robot, invece, non pretende altro che un po’ di corrente, e si mette lì bravino a colpire, in modo sempre identico. I risultati dell’esperimento sono, almeno per me, parecchio sorprendenti. Uno stesso pallone, calciato con perizia robotica alla medesima velocità e con il medesimo angolo verso una porta distante venticinque metri (paragonabile a un calcio di punizione da media distanza), ha un intervallo di possibili punti di arrivo, da un estremo all’altro, largo circa due metri, e una deviazione standard di circa mezzo metro sia in orizzontale che in verticale.

Detto in soldoni, non deve sorprendere che un pallone calciato perfettamente entri in porta a mezzo metro di distanza rispetto al punto che pensavamo.

Mezzo metro che può essere più che sufficiente a fare la differenza tra i fischi del pubblico e quello dell’arbitro che indica il centro del campo.

Un pallone che manda nel pallone

Il secondo motivo per cui la traiettoria è imprevedibile anche per il portiere più allenato dipende dal tipo specifico di pallone: marca e modello, a quanto pare, hanno una loro non trascurabile importanza.

L’evoluzione del pallone è sempre andata di pari passo con la storia del calcio. Chi rimpiange il caro vecchio modello a trentadue settori esagonali e pentagonali, e maledice la FIFA che a ogni Mondiale sostituisce il pallone con uno nuovo (che battezza con un nome immancabilmente ridicolo), forse non sa che quella particolare morfologia venne introdotta appositamente per un campionato del mondo.

Il campionato era quello del 1970, e il neonato pallone Telstar aveva uno scopo ben preciso: la suddivisione in venti spicchi bianchi e dodici neri, infatti, serviva per rendere più visibile la sfera sui televisori di allora, che trasmettevano appunto in bianco e nero. In precedenza, i palloni in uso erano fatti da dodici strisce di cuoio, portate poi a diciotto in occasione della Coppa del Mondo del 1954, con la cucitura fatta a mano ben visibile. Oltre ad avere una forma sferica decisamente discutibile, quei palloni di pelle assorbivano acqua con estrema ingordigia: a fine partita, per intenderci, i colpi di testa erano decisamente sconsigliabili. Era bene evitarli anche prima, in realtà, visto che la cucitura sporgente, da sola, bastava e avanzava a fresare il cuoio capelluto dei più ardimentosi, se putacaso si trovavano a colpire il pallone per il verso sbagliato.

La forma del Telstar, invece, era decisamente più vicina a una sfera, ma era comunque di cuoio. Arrivò quindi il Tango per i Mondiali di Spagna ’82 (lacrimuccia di commozione): sempre dello stesso materiale, ma con le cuciture ricoperte di gomma per minimizzare l’assorbimento dell’acqua. Purtroppo, a furia di calci, le coperture si consumavano e si rompevano in modo disomogeneo, così spesso il pallone doveva essere sostituito durante la gara.

Nulla cambia nella sostanza fino ai Mondiali coreani del 2002, quando vediamo sul campo un pallone completamente fatto di poliuretano, il Fevernova, insieme a un altro fatto di materiale organico di dubbia attribuzione, l’arbitro Byron Moreno.

La rincorsa folle all’innovazione culmina nei Mondiali tedeschi del 2006 con il Teamgeist, fatto di quattordici pannelli a forma di fagiolo tenuti insieme da un processo termico, e pensato proprio per rendere la traiettoria del pallone indipendente dal punto in cui viene calciato. Nel 2010 in Sudafrica viene introdotto il Jabulani: otto pannelli di forma che non vi sto a descrivere perché ancora non mi è chiara.

E qui inizia il casino.

I portieri, infatti, contestano sin dall’inizio il nuovo pallone: le traiettorie, specialmente nei tiri da lontano, sono diventate schizofreniche. I palloni si abbassano, curvano, deviano in modo assolutamente imprevedibile. Gianluigi Buffon, telegraficamente, dirà che «è come giocare con un Super Tele».

E il bello è che i portieri hanno ragione.

La formazione di flussi d’aria turbolenti intorno al pallone dipende, oltre che dalla velocità, dalla superficie del pallone stesso. Non è difficile da capire: le rugosità e le discontinuità presenti sulla buccia della sfera, come delle cuciture, deformano l’aspetto delle lamine che dovrebbero formarsi in modo ordinato e perfettino sulla superficie.

In particolare, è la presenza di cuspidi (per i lettori che non hanno una laurea in matematica o in storia dell’arte: archi appuntiti) – proprio quelle che si formano in corrispondenza di una cucitura – a inibire la formazione di strati dinamicamente sovrapponibili. In tali casi, sarà il regime turbolento a imporsi. Per questo, a palloni fatti con materiali diversi (lisci o rugosi) e con una morfologia di cuciture differenti, corrispondono comportamenti opposti.

Non possiamo aspettarci che il caro vecchio pallone a trentadue pannelli si comporti come il Brazuca, con i suoi sei a forma di elica. E anche se da un punto di vista qualitativo è facile da capire, a interessarci sono gli effetti da un punto di vista quantitativo, capire cioè quanto il comportamento cambi da pallone a pallone.

In particolare, quello che vorremmo sapere è a che velocità avviene la transizione da turbolento a laminare, e quanto questa transizione è brusca. Una transizione di regime, infatti, avviene in maniera precisamente numerabile solo in situazioni ideali, ovvero quelle strane costruzioni mentali che i fisici teorici usano per ragionare sul mondo: sfere perfettamente lisce, piani privi di attrito, suocere simpatiche e altri oggetti che nella realtà non esistono. Con gli oggetti reali, tali transizioni non avvengono mai in modo discontinuo, bianco/nero; esiste un intervallo di tempo più o meno ampio durante il quale il nostro sistema cambia e assume connotati differenti.

Uno studio del genere deve essere sperimentale, e per nostra fortuna qualcuno ci ha già pensato. Gli stessi ricercatori del calciatore robot di cui si parlava prima, in mancanza di meglio da fare, hanno infatti completato le loro ricerche testando il comportamento di un certo numero di palloni nella galleria del vento, orientandoli in modo diverso – questo perché il comportamento del pallone potrebbe variare in funzione di come esso viene orientato: a seconda della loro posizione, infatti, le cuciture incontrano l’aria con un angolo differente, e tale dipendenza dall’angolo per alcuni palloni può essere cruciale.

La scoperta più interessante è che, effettivamente, il pallone dei Mondiali tedeschi, il Teamgeist, si comporta come un tedesco, senza mostrare cioè instabilità di nessun tipo; il passaggio dal regime turbolento a quello laminare è dolce, con una pendenza moderata. Tutto il contrario del suo erede, il Jabulani, per il quale la transizione non solo è brusca, ma dipende vistosamente da come è orientato il pallone. Così come dai pannelli dipendono, e pesantemente, la sua traiettoria e la sua precisione: di tutti i palloni provati (incluso un caro vecchio modello a trentadue poligoni) è quasi il peggiore. Solo il Cafusa, testato durante la Confederations Cup del 2013 e da allora messo in un angolo, fa peggio. Un pochino meglio il Brazuca: nonostante mostri la transizione turbolento-laminare più brusca, perlomeno questa non dipende da come si posiziona il pallone al momento del tiro…

Conclusioni

Negli anni Ottanta, Cláudio Ibrahim Vaz Leal (meglio noto come Branco) tirava delle punizioni terrificanti colpendo il pallone dalla parte della valvola; da allora, parecchi calciatori si sono ingegnati per rendere imprevedibili le traiettorie dei loro calci piazzati.

Questa incessante ricerca è favorita da un dato di fatto: afferrare una palla al volo non è facile. Noi esseri di carne e ossa apprendiamo questa abilità, fin da bambini, a prezzo di tempo e fatica. E la apprendiamo basandoci sui nostri cinque sensi, vista e tatto in particolare.

Purtroppo, non c’è modo di vedere con i nostri occhi una transizione di regime.

Nello sport, come nella vita, dobbiamo accettare il fatto che quello che sappiamo non sempre è sufficiente a risolvere il problema, anche se ne siamo convinti. Se avremo però successo, saremo più capaci di goderci il risultato delle intuizioni geniali che hanno qualche volta gli uomini.

O disperarcene, dipende dalla squadra per cui tifiamo.

Di sicuro, è difficile rimanere indifferenti.