Un altro giorno ancora.
La sveglia suona, le mie gambe si muovono da sole verso la toilette, la mano sinistra afferra lo spazzolino e la destra schiaccia il dentifricio. La pasta azzurra, che profuma di menta, s’incastra tra le setole chiare. Tengo gli occhi chiusi finché non trovo il coraggio di guardarmi allo specchio. Le occhiaie, due profonde pozze scure sotto le palpebre, sono più pronunciate di com’erano ieri. Sono la testimonianza dell’ennesima notte insonne.
I miei gesti sono diventati meccanici. Raccolgo i capelli sopra la nuca, tolgo la camicia da notte e apro il rubinetto della vasca da bagno. Scivolo in silenzio dentro l’acqua, con le ginocchia strette al petto.
Ho trenta minuti per prepararmi, prima che inizino le lezioni telematiche dell’università. I libri sono ancora sparpagliati sulla scrivania dalla sera precedente. Le mie mattinate si susseguono così da… ormai ho perso il conto dei giorni. Mi fermo all’ora di pranzo, poi mangio o faccio finta di mangiare, e nel pomeriggio ritorno a studiare. Fino a sera inoltrata. Fino a quando il cervello non chiede pietà.
Dopo avere cenato e sparecchiato la tavola, prego.
Mi inginocchio di fronte al grande crocifisso che ho appeso sopra il letto e recito quanti più Padre nostro possibili. Per me, per Jeremy, per Ariel, per le persone bisognose.
Per lui .
A volte mi sveglio sul pavimento, nel cuore della notte, con il rosario ancora intrecciato alle dita. Il rosario a cui, colpevolmente, ho appeso l’anello che mi ha consacrata all’uomo che mi ha ferita più di qualsiasi altra persona al mondo.
La voce di mio fratello, oltre la porta della camera, mi invita a darmi una mossa. Esco dalla vasca da bagno, mi asciugo e indosso un paio di jeans e un maglioncino a collo alto. Mi trascino al piano inferiore, dove la colazione è già pronta sul bancone della cucina. La torta fresca della moglie del diacono Perez, il latte caldo e i pancake con lo sciroppo d’acero.
Mi si chiude definitivamente lo stomaco.
«Buongiorno, Jem.»
Mio fratello sorride e spalanca il quotidiano sulla pagina della cronaca nera. «Durante la notte i ragazzi hanno arrestato Di Benedetto e tutta la sua combriccola. Il fisco ringrazia. Ed è anche merito mio.»
«Fantastico.»
Mi costringo ad addentare la torta. Il boccone non ne vuole sapere di andare giù. Jeremy legge l’articolo che parla di Di Benedetto con aria compiaciuta; negli occhi ha lo scintillio di chi sa di avere fatto un ottimo lavoro e riceverà un encomio per questo. Studio il suo sguardo mentre mastico. La mascella volitiva è contratta in un sorriso sghembo.
«Io faccio la volontà di Dio, sono uno dei suoi messaggeri di pace» prorompe in tono greve. «Questi reietti, questi delinquenti,» e punta l’indice sulle immagini in bianco e nero dell’arresto, «hanno intralciato la mia strada. Hanno intralciato il cammino dell’Altissimo. Capisci, Chastity? Libererò questa città dal male in ogni sua forma.»
I brividi mi percorrono la schiena, dalla base della spina dorsale fino al collo. «Capisco.»
«Dovresti mostrare un po’ più di entusiasmo.»
«Sì, mi spiace, ti chiedo scusa. È che sono un po’ preoccupata per l’università, le lezioni di teologia sono molto complicate.»
Jeremy infila il quotidiano nella ventiquattrore, ripone le stoviglie nell’acquaio e risponde a una telefonata. Qualcuno che si complimenta con lui per l’operazione Di Benedetto. È tutto uno sperticarsi di “grazie”, “ho fatto solo il mio dovere” e “nel nome di Dio e della legge”.
Mentre è girato verso la finestra che dà sul giardino, butto la mia fetta di torta nell’immondizia. Non ho più fame. Lo saluto con un cenno della mano, mimo con la bocca un banale augurio a passare una buona giornata e ritorno in camera. Accendo il computer e la schermata d’inserimento della password restituisce la fotografia di me e Ariel in ritiro spirituale, qualche mese fa.
Guardo i nostri volti vicini, sorridenti, in primo piano su uno sfondo di colline verdeggianti e tende da campeggio colorate. Nell’inquadratura, un po’ sfocato, c’è anche Jeremy che bisticcia con martello e picchetto.
Inserisco la password e l’immagine scompare. È stato molto tempo prima.
Prima di tutto.
Prima di scoprire che Ariel mi ha mentito per anni sui suoi sentimenti per Jem. Prima di sapere che mio fratello ha fatto lo stesso. Prima di tradire Dio. Prima di sporcare la mia anima. Prima di lui . È qualcosa con cui non sono pronta a fare i conti, ecco perché non appena i miei pensieri confluiscono in quel delta oscuro li scaccio via. Prendo la testa tra le mani e mi concentro sugli appunti sparpagliati accanto alla tastiera.
Non ho più cercato la mia migliore amica. L’ho intravista solo alle funzioni della domenica, ma ogni volta Jeremy mi ha portata via prima che potessi anche solo incrociare il suo sguardo. Il mio cellulare giace abbandonato nel cassetto del comodino, spento da oltre un mese, un tempo in cui ho proibito a chiunque di avere accesso a me. Persino alla musica. L’ho rinnegata insieme a colui che per me ne è diventato simbolo, perché non c’è più melodia senza ritmo, e ora che lo so, so anche che non ci sono più io senza di lui, anche se è così che deve essere. È così che devo essere. Sola. Non so se Ariel mi abbia telefonato o inviato dei messaggi, o se abbia perso le speranze con me.
Onestamente, non m’importa. Perché non so più quale sia il confine tra verità e menzogna.
Se osservo il mio passato recente, vedo solo contorni sfocati e ricordi sbiaditi. Quello che ho fatto non sembra nemmeno reale. È stato un sogno, forse il frutto della mia immaginazione. Non sono mai salita sul palco della BMB, non ho mai nuotato osservando le luci di Boston, non ho mai visto il crepuscolo dal Pier 6.
Ho dormito il sonno dell’innocenza di una ragazza qualsiasi.
«Non è successo niente.» Guardo la cornice d’argento che racchiude la fotografia di mamma e papà nel giorno del loro matrimonio. «Sono ancora la figlia che meritavate di avere.»
Mi aspetto di vedere i loro visi sorridenti che si piegano in una smorfia di delusione. Tuttavia la loro felicità, congelata nell’istante di uno scatto, rimane tale.
«Lo sono ancora, vero?»
La mia voce si incrina, sillaba dopo sillaba. Inghiotto i singhiozzi e mi punisco. Penso. I corpi dei miei genitori, ridotti a un colabrodo, giacciono scomposti sulla strada. La polizia deposita nastri gialli, paletti e targhette. La pozza di sangue ormai rappreso emana un odore dolciastro, la scientifica effettua i primi rilievi. La mano che ha esploso i colpi è esperta, dice l’ispettore capo.
Potrebbe anche essere una mano che tu conosci bene, Chastity. Ti ha toccata, accarezzata, le sue dita affusolate sono entrate dentro di te. Ti ha portata in paradiso e poi ti ha trascinata giù, all’inferno.
«Non è colpa mia.» Mangio le lacrime che mi imbrattano la faccia, rannicchiata sulla poltrona, gli occhi fermi sull’immagine di mamma e papà. «Non volevo farvi questo.»
Non volevo ucciderli un’altra volta. Ammazzarli anche da morti. Eppure l’ho fatto. Ho arrecato un dolore immenso ai vivi e anche ai defunti. Forse sarebbe meglio se anche io sparissi, se togliessi il disturbo, se prendessi una corda e mi impiccassi alla trave del soffitto. Finirei comunque tra le braccia di Satana, un luogo a cui sono già destinata.
Ma sono una codarda, e poi credo di meritare una vita di sofferenza. Devo sentire lo stomaco contorcersi in eterno, proprio come adesso, mentre corro verso il gabinetto e rigetto quel poco che ho ingoiato a colazione. I conati si susseguono, alimentati dall’odore acre di candeggina che risale dalla tazza.
Tiro l’acqua, mi alzo in piedi a fatica e barcollo fino al letto. Ho bisogno di parlare con il reverendo Joyce, di confessare per l’ennesima volta i miei peccati. Non posso aspettare fino a sabato, necessito del sostegno di qualcuno e lui è l’unico che può darmelo, anche se magari non vorrebbe. È obbligato ad ascoltarmi, a stare a sentire me che racconto di come ho disonorato la memoria dei miei genitori.
Afferro il cellulare dal cassetto e lo accendo. Prima che possa comporre il numero di Joyce, lo schermo si intasa di notifiche e si blocca. Suona a intermittenza, lampeggia, si accende e si spegne come se avesse subito mille sbalzi di tensione.
La piccola fotografia di Ariel compare nella parte alta del display, affiancata da messaggi che hanno tutti più o meno lo stesso tono. È preoccupata per me, dice di essere passata a trovarmi e avere subito l’ira di Jeremy. Chiede quando potremo rivederci, così, come se io non sapessi quello che è successo tra lei e mio fratello. In effetti è vero. Non dovrei sapere niente, non secondo lei.
«Mi manchi» sussurro sottovoce, vorrei tanto avere il coraggio di dirglielo di persona. Anche se mi ha mentito per anni. «E ti voglio bene, nonostante…»
La suoneria acuta e fastidiosa del cellulare mi interrompe. Sullo schermo compaiono un nome e una foto che non avrei voluto vedere. Qualcuno che avrei dovuto dimenticare già da tempo e che, invece, ho solo ficcato in un angolo del cuore.
Un viso di cui conosco ogni piccola ruga, efelide e sfumatura. Un paio di occhi striati di giallo, una bocca che racchiude due file di denti perfetti, la barba dai fili ramati e i capelli tra i quali ho passato le dita centinaia di volte. Nell’immagine, il sole gli illumina parte del volto. Lo colpisce tra la tempia sinistra e l’orecchio destro, dipinge sui suoi tratti spigolosi l’alba di Boston, l’unica che abbiamo visto insieme.
Damian Kelly mi sta chiamando.
Ci vogliono meno di cinque secondi perché tutto ritorni a galla. Il bacio sul retro del pub squallido, il bagno in piscina sotto le stelle della città, la notte tra le sue braccia, la nostra prima volta. Il matrimonio. Quella stupida cerimonia finta, con quello stupido anello d’acciaio.
Damian che mi giura amore eterno, che si inginocchia ai miei piedi, che mi chiede di sposarlo e poi… e poi se ne va. Con le mani sporche del sangue dei miei genitori. E della mia verginità.
«Stupida. Stupida!»
Il telefono smette di suonare, ma Mad continua a fare confusione dentro di me. All’improvviso sento un tintinnio.
Lui è lì, è connesso, mi sta scrivendo, è vicino a me anche se si trova dall’altra parte del mondo. Inizio a respirare affannosamente, come se fossi in cerca di ossigeno. La chat contiene più di duecento messaggi.
Chissà se avrò mai il coraggio di leggerli tutti.
Guardo il crocifisso sopra il letto. Dio mi sta mettendo alla prova, vuole capire se può fidarsi ancora di me, se posso tornare a essere degna del suo amore. “Brava, Chastity, adesso spegni quel cellulare e spezza in due la scheda sim”, sta dicendo il Cristo sofferente appeso al muro. “Così potrai liberarti della tentazione di Satana che tieni tra le mani.”
Il telefono trilla ancora, c’è un nuovo messaggio.
Nella mia testa, la voce di Damian si sovrappone a quella del Signore, finché i confini non si perdono e non capisco più chi è l’uno e chi è l’altro. Forse sono la stessa persona. Lo sono sempre stati.
Impiego tre secondi per prendere una decisione. Uno per consentire al mio cuore di accettare che le mie azioni cambieranno tutto, magari per sempre. Uno per pentirmi. Uno per tradire Dio.
Ancora.
Il pollice si muove meccanico, la chat si apre e fa mostra dell’ultimo messaggio di Damian.
Mad: Non c’entro con la morte dei tuoi genitori.