Sono qui, ma non ci sono.
Espressioni del viso, contrazioni muscolari e rigidità sono azioni che il mio corpo compie da solo, senza che ci sia davvero una testa pensante a comandarlo. Con gli occhi umidi di lacrime incontro il pavimento, sporco del sangue di Damian. Qualcuno ha pestato le gocce e le impronte delle scarpe lasciano una scia seghettata fino all’altare. Può sembrare stupido, ma mi viene da pensare a Gesù Cristo, che ha trascinato la propria croce fino al Golgota nonostante le ferite.
La cerimonia si è appena conclusa e non ho ascoltato una sola delle parole pronunciate dal reverendo Joyce. L’immagine di Damian che avanza lungo la navata, sanguinante e stravolto, ha cancellato tutto il resto. Ha spazzato via ventun anni di vita, perché non è rimasto niente nel mio cervello a parte lui. Non so perché sia tornato. Forse per reclamarmi come sua proprietà dopo essersi divertito in Irlanda, dopo avere sputato sul nostro amore in cambio di sesso facile e droga, ma è stato sufficiente per risvegliarmi dall’anestesia.
È bastato incrociare il suo sguardo vacuo, gli occhi spiritati, la pelle sudata e i vestiti incrostati di sangue appiccicoso per fare sì che il mio cuore riprendesse a battere. L’idea che abbia fatto un incidente e sia corso da me ignorando il dolore è la cosa che mi fa più male in assoluto.
Perché mi ha distrutta con quel video? Perché ha cercato di ricompormi presentandosi al matrimonio?
Damian è uscito dalla chiesa prima che la polizia arrivasse e Abraham ha chiesto agli agenti di non intervenire. È un procuratore distrettuale così potente che loro hanno obbedito in silenzio, consapevoli che eseguire gli ordini di un uomo di questo calibro porterà solo vantaggi.
Un brivido di inadeguatezza mi attraversa mentre gli invitati sfilano per salutare gli sposi. Si perdono in chiacchiere e congetture pronunciate sottovoce, ora che sanno chi ho frequentato e di quale peccato mi sono sporcata. Damian e i suoi tatuaggi, il suo essere ciò che di più lontano a un buon cristiano possa esistere su questa Terra, una serpe venuta a tentare la prediletta di Dio.
So che c’entra Ariel. Ha raccolto l’anello che è stato testimone dell’amore tra Mad e me, il crocifisso che gli ho regalato, e ha infilato tutto nella borsetta. I tasselli vanno al loro posto quando ripenso a come guardava l’orologio, al suo volto concentrato sull’ingresso della Trinity Church.
La mia migliore amica sapeva che Damian sarebbe arrivato.
«Congratulazioni, signora Carrington.»
Una donna mi porge la mano. La guardo, è gonfia e le dita sono circondate da pacchiani anelli d’oro. Sposto gli occhi sulla sua faccia sudaticcia, sui capelli messi in piega e sull’abito che puzza di naftalina e deodorante dozzinale. Mi sta giudicando, lo vedo dalle sopracciglia aggrottate, dalle labbra arricciate.
Mi spiace di non essere pulita, retta e santa come tutti questi sconosciuti mi vorrebbero. Di essere solo una ragazza un po’ facile, come ho sentito bisbigliare da Maria Mercedes Perez.
«Grazie» rispondo secca.
Abraham, al mio fianco, continua a fingere che non sia successo nulla. Riceve le persone che si sperticano in lodi, i suoi galoppini, i sudditi venuti ad assistere al trionfo del loro re. Vorrei guardarli con disgusto, chiedere loro se hanno apprezzato lo spettacolo, se avranno di che spettegolare quando usciranno da questo luogo sacro, e invece mi limito ad annuire e stringere la mano a tutti.
Se avessi il potere di mandare indietro il tempo, di guardare Damian negli occhi ancora una volta, darei tutto quello che ho. Quel poco che mi è rimasto. La mia vita.
Se la chiedessero come tributo per sentire un’ultima volta i suoi polpastrelli sulla mia pelle, a raccogliere le lacrime, io accetterei. Preferirei un istante di dolore, il tempo di una pugnalata al petto, piuttosto che un’intera esistenza sprecata nel tentativo di non dimenticare il suo tocco.
Alla mia sinistra, la famiglia Blain è assorta e confusa. Ariel tiene il capo chinato in avanti, stringe le braccia al petto e sembra furiosa. Non l’ho mai vista così.
«Tutto questo è accaduto a causa tua.» Abraham mi scosta i capelli dal viso e fa in modo che solo io possa sentirlo. Si stampa in faccia un sorriso, cosicché dall'esterno possa sembrare che mi stia dicendo qualcosa di carino. «Dovrai fare molta penitenza, Chastity. Dovrai chiedere perdono a Dio, a suo figlio, alla Vergine e anche a me. Mi hai umiliato e non vedo segni di redenzione sul tuo volto.»
«Sto già pagando. Pagherò finché avrò la forza di respirare.»
«Quel Kelly ha messo in ridicolo tuo fratello.»
Due tizi ingessati arrivano di fronte a noi, con i loro bei ghigni falsi, i denti candidi e affilati, le labbra ricurve, le mani che gesticolano e rifilano pacche sulle spalle. Le loro parole fasulle ci investono. Complimenti, auguri, felicitazioni inutili che sono solo il travestimento dei peggiori commenti.
«Ma io ti prometto, Chastity Carrington,» riprende Abraham non appena restiamo soli, «che quando Jeremy avrà la promozione che merita, estirperemo gli intoccabili irlandesi da Boston. Spazzeremo via il potere malato della famiglia Kelly da questa città, elimineremo la corruzione, la malavita e di loro resterà solo cenere.»
Mio fratello riemerge dalla sagrestia. Ha una bustina di ghiaccio sintetico premuta sul volto, gli occhi circondati da ombre violacee e il colletto della camicia schizzato di sangue. Sfila accanto alla famiglia Blain, il diacono gli chiede come sta e lui non risponde. Si limita a lanciare uno sguardo crudele ad Ariel, che ricambia con tutta la poca cattiveria che è in grado di spurgare, e ci raggiunge.
Abraham lo accoglie con un mezzo sorriso. «Jeremy! Come va il naso? Fa’ vedere.»
Lui arretra per non farsi toccare. «È una contusione, non credo sia rotto. È stata Ariel Blain a trascinare qui quel delinquente» si affretta a precisare.
«Cosa c’entra la figlia del diacono con quel Kelly maledetto?»
«Frequenta uno di loro. È la sua amante.»
«Che stai dicendo? Jeremy, capisco che tu sia sconvolto, ma l’accusa che stai rivolgendo a quella ragazza è priva di ogni fondamento. I Blain sono una famiglia pulita e rispettabile.»
Una vena pulsa al centro della fronte di mio fratello. Fa per dire qualcosa, ma poi desiste e si trattiene. Lo conosco, gli conviene tacere se non vuole che la sua promozione cada nel vuoto. Più lo guardo, più mi rendo conto di quanto sia sconvolto e pallido. Sembra avere perso vitalità. Respira a fatica, inghiotte aria come se fosse appena riemerso dal fondo dell’oceano, i suoi occhi saettano a destra e sinistra in modo convulso.
Non so perché, ma in questo istante vorrei abbracciarlo e dirgli che andrà tutto bene.
Anche se è stato lui a vendermi ad Abraham, se mi ha barattata come se fossi merce, in cambio di una stupida indulgenza per un peccato che non ho commesso. Non è stato Satana a farmi innamorare di Damian, è stato il mio cuore. Questo sciocco cuore che continua a battere per lui, che lo farà in eterno, anche quando non avrà abbastanza forze per mantenermi in vita.
I Blain si avvicinano per le congratulazioni. Il diacono e sua moglie, ammutoliti e ancora scossi, vengono accolti a braccia aperte da quello che ora è mio marito. Ariel, invece, avanza e pianta gli occhi nei miei.
Allunga il braccio, il pugno chiuso e le nocche bianchissime, e mi sfiora lo stomaco. «Queste cose ti appartengono» sussurra con voce spezzata. E spezza anche me, tanto che ricomincio a piangere. «Devi tenerle tu.»
Mostro il palmo della mano e sulla pelle ricadono la fede di Mad e il crocifisso che gli ho regalato. Sono sporchi di sangue, viscosi, ed è tutto quello che mi rimane di lui. «Io…»
Jeremy non mi dà il tempo di proseguire. Si avvicina alla mia migliore amica, si piazza tra noi e dà le spalle alla sua famiglia, ancora impegnata a chiacchierare animatamente con Abraham. «Che tu sia maledetta, Ariel Blain. Devi avere qualche santo in cielo che ti vuole davvero bene, perché Carrington stravede per tuo padre e ti difende a spada tratta.»
«Jem, non parlarle così, per…»
Lei mi blocca, poi torna a fissare mio fratello. Le tremano le labbra, è così nervosa che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Avanza di pochi centimetri, fino a trovarsi faccia a faccia con lui, e inspira. «È da quando sono morti Robert e Mary Grace che cerchi di salvare Chas da qualcosa che esiste solo nella tua testa. In realtà il pericolo più grande, per lei, è proprio qui. Qui, di fronte a me. Al suo fianco. Tu sei il mostro da cui tua sorella deve fuggire, Jeremy. Hai rovinato la sua vita e continuerai a farlo finché vivrai, non è così? Perché vuoi avere il controllo. Su di lei, su di me, su chiunque faccia parte della tua misera vita. Lo stesso controllo che ti è mancato la sera in cui i vostri genitori sono stati uccisi.»
Ariel attende una risposta che non arriva. Mio fratello giace immobile, quasi scioccato, con le mani a penzoloni lungo i fianchi. Non è da lui. Il Jeremy Nedley che conosco l’avrebbe già schernita, offesa, accusata di essere figlia del demonio o Dio solo sa cosa. Quello che ho accanto, invece, rimane fermo con le labbra schiuse.
Abraham e i Blain si allontanano in direzione del vescovo Joyce, che sta richiamando la loro attenzione dal transetto.
«Sono quattro anni che ti permetto di calpestare i miei sentimenti.» Ariel si sforza di trattenere le lacrime, di non piangere, per non mostrare una debolezza che la distrugge. «Ho tentato di essere perfetta per te, ho fatto tutto quello che volevi, taciuto quando dovevo tacere, parlato quando dovevo parlare, mi sono spogliata quando me lo ordinavi e… non è bastato. Non voglio più cercare di convincerti del mio amore per te, o stare qui ad aspettare che tu smetta di considerarmi figlia del demonio. Sei un santo solo sulla carta, Jem. Punisci tua sorella per non punire te stesso.»
Ci sono migliaia di frasi che restano inespresse nel pulviscolo che volteggia tra di loro. È come se io non fossi più qui. Ariel e Jeremy combattono una guerra che non sono destinata a conoscere. Posso solo intuire le strategie, le battaglie e le armi, ma vittoria o sconfitta è una loro decisione.
«E sai cosa mi fa tanto arrabbiare? Non riuscire a odiarti come meriteresti.»
Mio fratello non fiata. So che è vivo solo perché il suo petto si alza e si abbassa. Ariel gli scocca un ultimo sguardo perentorio, mi carezza il braccio e si allontana verso la sua famiglia. Chi di noi uscirà integro da questo tritacarne? Chi non è stato distrutto, rovinato, logorato dal destino? Ho perso Damian, la mia migliore amica è a pezzi, Jem si vergogna di me, ho deluso Dio e Abraham è disgustato dal peccato che porto in grembo. Siamo tutti cenere.
«Jeremy, va tutto bene?» La figlia maggiore del diacono Perez gli porge una nuova bustina di ghiaccio e, senza preavviso, gli toglie quella ormai sciolta dalle mani. «Mi spiace molto per quello che è accaduto, ma sappi che l’ematoma si riassorbirà presto. Ho visto diversi lividi di questo tipo mentre ero in missione in Africa.»
Non capisco se stia cercando di pavoneggiarsi o se sia davvero preoccupata per il naso di mio fratello. Mi scappa una risata amara, tra le lacrime, e lei se ne accorge. Mi studia perplessa e sua madre la richiama, le bisbiglia qualcosa, forse di lasciare in pace Jem.
«Che cosa hai fatto ad Ariel…» Guardo l’altare di fronte a me, il volto sofferente di Cristo, le spine che gli circondano il capo. Proteggo nel palmo tutto quello che mi è rimasto di Mad. «Perché, Jeremy?»
«Ha rinnegato Dio, questa è la sua punizione.»
Gli circondo il polso e stringo. Stringo forte, finché le mie unghie non si piantano nella sua carne. Lui tenta di divincolarsi e io affondo di più, con più veemenza. «Il Signore ha delegato te per punirla? Ti ha detto che potevi fare di lei quello che volevi? Ridurla a uno straccio, umiliarla, soffocarla con i tuoi moralismi?»
Jeremy si volta di scatto. «Siamo in un luogo sacro. Non insudiciarlo.»
«Pensi che obbligarla a piegarsi alle tue perversioni sia il volere di Dio?»
«Zitta, Chastity.»
«Sono zitta da ventun anni. Prima di andarmene con Abraham, condannata a una vita infelice, voglio dirti quello che penso.»
Lui si libera dalla mia presa e accarezza il polso segnato dalle unghie. «Sei una peccatrice» sussurra.
Afferro ancora la sua mano grande, liscia e curata, e la porto dove non è mai stata: sopra al mio grembo. «Qui dentro c’è tuo nipote. Che tu lo voglia o no, è un Nedley. Non so se puoi sentire la sua presenza, ma è il mio bambino e tu sei suo zio. Sarai sempre legato a lui, o a lei. Non fisicamente, non con lo spirito e nemmeno con la mente. Con il sangue. Puoi cancellarmi dalla facciata pulita della tua esistenza, ma non riuscirai mai a spezzare il filo che ci lega. Io so che tu mi ami, Jeremy, anche se mi stai facendo male.»
«Se tu non fossi caduta in tentazione…»
«Non decidiamo noi chi amare.» Gli accarezzo il volto, per errore gli sfioro il naso e lui sussulta. «Solo quando accetterai di essere innamorato di Ariel smetterai di soffrire. Non è stata lei a distruggere la tua relazione con Lucy, sei stato tu. Se il tuo amore per Lucy fosse stato forte, non avresti vacillato.»
«Ma che bel quadretto!» Abraham applaude e sorride, a pochi passi da noi. «Venite, ci stanno aspettando nella sagrestia. La moglie del diacono Perez ha preparato i confetti.»
Mio fratello se ne va, non prima di avermi regalato un’occhiata stravolta. Inspiro, espiro, conto i battiti veloci del mio cuore. Quello che è mio marito allunga la mano e si appropria degli oggetti che appartengono a Damian. Me li toglie dalle dita con disprezzo e li getta nel bidone della spazzatura, accanto all’ingresso della sagrestia, sotto il mio sguardo allibito.
«No!» esclamo. Il suo braccio mi trattiene. «Per favore…»
«Non tollererò altri sgarri, Chastity Carrington. Ora mi appartieni.»
Inghiotto un conato di vomito. Abraham sottolinea ancora il mio nuovo cognome, il fatto di essere una sua proprietà, e qualcosa mi si contorce nel ventre. Non so come stia Damian, chi gli abbia procurato quella ferita e, per Dio, io lo amo. Lo amo e lo amerò sempre, nonostante i suoi tradimenti, gli insulti che mi ha rivolto, l’anello che mi ha strappato di dosso.
Prorompo in un singhiozzo di rabbia e dolore, mi piego in due, mi accascio sui gradini dell’altare come una Madonna morente. Il mio pianto dilaga in tutta la chiesa, sotto gli occhi allibiti degli invitati che si affrettano a uscire dalla sagrestia per assistere allo spettacolo.
Chastity la peccatrice, la puttana incinta di un mafioso, che si strugge sotto l’espressione impietosita di Cristo. Con le palpebre piene di lacrime i colori delle vetrate sul cleristorio sono più sfumati, più tenui. Chissà com’è il mio viso, inondato di stille salate e coni di luce, per la gente che mi fissa come un animale da circo. Lo spettacolo di una donna disperata che ha perso l’amore della sua vita.
Abraham si china, mi cinge il gomito e tenta di tirarmi verso l’alto. «Alzati, mi stai facendo fare una pessima figura.»
Sono un peso morto, anche se debole e fragile come un fuscello. Per quanto io abbia provato ad accettare la punizione per avere dato il cuore all’assassino di mamma e papà, per quanto io abbia tentato di annientare le emozioni, nessuna toppa potrà mai essere abbastanza grande da ricoprire il vuoto che ha lasciato Damian.
Non voglio crescere il nostro bambino da sola, al fianco di un uomo che non è suo padre e che, sono certa, non si occuperà mai di lui. Non voglio condividere il letto con Abraham, essere costretta a sentire il suo respiro, la sua pelle accanto alla mia. È davvero così che Dio mi vuole? Infelice per l’eternità?
«Avanti!» Quello che è mio marito mi strattona, e a questo punto le gambe reagiscono. «Ti rendi conto di quanto ridicola sia stata questa cerimonia?» bisbiglia con una punta di disgusto. «Prima quel delinquente insanguinato, ora tu che fai i capricci come una ragazzina. Hai idea di quale privilegio tu abbia avuto? Avrei potuto rifiutare di sposarti e lasciarti marcire in mezzo alla strada. Ma sono un uomo buono, che segue gli insegnamenti delle Scritture, e ho accettato una moglie impura pur di compiere un atto di carità. È così che mi ripaghi? Così che dimostri la tua gratitudine?»
Prima che possa rispondere, Ariel avanza e Abraham lascia subito la presa intorno al mio gomito. Gli invitati tornano a occuparsi delle chiacchiere tra di loro. Restano vigili, giudicanti, ma fingono di fare altro. Li odio, e questo sentimento dovrebbe essere bandito all’interno di una chiesa.
«Signor Carrington, vada pure in sagrestia. I colleghi della direzione distrettuale l’aspettano.» La mia migliore amica esibisce un sorriso falso, smorzato dal disprezzo, e indica l’aria oltre le proprie spalle. «Penso io a Chastity. Con me è in buone mani.»
«Forse tu riuscirai a farla ragionare. In fondo sei la figlia del diacono Blain.»
«Ma certo.»
Quando Abraham sparisce dietro a una delle colonne, scoppio di nuovo a piangere. Mi tuffo tra le braccia della mia migliore amica cercando una giustificazione, un appiglio, un briciolo di senso che possa spiegare il perché delle mie decisioni stupide.
«Oh, Chas… che cosa ti è saltato in mente?» Ariel asciuga le lacrime e posa la fronte alla mia. «Mi hai allontanata, ti sei chiusa a riccio, mi hai esclusa dalla tua vita. Perché hai sposato quel vecchio viscido? Perché non hai aspettato che Damian tornasse? Lui sarebbe arrivato, avreste potuto essere felici, lontani da Jeremy e da questa parrocchia.»
«Mad…» I singulti frenano ogni mio tentativo di parlare. «Mad…»
«Che cosa? Cosa è successo?»
«In Irlanda è stato con altre donne.»
«Non è possibile.»
Mi si spezza il cuore mentre ripenso ai fotogrammi di quel filmato disgustoso. «Mi ha inviato un video in chat. Faceva cose indicibili con tante ragazze. Ha scritto che sono stata ingenua, che è stato facile convincermi a donargli la mia verginità, che non potremo mai stare insieme perché lui merita di più.»
«Cosa?» Ariel spalanca le palpebre e scuote il capo. «Perché sarebbe tornato, allora? Perché venire qui, sanguinante, dopo ore e ore di viaggio, per portarti via?»
«Non lo so, io… io… sono così confusa.»
«Perché non me lo hai detto prima? Ne avrei parlato con Declan, lui…»
La afferro per le spalle e sospiro. «Ormai non ha più importanza. Sono la moglie di Abraham, non c’è niente che tu possa fare per sistemare le cose» mormoro rassegnata. «Per favore, se mai lo rivedrai, non dirgli che aspetto il suo bambino.»
Ariel tira su con il naso. «Non era questo il futuro che avevo sperato per la mia migliore amica. Non riesco neanche a odiare chi ti ha costretta a sposare quel tizio.»
«Ariel, tu meriti molto più di mio fratello. Ti scongiuro, salvati.»
«Lo vedrò un’ultima volta. Gli offrirò un’ultima occasione per redimersi.»
Non è mai scesa nei dettagli, ma riesco a intuire a quali assurde oscenità l’abbia costretta a sottostare. È quello che facciamo per amore a definire la grandezza di quello stesso amore. Ariel ha fatto qualsiasi cosa per Jeremy.
«Nessuno gli ha mai insegnato qual è il modo corretto di amare. Ci ho provato, Chas. Avrei voluto davvero che le cose fossero andate meglio per noi. Sono sicura che in un’altra vita tu sei mia cognata, Jem è un marito buono e premuroso per me, e Damian ti ama.»
Ricomincio a piangere. «Sì, è così. Lo sento.»
La voce ruvida di Abraham ci interrompe. «Ariel, i tuoi genitori ti stanno cercando. Dovete tornare a casa. È stato un piacere averti qui come testimone di nozze. Sarai sempre la benvenuta a casa Carrington.»
Lei non lascia le mie mani. «Per favore, abbia cura di Chas.» È disperata quanto me, non può fare altro che implorare mio marito di essere clemente. È quello che mi auguro anche io. «E del bambino.»
«Ho accettato di sposarla per occuparmi di lei. Dopo la penitenza e la preghiera, le cose si metteranno meglio. Non è così, Chastity?»
Annuisco robotica. Un brivido mi attraversa la pelle. «Sì.»
«Penitenza?» Ariel solleva le sopracciglia.
«Mia moglie espierà i propri peccati secondo la giustizia divina.»
«Cosa…»
Il diacono Blain e sua moglie sbucano alle spalle di Abraham, recuperano la figlia, impedendole di continuare, e lasciano la chiesa. La mia migliore amica si volta una decina di volte, mi guarda scioccata e impaurita, si agita prima di scomparire oltre il portone principale. Tremo, ho freddo, ho caldo, mi sento la febbre altissima e sono spaventata a morte ora che non è più con me.
Abraham mi scocca uno sguardo annoiato. «Partiamo subito. Ho avvisato l’albergo a Taunton che arriveremo prima del previsto.»
L’anulare, circondato dalla fede d’oro, inizia a bruciare. Fisso il marito che Jeremy ha scelto per me e vedo solo i suoi difetti, l’età ben oltre il doppio della mia, le rughe, l’espressione infastidita, gli occhi porcini. È così che ha inizio la mia condanna?
«Ti aspetto in auto. Va’ a salutare tuo fratello.»
La sagrestia è vuota, tutti gli ospiti sono usciti dalla chiesa. È rimasto solo il reverendo Joyce, che sta sistemando le ostie. Mi schiarisco la voce e gli rivolgo quello che dovrebbe essere un sorriso.
«Che cosa succede?»
«Sono solo venuta a salutarla.»
Lui deposita le ostie in una credenza e annuisce. Ha ancora il modo di fare di sempre, rassicurante e bonario. «Ho visto te e Jeremy crescere, passare da bambini ad adulti nell’arco di un solo giorno. Quando Robert e Mary Grace sono morti, ho visto qualcosa cambiare nei vostri sguardi. Dio mi perdoni, ma oggi ho rivisto quelle espressioni. Ho incrociato gli stessi occhi che ho incontrato al funerale dei vostri genitori.» Si ferma e sospira. «Il ragazzo insanguinato che ha fatto irruzione durante la cerimonia...»
«Sono mortificata.» Lo blocco. «Mi dispiace, reverendo. È stata una scena incresciosa e sono disposta ad accettare qualsiasi punizione.»
«Chastity, l’unione cristiana è e deve essere fondata sull’amore. Se manca l’amore, manca anche Dio nella coppia. Non è quello che insegna il Vangelo, non è il volere del Signore. Lui ci vuole realizzati, felici, non in pena e né condannati a sopportare le ingiustizie.»
«Damian e io non siamo destinati a questo. Non lo siamo mai stati. La sua famiglia ha ucciso la mia.»
Il reverendo boccheggia, come se finalmente avesse capito tutto. «Satana ti ha fatto visita nel modo più crudele possibile, figlia mia. Ha rubato la tua anima, ma tu devi fare tutto ciò che è in tuo potere per riaverla. Devi vivere in Gesù Cristo.»
L’unica prospettiva che ho è quella di vivere in un inferno di cristallo, ma non glielo dico. Lo saluto con un cenno del capo, lui mi dà un bacio sulla fronte e poi mi lascia andare. All’esterno della chiesa, defilato, c’è Jeremy. Il vento freddo gli scompiglia i capelli, le croste accanto al naso si sono solidificate e l’ematoma è un po’ più scuro.
Mi paro di fronte a lui e gli porgo il bouquet che ho appena recuperato dall’altare. «Partiamo per Taunton. Arrivederci, Jem.»
Senza aggiungere altro, gli do le spalle e mi allontano. Ha rifiutato me e il mio bambino, qualsiasi altra parola sarebbe superflua. Se devo soffrire, allora che soffra con me. Che si senta colpevole, che paghi per quello che ha fatto a sua sorella, a suo nipote, ad Ariel e a tutte le persone che ha incrociato sul suo cammino. È mio fratello, lo amerò in eterno, ma terrò ogni briciola di questo sentimento per me.
«Le valigie sono già nel bagagliaio» sibila Abraham quando raggiungo la sua auto, una normalissima Ford. «Andiamo.»
Sull’asfalto ci sono delle macchie di sangue. Mi sforzo di guardare altrove, fisso il cielo grigio, ormai preludio della sera che sta per calare sulla città. Il mio ultimo saluto a Boston. M’infilo nell’abitacolo con gli occhi gonfi di pianto, rossi, brucianti e doloranti, consapevole che ora siamo solo io e l’uomo che Jem mi ha imposto di sposare.
Tengo le mani in grembo e l’auto parte, il motore romba, dallo specchietto laterale osservo la Trinity Church farsi sempre più piccola. Sparisce dietro un grattacielo non appena ci immettiamo nella superstrada, ed è un altro pezzo del puzzle che è il mio passato che se ne va.
«Non hai nulla da dire?»
Il profumo per ambienti appeso alle bocchette dell’aerazione sprigiona un odore pungente e fastidioso. Sono nauseata. Scuoto il capo e riprendo a fissare Boston che scorre oltre il finestrino, il mare placido, il quartiere in cui vive Damian. Ogni fotogramma della nostra notte in piscina è tatuato nella mente, dove nessuno può portarmelo via.
Neanche lo sconosciuto al mio fianco, che mi ha acquistata come merce in nome di un Dio con cui non ho più nulla a che vedere.
«Mi spiace, io non la conosco nemmeno, signor Carrington. Non so che dirle.»
«Abraham. Sono tuo marito.»
La sua mano destra si posa sulla mia sinistra, che ritraggo in un baleno. È il primo gesto gentile che mi rivolge, la mia reazione è sconclusionata e ingiustificata. Siamo sposati, la nostra unione consacrata, passeremo il resto della vita insieme.
Se questo fosse un mondo giusto, al mio fianco ci sarebbe Damian. Starebbe guidando una delle auto d’epoca di suo padre, la mano salda intorno al volante, i tatuaggi messi in rilievo dai tendini. Sorriderebbe, la sua cicatrice si muoverebbe e io mi sporgerei per leccarla con la punta della lingua. Lui si fermerebbe sul ciglio della strada, mi trascinerebbe su di sé e faremmo l’amore così, incastrati tra i sedili e il cruscotto.
Ma questo mondo è sbagliato. Completamente sbagliato.
«L’appartamento di Providence ti piacerà.» Abraham blatera qualcosa in merito a stanze, metrature, pavimenti. «Ci sarà una stanza anche per nostro figlio. O figlia. A questo proposito, ho già prenotato una visita ginecologica per te.»
«Va bene.» Non riesco a dire altro.
«È un centro medico rinomato, gestito dalle sorelle missionarie.»
Il vestito da sposa inizia a essere scomodo. Mi contorco sul sedile mentre il viaggio continua tra le chiacchiere assurde di Abraham e le canzoni folk passate alla radio. È tutto così diverso, così lontano dal rock che è corso nelle mie vene fino a poche settimane prima. Quando Damian e io sognavamo di cantare insieme, di lasciare che le note legassero in eterno le nostre anime.
Non ho più niente di lui. Niente che io possa stringere, tenere vicino alla pelle e al cuore. Solo fotogrammi sbiaditi e consumati, che ormai si confondono con i miei desideri. Riaverlo con me, come se non mi avesse tradita, come se non fosse tornato in una pozza di sangue per sputarmi in faccia il suo odio.
Arriviamo a Taunton che la sera sta calando. La moquette dell’Holiday Inn accoglie i miei piedi stanchi, le gambe che quasi non mi reggono più, le tempie che pulsano per il dolore accumulato in questa giornata orribile. L’inserviente alla reception ci fa le congratulazioni, incarica un fattorino di portare i bagagli in stanza e ci assegna la tessera per aprire la porta della camera.
L’idea di dormire nello stesso letto di Abraham mi dà il voltastomaco. L’unica cosa che mi consola è il fatto di provocargli disgusto, di essere impura, macchiata dal peccato, lurida abbastanza da impedirgli di sfiorarmi anche solo con un dito.
Saliamo al terzo piano, stretti nell’ascensore che odora di plastica nuova e disinfettante, e raggiungiamo la nostra stanza.
Deve esserci una festa in una delle camere d’albergo, perché la musica in corridoio è assordante e copre persino la voce di Abraham che si volta per blaterare qualcosa.
«Ho chiesto alla cucina di servirci la cena in camera.»
Lo ringrazio mentalmente, troppo abbattuta per fiatare. Gli sto dietro mentre apre la porta su un ambiente quasi asettico, immacolato, composto da una cassettiera nera, un letto matrimoniale con la testiera bianca e un televisore enorme. Abraham posa il proprio bagaglio sul reggivaligia, apre la cerniera ed estrae un crocifisso di legno che sistema al centro del letto.
Rimango immobile sull’ingresso chiuso, le braccia abbandonate lungo i fianchi, incerta su come muovermi. Vorrei togliere il vestito, fare la doccia, accasciarmi tra gli zampilli d’acqua e piangere di nascosto le lacrime che mi restano… ma non posso farlo davanti a lui.
«Posso usare la toilette?» domando con un filo di voce. I brividi mi attraversano tutta. «Non sopporto più questo abito. Per favore.»
Abraham scuote il capo, l’espressione severa di chi non ammette repliche. «Prima la preghiera.»
«C-come?»
«Il Signore è più importante di ogni altro capriccio. La sofferenza, la stanchezza e il fastidio, sono la giusta punizione per quello che hai fatto. Ora ci inginocchieremo e insieme chiederemo perdono per i peccati compiuti durante la cerimonia.»
Deglutisco un fiotto di saliva. «Ma io…»
«Il tuo peccato è stato guardare quell’assassino con gli occhi della lussuria. Il mio, desiderare di ucciderlo. Dobbiamo pentirci, Chastity.»
«Pregherò, ma solo dopo essermi cambiata. Per favore, signor Carrington…»
«Abraham. E no, mia cara, tu ora fai quel che ti dico e preghi con me.»
Avanzo robotica fino ai piedi del letto. Ricaccio indietro le lacrime, che questa volta sono di rabbia e frustrazione, e piego le gambe finché i gomiti non si posano sul soffice piumone. Intreccio le mani di fronte al viso, chiudo gli occhi e visualizzo Dio. O Damian.
Damian nudo, coricato tra le lenzuola, che mi invita a peccare con lui. Io che mi tuffo tra le sue braccia, lo bacio, le sue dita che s’intrufolano tra i miei capelli.
«Non ti sento pregare, Chastity.»
Trattengo il fiato. «Quando parlo con il Signore, lo faccio sempre dentro di me…» sussurro. «In modo che ci sia un legame tra noi…»
«Voglio sentirti pentita. Voglio che tu chieda scusa per tutto quello che hai fatto.» Abraham s’inginocchia al mio fianco e l’odore dell’acqua di colonia che porta mi investe. «Sei stata malvagia nei miei confronti. Espieremo insieme questa tua colpa, non sarai sola. Avanti, recita la tua preghiera.»
Mando giù un groppo fatto di paura, collera e irritazione. «Signore, io mi pento per tutti gli errori che ho commesso…» Mi si spezza la voce in gola e non riesco a recuperarla.
«Brava, continua.»
«Per il dolore che ho provocato nelle persone a me care… a mio… a mio marito, Abraham, e a mio fratello, Jeremy. Ti chiedo perdono e sono pronta a fare qualsiasi cosa per ottenerlo.»
Quando riapro gli occhi, Abraham sta sorridendo. Batte la mano sul letto e mi fa segno di sedermi. «È un buon inizio. Presto avrai modo di sdebitarti come si deve. Avanti, siedi qui. Hai detto di essere stanca e di avere bisogno di riposo.»
Il suo sguardo indecifrabile non mi lascia, almeno finché non mi siedo dove le sue dita hanno lasciato un’impronta tenue tra le lenzuola. Lui si sistema di fronte a me, genuflesso, e, in maniera del tutto inaspettata, mi slaccia le scarpette bianche. È un gesto premuroso che mi lascia interdetta, immobile ad ansimare.
«È stata una giornata difficile per tutti.»
Annuisco. «Già.»
Abraham rimuove una delle calzature e il mio piede sinistro, arrossato e un po' gonfio, è libero di respirare. Anche l’altro, tolta la costrizione, smette di pulsare. Il dolore si attenua un po’. Forse ho sbagliato a giudicare l’uomo che ho sposato come gelido e privo di sentimenti. Sono contenta di suscitargli, oltre al disgusto, almeno un po’ di compassione.
«Grazie» mormoro.
Invece di alzarsi, Abraham rimane dov’è. Ha lo sguardo fisso sulle mie gambe circondate dalle calze bianche. Prima che possa tirarmi indietro, le sue dita ruvide mi circondano le caviglie e risalgono lungo i polpacci. Un rivolo di sudore mi scivola lungo la schiena. Solo Damian mi ha sfiorata così.
«Signor Carrington, se non le dispiace io avrei bisogno di una doccia calda…»
«Hai una pelle meravigliosa. Quanti anni hai detto di avere?»
«V-ventuno. La prego, posso andare alla toilette ora?»
Lui mi accarezza come se fossi di velluto pregiato, si lecca le labbra e poi pianta gli occhi nei miei. «Devi pagare il tuo debito.»
Il mio grido viene soffocato dalle lenzuola. Sbatto la faccia contro il letto, succede tutto prima che possa rendermene conto. Abraham mi infila un ginocchio tra le gambe, con una mano mi stringe i capelli e con l’altra preme la base della schiena per impedirmi di risalire.
Mi ha ribaltata come un foglio di velina, sono creta nelle sue mani che sento dappertutto. S’intrufolano sotto il vestito, alzano la lunga gonna un tempo appartenuta a mia madre, mentre io mi divincolo e urlo, scalcio, piango, penso a Damian e a Jeremy, a quanto sono stata sciocca e ingenua.
«Sta’ ferma. Ferma!»
Abraham mi tira i capelli e mi costringe ad alzare il capo. Grido di nuovo, fra le lacrime, sputo sangue perché mi sono morsicata un labbro, tento in tutti i modi di divincolarmi.
Non ha mai provato disgusto per me.
Jeremy mi ha consegnata dritta fra le braccia del mio carnefice.
«Smettila, sgualdrina!»
Lo schiaffo che mi colpisce l’orecchio e la guancia è talmente forte che non faccio in tempo a rendermi conto della mano, stretta intorno al collo, che mi mozza il fiato. Abraham mi schiaccia con il suo peso, mi stringe le natiche e imprime il suo vile segno sulla mia pelle.
«No… per favore, no…»
Nessuno può sentirmi. La festa, la musica, il baccano che proviene da una delle stanze del piano: niente potrà mai sovrastare quel caos perfetto. Perfetto per il vile che mi sta costringendo a subire questa violenza senza intoppi.
Sento le forze venire meno, tento di alzarmi per proteggere la pancia, il bambino, tutto quello che mi rimane di Damian. Lui, che non mi avrebbe mai sfiorata senza il mio consenso, che non può salvarmi perché è lontano chilometri e chilometri da me e dal mio cuore. Sento qualcosa spezzarsi dentro, nel profondo, dove nessuno è mai arrivato.
Abraham ansima, sputacchia sulla mia nuca, strappa l’abito nel tentativo di farsi strada per rendere tutto più veloce. «Sarà doloroso per tutte e due, Chastity» ringhia. «Solo così soffriremo davvero, pagheremo per le nostre colpe. Il tuo sangue in cambio dell’assoluzione, dell’indulgenza.»
«No!»
Piango, contorta sotto strati di pelle umana e violenza, mentre Abraham mi morde una spalla e il suo indice arriva nel punto in cui ha deciso di scaricare la propria penitenza. Un punto in cui nemmeno Mad ha osato arrivare.
Il grido che mi esce dalla gola è così intenso che per un istante rimane stordito e mi dà il tempo di voltarmi, premermi contro la testiera del letto e agitarmi finché le energie me ne danno possibilità. Mi cinge le caviglie, afferra la cornetta del telefono fisso verso cui ho allungato il braccio, nel tentativo di chiamare aiuto, e la scaglia lontano.
«Sei mia moglie, fai quello che io ti ordino!» Il palmo della sua mano mi copre il volto, gli arredi della stanza diventano ombre. Si mette a cavalcioni su di me e mi schiaccia il ventre. «Tu sei mia proprietà!»
«Aiuto…» soffoco, contro la sua pelle. «Aiutatemi… Il mio bambino…»
Abraham mi strappa le calze e le mutande con un solo gesto. Il rumore del tessuto che si lacera ricopre il fischio che mi trapana il cervello. Scossa dai singhiozzi, distrutta dalla rabbia, dal senso di ingiustizia e dalla paura, chiudo gli occhi e prego che finisca in fretta. Che questa violenza sia l’unica che dovrò sopportare, che non accadrà mai più.
E prego. Questa volta davvero.
Per la vita che porto in grembo, che oggi muore un po’ con me. Per mio fratello, che mi ha venduta a un mostro e che per me, ormai, è uno sconosciuto. Per Ariel, perché si salvi da lui.
Prego per Damian.
Perché sia felice.
Prego perché realizzi il sogno di diventare un batterista, perché si liberi dalla sua famiglia, dal peso di un cognome che non desidera. Prego perché possa recidere il sottile filo rosso che lo tiene legato all’Irlanda, e perché possa trovare la sua strada, anche se non coincide più con la mia.
Damian Kelly, io ti amo. E ti odio, tantissimo. Ci sarà sempre una parte di me che ti odierà, ma non prevarrà mai su quella che ti ama.
Succede in un istante. Le mie gambe si muovono da sole. Tiro le ginocchia al petto con un movimento repentino, inaspettato, e poi le lascio andare in avanti con tutta la forza che ho. Non sono stata io a volerlo. Non ho ordinato questo al mio cervello.
Eppure, accade.
I talloni colpiscono il petto di Abraham, che ha già i pantaloni abbassati, e un sibilo strozzato prorompe dalla sua bocca. Il suo corpo viene sbalzato via dalla potenza del mio calcio, si sbilancia all’indietro e finisce contro la cassettiera al lato opposto del letto.
Un rumore molle e cedevole crea il vuoto nella camera. Cartilagine rotta, ossa che cedono, carne che si perfora. Il corpo di Abraham si accascia sul pavimento e abbandona una scia di sangue scarlatto dietro di sé. Una pozza simile a petrolio si allarga sotto alla sua nuca. Mi sporgo dal bordo del letto e guardo lo spettacolo che ho messo in scena. Gli occhi spalancati di mio marito fissano vacui il soffitto.
Ha ancora i calzoni abbassati e il suo petto non si muove più.
Dalle labbra mi esce un filo di voce. «Signore!» Urlo, ma la potenza del grido si riverbera dentro di me e non riesce a scalfire le pareti della mia pelle. «Signore, abbi pietà di me…»
Gattono sul pavimento e i brandelli del mio vestito da sposa si inzuppano di liquido rosso. Ho ucciso un uomo. Ho ammazzato Abraham. Sono un’assassina.
«Cosa faccio… Aiuto, cosa faccio? Dio…»
Passo le mani sudate tra i capelli. Non ho mai visto una persona morire davanti ai miei occhi e non ho mai visto un cadavere. Ho paura. Non della figura senza vita che giace ai miei piedi, ma di me stessa.
«Non uccidere, quinto comandamento. Non uccidere, non uccidere.»
Soffoco un grido disperato nella manica del vestito. La mia vita è finita. Marcirò in galera, mi condanneranno alla pena capitale e non importa se Abraham ha cercato di violentarmi e l’ho colpito per questo. Daranno via il mio bambino e morirò con un’iniezione letale. Mi verranno spalancate le porte dell’inferno, Dio non mi perdonerà. Non questa volta.
Adesso sono davvero sola di fronte alla morte.
Chiudo gli occhi e quando li riapro sono alla toilette, di fronte allo specchio, le mani sotto il getto d’acqua gelida. Sfrego le dita fino a scorticarle. Non so come sono arrivata a sciacquarmi il volto, a vedere del liquido rosa scendere verso lo scarico, ma sono qui. Lo specchio della toilette, con la sua cornice di lusso, riflette il viso di un’omicida.
Non indosso una tuta arancione, ma presto accadrà. Sento già la sensazione soffocante delle manette intorno ai polsi, del reverendo Joyce che mi fa visita in cella, di Satana che succhia la mia anima.
Non esiste redenzione per le persone come me.
Osservo il pavimento, le vie di fuga delle mattonelle colme di sangue, il rivolo che scavalca la soglia dell’ingresso del bagno. Piango e rido, non so se sto sognando o se sono sveglia. Afferro il cellulare e invece di chiamare la polizia, chiamo Jeremy.
Risponde dopo quattro squilli. «Che c’è?»
«Ho ucciso Abraham» ridacchio. «Gli ho fracassato la testa.»
«Cosa? Chas?»
«È morto. Devi venire a confessarmi.»
Lui balbetta. «Se è uno scherzo, sappi che non è divertente. Passami Abraham.»
Scoppio a piangere ancora. I singhiozzi quasi mi impediscono di parlare. «Chiama il 911. Voglio che sia tu a farlo.»
«Dove sei? All’Holiday Inn di Taunton?» Mio fratello ansima. «Qualsiasi cosa sia successa, aspettami. Sto arrivando.»
«Vuoi sentire una barzelletta, Jem?»
«Chastity, dimmi che cosa è successo. Parlami.»
«Sai perché gli scozzesi seppelliscono i morti con la testa fuori? Per risparmiare i soldi della fotografia.»
«Porca miseria, Chas, ascoltami!»
Sento il rumore dell’antifurto dell’automobile al di là dell’altoparlante. «Ricordi quella volta a Rockport con mamma e papà? La barca a vela, io che scivolo in acqua e tu che, per salvarmi, finisci sotto con me. Ti ricordi le risate? E il sole? Cosa è cambiato, Jeremy? Sono cambiate le cose o siamo cambiati noi?»
«Non potrei mai dimenticarlo. Dimmi di Abraham, ora. Confessati, sono qui, ti ascolto.»
«Per favore, fa’ presto. Voglio salutarti prima che la polizia mi arresti.»
«Chas, non…»
Riattacco e il telefono mi scivola dalle mani. Il volto di Abraham, spalancato in una muta espressione di morte, quasi beffarda, è un po’ più pallido di prima. Mi siedo al suo fianco e guardo il crocifisso di legno abbandonato tra i cuscini. Non sento più la voce di Dio, né quella di Gesù e nemmeno quella della Vergine. Rimane solo il ronzio del riscaldamento.
Mi ostino a tenere gli occhi sul cadavere, sul sangue che si rapprende. C’è un odore acre nella stanza. Chissà se riusciranno a pulire il pavimento. La cosa mi fa abbastanza ridere. Le punte dei miei capelli sono tinte di rosso. Anche questo mi fa ridere.
Se i Kelly mi vedessero sarebbero fieri di me. Potrebbero assumermi come sicario.
Una vita per una vita. I miei genitori sono stati uccisi, io ho ucciso.
Qualcuno tenta di consegnare la cena, ordinata da Abraham quando era ancora vivo. Da dietro la porta di legno declino con gentilezza, inventando un malessere e chiedendo di addebitare comunque la cena sul conto, poi ricomincio a piangere. La moquette che funge da scendiletto è intrisa di sangue. Non volevo che le cose andassero così, davvero. Quante persone ho rovinato con la mia stupidità?
Il tempo passa, non passa, si dilata e si restringe. Non so che ore siano quando sento bussare forte alla porta della stanza. La voce di Jeremy mi dà conforto. Mi alzo, come un fantasma, e apro. Il naso di mio fratello è messo male. Gli butto le braccia al collo, rido, piango, tossisco, rantolo, mi accascio ai suoi piedi e imploro perdono.
Lui impreca. Non l’ho mai sentito prima d’ora. Inghiotte un singhiozzo e avanza trascinando anche me sul pavimento. Striscio senza lasciare le sue caviglie.
«Signore… “Libera quelli che sono condotti a morte, e salva quelli che, vacillando, vanno al supplizio”» ansimo. «Lascia che muoia io, riporta in vita lui.»
«Chastity…»
Jeremy si lascia andare sul letto, inorridito, spaventato, confuso. Trema come se fosse nudo sotto la pioggia gelida, unisce le mani di fronte al viso e piange.
«Cosa… cosa facciamo? Cosa è successo, Chas?»
«Voleva che espiassi i miei peccati.»
«Che significa?»
«Stava per violentarmi. Voleva… non voleva…»
Jeremy toglie la giacca. Non dice niente, nell’aria si sente solo il suono dei miei denti che battono. Si alza in piedi e rifila una decina di pugni ai cuscini, posa i palmi delle mani contro il muro e singhiozza.
«Dobbiamo pregare, Jem. E chiamare la polizia.»
«Chastity, devi aiutarmi, ti prego.»
Mio fratello mi richiama, alza e abbassa la voce, si rende conto d’un tratto che siamo in albergo, che qualcuno potrebbe sentire, potrebbe capire.
Sobbalzo, quando la musica esplode dalla televisione che Jeremy ha acceso per coprire le nostre parole, i nostri rumori.
«Chas, per favore,» mio fratello si inginocchia davanti a me, «dobbiamo risolvere questa situazione, altrimenti siamo rovinati. La nostra vita sarà rovinata.»
Visto che non rispondo, lui estrae il cellulare. Compone un numero, ma lo smartphone gli cade di mano e si spacca a contatto con il pavimento. Impreca ancora, serra la mascella e afferra la cornetta del telefono fisso della stanza, che Abraham ha scagliato lontano.
Il segnale è libero, ma nessuno risponde.
Nessuno.
Siamo soli.