Capitolo 38

C’è una pausa nel temporale. Per le cinque e mezzo siamo di ritorno al salone di tatuaggi. Trigger e Tibet si apprestano a chiudere, ma vedendo com’è bagnata e infreddolita la nonna, ci permettono di portarla di sopra per farle un bagno caldo. Mentre la caliamo nella vasca le sorreggo la schiena. La nonna flette le dita dei piedi. «Oh, mamma mia, che sensazione piacevole!»

Mi metto al lavoro con una saponetta e una spugna. «Così va bene?» le chiedo sfregandole le spalle.

«Un po’ più a sinistra, pulce.»

Dopo la asciughiamo. Le prendo un cambio d’abiti in valigia e l’aiuto a vestirsi mentre Teddi telefona ai miei. «Non ve lo posso spiegare al telefono, ma le riporto a casa io con la macchina. Mi piacerebbe fermarmi con la mamma a Casa Bird per qualche giorno prima che si sistemi. Dobbiamo imparare a conoscerci di nuovo. Non è un problema, vero?» No, non è quella la domanda che dovrebbe fare! «Benissimo, allora ci vediamo.»

Scendiamo con le nostre cose. Trigger e Tibet hanno chiuso il negozio e siedono con Ryder sui divanetti riservati ai clienti. Presento Teddi a Ryder, poi lei va a prendere la macchina e la nonna e io ci sediamo sul divanetto di plastica verde.

Lei annuisce come se stesse seguendo tutto quanto, ma io so che è piuttosto confusa.

«E adesso che cosa succede?» chiede Tibet.

«Teddi ci porta da lei. E domani torniamo a casa con la sua macchina.»

«Allora non avete più bisogno di me» osserva Ryder. «Ero passato solo nel caso in cui vi fosse servito un posto per la notte.»

«Grazie, ma…» La mia voce si spegne. Giocherello con l’imbottitura che spunta dal nastro adesivo sul bracciolo.

«Su di morale» mi dice Trigger. «Tutto è bene quel che finisce bene.»

«Ma non finisce bene. I miei mi rivogliono, ma…»

«Niente ma» mi interrompe Ryder. «Hai una mamma e un papà da cui andare.»

«Non capisci.»

«No, sei tu quella che non capisce.»

Con quegli occhi non discuto.

La nonna si china a parlarmi all’orecchio. «È una festa?»

«Una specie. Una festa d’addio.»

«Chi è che parte?»

«Noi. Torniamo a casa.»

«Oh, bene.»

È imbarazzante quando sei costretta a parlare con qualcuno e non sai che cosa dire. Sono stati così gentili, ma esibiamo tutti quei sorrisi come se stessimo aspettando che qualcuno ci faccia la fotografia.

Arriva Teddi. Pioviggina. Portiamo la nonna e i bagagli alla macchina. Trigger, Tibet e Ryder mi abbracciano. Tibet mi infila un biglietto da visita in mano nel caso dovessi tornare in città.

«Vuoi che Teddi ti accompagni da qualche parte?» chiedo a Ryder.

Lui si ficca le mani in tasca. «No, grazie, rimango un po’ qui a vedere come butta.»

«Va bene. Ci si vede.»

«Già, ci si vede.»

E invece non ci rivedremo, e lo sappiamo. Quando Teddi parte, mi volto a dare un’ultima occhiata. Ryder è appoggiato a un lampione a guardare le macchine. Scompare nella foschia.

Teddi ci accompagna nella parte di Toronto che si vede nelle riviste. Il suo palazzo è vicino a Mount Pleasant Boulevard, che è un nome vero e non uno preso da un libro di fumetti. Dà su un parco. Sì, d’accordo, è un cimitero, ma se fossi morto, è il tipo di posto in cui vorresti stare.

Il marito di Teddi, Wilf, ha pronto un pollo arrosto. È molto più basso di lei, con capelli che si stanno diradando e macchie d’età. Ci porta nella sala da pranzo che affaccia sul parco. Come i quadri alle pareti, i tappetini e le lampade sui tavolini di vetro, anche il tavolo della sala da pranzo è fantastico: legno duro, ebano macchiato, con un centrotavola di fiori.

Wilf e io ci sediamo da un lato, Teddi e la nonna dall’altro. Hanno occhi solo l’una per l’altra: quelli della nonna sono timidi, quelli di Teddi dolci. Una o due volte la faccia della nonna è offuscata da una nuvola. «Sono Teddi» le mormora teneramente Teddi. «Sì» sorride la nonna. «Teddi.»

Wilf mi tiene compagnia. È un preside in pensione, perciò ovviamente mi chiede della scuola, delle mie materie preferite e poi di quello che mi piace fare nel tempo libero e dei miei progetti per quando sarò grande. «Se dovessi ricominciare da capo, sarei rimasto insegnante» mi dice. «Mi piaceva stare in classe, con tutti quei ragazzi pieni di idee.» All’epoca la sua materia era scienze. Scommetto che la faceva sembrare divertente.

Quando arriviamo al dolce, l’appetito della nonna si risveglia: brownie con gelato. Poco dopo comincia a dormicchiare. Teddi e io la portiamo nella camera da letto padronale e le infiliamo un pigiama di flanella di Wilf e un paio di calzini di lana mentre Wilf riordina in cucina. Questa notte dormirò qui con lei, Teddi e Wilf prenderanno il letto estraibile nell’altra camera.

Quando la nonna è addormentata, accendiamo una luce notturna e usciamo in punta di piedi per andare in soggiorno, dove Wilf sta leggendo. Ha preparato una cioccolata calda e ha tirato fuori un piattino con dei biscotti. Teddi si siede con me sul divano di fronte a lui.

«È dura vederla così» dice Teddi. «La mamma è sempre stata così forte.»

«Lo è ancora.» Ho gli occhi fissi sulla mia tazza.

Aspetto che Teddi ribatta o dica qualcos’altro che mi faccia sentire stupida. Solo che non lo fa.

«A che cosa stai pensando?» mi chiede gentilmente.

«A niente.» Affondo le punte dei piedi nel tappeto. Teddi e Wilf non dicono una parola. Parlate. Dite qualcosa. Niente. D’accordo. Bene. «Ho paura di tornare a casa.»

«Non devi averne. I tuoi genitori ti vogliono bene. Andrà tutto a posto.»

«È facile a dirsi per voi. Non appena sarò a casa, mi spediranno in quel collegio severissimo. La testa della nonna sta peggiorando e si dimenticherà di me. E allora che cosa succederà?»

Teddi mi cinge le spalle con un braccio. «La preoccupazione è una brutta bestia.»

«Lo so, ma come posso evitarla? C’è la nonna. C’è mia cugina Madi. Voglio dire, mi ha quasi ammazzata e non importa a nessuno.»

«Che cosa?»

Tutt’a un tratto apro le cateratte e racconto di Viscida e del ponte e che mi hanno sputato addosso e che mi hanno quasi lasciata cadere sui sassi e il filo spinato e che potranno prendermi di nuovo in qualunque posto e in qualunque momento e che la prossima volta mi faranno fuori definitivamente.

Wilf mi passa un fazzolettino. «Ne hai parlato con i tuoi?»

Annuisco. «Ma loro non mi credono. Non mi credono mai. Su niente…» E così tiro fuori la storia della scatola della Casa dei sogni e delle droghe e dei profilattici e…

«Gli parlerò io» mi promette Teddi.

«Non farà nessuna differenza.»

«Staremo a vedere.»

«Non vedremo un bel niente. Lo so.» La voce mi si incrina. «Scusatemi, non ce la faccio più a parlare, non ce la faccio proprio più.» Corro in camera da letto e chiudo la porta. Ma perché sono così confusa? Perché non posso essere normale? Perché la vita non può essere semplice?

Vado a letto e mi stringo alla nonna.

Non dimenticarmi, nonna. Ti prego. Non dimenticarmi mai.