4.

L’acqua trabocca dal bordo della vasca mentre mi libero in fretta dello strato di fango e foglie che mi riveste la pelle. Mi esploro il corpo roseo e ben strofinato in cerca di voglie o cicatrici, di qualsiasi segno che possa innescare un ricordo. Devo scendere al piano di sotto tra venti minuti e sul conto di Anna non so nulla di più di quanto sapessi mentre salivo per la prima volta gli scalini di Blackheath. Sbattere contro la parete di mattoni della mia mente era già abbastanza frustrante quando credevo di poter aiutare nelle ricerche, ma adesso la mia ignoranza potrebbe mandare all’aria l’intera operazione.

Quando finisco di lavarmi, l’acqua è nera come il mio umore. Sconfortato, mi asciugo ed esamino i vestiti stirati portati qui poco fa dal domestico. La tenuta che ha scelto mi colpisce per il suo stile alquanto austero, ma controllando le alternative offerte dall’armadio, comprendo subito il suo dilemma. Il guardaroba di Bell – perché in tutta sincerità non riesco a riconoscermi in lui – consiste in parecchi abiti identici, due smoking, completi da caccia, una dozzina di camicie e alcuni panciotti. Sono tutti neri o in diverse sfumature di grigio: scialbe uniformi di quella che finora sembra essere una vita straordinariamente anonima. L’idea che quest’uomo possa aver ispirato violenza a qualcuno sta diventando l’aspetto più bizzarro degli eventi di questa mattina.

Mi vesto rapidamente, ma ho i nervi così scossi che inspiro a fondo e costringo il mio corpo ad avvicinarsi alla porta. Provo l’istinto di riempirmi le tasche, e la mano scatta verso il comodino dove rimane sospesa senza scopo. Sto cercando di prendere oggetti che non ci sono e che non ricordo più. Questa dev’essere la routine di Bell, un’ombra della mia esistenza precedente che continua ad assillarmi. L’impulso è così forte che allontanarmi a mani vuote mi dà una sensazione stranissima. Purtroppo, l’unica cosa che sia riuscito a riportare qui dalla foresta è quella dannata bussola, ma non la vedo da nessuna parte. Deve averla tenuta il mio buon samaritano, l’uomo che il dottor Dickie ha chiamato Daniel Coleridge.

L’agitazione mi invade appena metto piede in corridoio.

Ho solo una mattina di ricordi e non riesco a conservare neppure quelli.

Un domestico di passaggio m’indirizza verso il salotto, che si rivela essere oltre la sala da pranzo, a un paio di porte di distanza dall’atrio pavimentato in marmo in cui sono entrato al mattino. È una stanza poco piacevole: il legno scuro e le tende scarlatte evocano una bara fuori misura, e il camino a carbone diffonde nell’aria un fumo oleoso. Riunite qui ci sono forse dodici persone, e sebbene ci sia un tavolo carico di affettati, gli ospiti se ne stanno per lo più accasciati sulle poltrone di cuoio o in piedi davanti ai vetri al piombo delle finestre, a fissare afflitti il tempo orribile, mentre una cameriera col grembiule macchiato di marmellata scivola discretamente in mezzo a loro, accumulando piatti sporchi e bicchieri vuoti su un enorme vassoio d’argento che riesce a malapena a reggere. Un tizio grassoccio con un completo da caccia di tweed verde si è piazzato al pianoforte nell’angolo e suona una canzonetta sconcia che offende unicamente per l’inettitudine dell’esecutore. Nessuno gli presta molta attenzione, nonostante lui faccia di tutto per attirarla.

È quasi mezzogiorno, ma non vedo Daniel da nessuna parte, per cui mi tengo occupato a esaminare le varie caraffe nell’armadietto dei liquori, senza avere la minima idea di cosa contengono, né di ciò che mi piace. Alla fine, mi verso nel bicchiere un po’ di liquido bruno e mi giro a guardare i presenti, sperando in un lampo di riconoscimento. Se una di queste persone è responsabile delle mie ferite al braccio, dovrebbe mostrarsi palesemente irritata nel vedermi sano e in forma. E la mia mente non cospirerebbe certo per mantenere segreta la sua identità, se il mio aggressore decidesse di uscire allo scoperto, no? Sempre che, com’è ovvio, il mio cervello sia in grado di escogitare una maniera per individuarlo. Gli uomini sono quasi tutti bulli strepitanti dalla faccia carnosa, in completo da caccia di tweed, mentre le donne esibiscono abiti sobri: gonna, camicetta di lino e cardigan. A differenza dei chiassosi mariti, si comportano con discrezione, limitandosi a sbirciarmi con la coda dell’occhio. Ho l’impressione di essere osservato di nascosto, come se fossi un uccello raro. È terribilmente imbarazzante, anche se comprensibile, suppongo. Daniel non poteva porre le sue domande senza rivelare nel frattempo i miei problemi. Ormai faccio parte del divertimento, che mi piaccia o no.

Centellinando il mio drink, cerco di distrarmi origliando le conversazioni altrui, il che mi dà una sensazione simile a quella di chi infila la testa in un cespuglio di rose. Metà dei presenti si lamenta, e l’altra metà ascolta le lamentele. Gli ospiti criticano l’alloggio, il vitto, l’indolenza della servitù, l’isolamento o il fatto di non essere potuti venire qui con la propria auto (anche se Dio solo sa come avrebbero fatto a trovare questo posto). Nella maggior parte dei casi, però, le loro ire si concentrano sulla mancanza di un benvenuto da parte di Lady Hardcastle, che deve ancora comparire, nonostante molti degli ospiti siano arrivati a Blackheath ieri sera: tale mancanza, a quanto pare, è stata presa come un affronto personale.

«Permesso, Ted» dice la cameriera, sforzandosi di oltrepassare un uomo sulla cinquantina. È un individuo dal torace robusto, con la pelle del viso cotta dal sole sotto una zazzera di capelli rossi che vanno diradandosi. Il completo da caccia di tweed si stringe intorno a un corpo massiccio che tende alla pinguedine e il volto è illuminato da vividi occhi azzurri.

«Ted?» ripete lui in tono rabbioso, afferrando il polso della ragazza e stringendoglielo con tanta forza da farla sobbalzare. «Con chi diavolo credi di parlare, Lucy? Per te sono il signor Stanwin, non vivo più nel seminterrato insieme ai topi, ormai».

Lei annuisce sconvolta, guardando le nostre facce in cerca di aiuto. Nessuno si muove, persino il pianoforte si zittisce. Hanno tutti un sacro terrore di quest’uomo, mi rendo conto. Con mia vergogna, non sono migliore di loro. Resto raggelato al mio posto, e assisto allo scambio sbirciando la scena con la coda dell’occhio e le palpebre abbassate, sperando con tutto me stesso che la sua grossolanità non si rivolga nella mia direzione.

«Lasciala andare, Ted» dice Daniel Coleridge dalla porta.

Parla con voce ferma, fredda. La frase risuona di echi.

Stanwin fa uscire l’aria dal naso e fissa Daniel con gli occhi ridotti a due fessure. Non dovrebbero esserci dubbi su chi avrebbe la meglio nel caso di uno scontro aperto. Stanwin è tarchiato e robusto, e sputa veleno. Eppure qualcosa nel modo in cui Daniel se ne sta là in piedi con le mani in tasca, inclinando la testa, induce Stanwin a esitare. Forse teme di essere investito dal treno che Daniel, con la sua posa rilassata, sembra aspettare.

Un orologio raduna il proprio coraggio e fa sentire il suo ticchettio.

Con un grugnito, Stanwin libera la cameriera, sfiora Daniel mentre esce e bofonchia qualcosa che non riesco bene a capire.

La stanza respira di sollievo, il pianoforte riprende a strimpellare, l’eroico orologio continua a ticchettare come se non fosse successo niente.

Gli occhi di Daniel ci soppesano tutti quanti, uno per uno.

Incapace di sostenere il loro esame, scruto il mio riflesso nel vetro della finestra. La mia faccia esprime disgusto, repulsione per gli infiniti difetti della mia personalità. Stamattina l’assassinio nella foresta, e ora questo. Quante ingiustizie lascerò accadere prima di trovare la forza d’animo per intervenire?

Daniel si avvicina, un fantasma nel vetro.

«Bell» dice sottovoce, posandomi una mano sulla spalla. «Hai un minuto?»

Ingobbito sotto il peso della vergogna, lo seguo nello studio adiacente, con gli sguardi di tutti puntati sulla schiena. C’è un’atmosfera ancora più cupa, qui, con i tralci dell’edera non potata che coprono come un sudario i vetri al piombo delle finestre, e la fioca luce che penetra all’interno risucchiata dagli scuri dipinti a olio. Lo scrittoio è posizionato in modo da offrire la vista sul giardino, e sembra abbandonato da poco, con una stilografica che sgocciola inchiostro su un frammento di carta assorbente accanto a un tagliacarte. Ci si può solo immaginare la lettera scritta in un’atmosfera così opprimente.

Nell’angolo più lontano, vicino alla seconda porta della stanza, un giovane in completo da caccia di tweed scruta perplesso l’altoparlante di un grammofono, evidentemente chiedendosi perché il disco che gira sul piatto non diffonda alcun suono.

«Un solo semestre a Cambridge e già si crede Isambard Kingdom Brunel» dice Daniel, inducendo il giovanotto a sollevare lo sguardo dal suo enigma. Ha i capelli scuri, non dimostra più di ventiquattro anni, e i lineamenti larghi e appiattiti danno l’impressione che tenga la faccia schiacciata contro una lastra di vetro. Nel vedermi, incurva le labbra in un ampio sorriso, e il ragazzo affiora nell’uomo come dietro una finestra.

«Belly, dannato idiota, eccoti qui!» esclama, stringendomi la mano e appioppandomi una pacca sulla schiena. Ho la sensazione di essere serrato in una morsa d’affetto.

Il giovane mi fissa in volto con un’espressione di aspettativa, socchiudendo gli occhi di fronte alla mia incapacità di riconoscerlo.

«Allora è vero, non ti ricordi proprio niente» osserva, lanciando una rapida occhiata a Daniel. «Che fortuna! Andiamo al bar, così ti posso introdurre all’arte della sbronza».

«Le notizie si diffondono in fretta a Blackheath» commento.

«La noia è un terreno molto pianeggiante» ribatte lui. «Mi chiamo Michael Hardcastle. Siamo vecchi amici, anche se suppongo che adesso sarebbe più adatto dire che stiamo facendo conoscenza».

Non c’è traccia di delusione in quanto ha appena affermato. In realtà la cosa sembra divertirlo. Già dal primo incontro, è chiaro che Michael Hardcastle si diverte in molte circostanze.

«Michael era il tuo vicino di tavola alla cena di ieri sera» interviene Daniel, che si è sostituito a lui nell’esame del grammofono. «A pensarci bene, dev’essere stato questo il motivo per cui sei uscito e ti sei dato una botta in testa».

«Stai al gioco, Belly: speriamo che un giorno, per puro caso, gli esca di bocca una battuta spiritosa» dice Michael.

Segue una pausa per lasciar posto alla mia replica, e il ritmo del dialogo crolla sotto il peso della sua assenza. Per la prima volta da quando mi sono svegliato questa mattina, provo una fitta di nostalgia per la mia vecchia vita. Mi manca la familiarità con questi uomini. Mi manca l’intimità della loro amicizia. Il mio dispiacere è rispecchiato dalle facce dei miei compagni, mentre un silenzio imbarazzato scava un baratro tra noi. Sperando di recuperare almeno un po’ della confidenza che un tempo doveva unirci, mi rimbocco la manica per mostrare loro le bende sul braccio, già macchiate dal sangue che comincia a filtrare attraverso la garza.

«Vorrei essermi limitato a battere la testa» replico. «Il dottor Dickie crede che qualcuno mi abbia aggredito ieri notte».

«Santo cielo» boccheggia Daniel.

«È colpa di quel dannato biglietto, vero?» esclama Michael, fissando le mie ferite.

«Di cosa parli, Hardcastle?» domanda Daniel inarcando le sopracciglia. «Sai qualcosa? Perché non l’hai detto prima?»

«Non c’è molto da dire» risponde Michael imbarazzato, scavando nel folto tappeto con la punta della scarpa. «Una domestica ha portato a tavola un biglietto mentre ci scolavamo la quinta bottiglia di vino. E prima ancora che avessi il tempo di rendermene conto, Belly si è scusato e ha cercato di ricordarsi come funzionano le porte». Mi guarda con aria vergognosa. «Volevo accompagnarti, ma tu sei stato inflessibile sul fatto che dovevi andare da solo. Ho pensato che avessi un appuntamento con una donna, perciò non ho insistito, e quella è l’ultima volta che ti ho visto».

«Cosa c’era scritto sul biglietto?» gli chiedo.

«Non ne ho la più pallida idea, vecchio mio, io non l’ho letto».

«Ti ricordi quale domestica l’ha portato, o se Bell ha nominato una certa Anna?» chiede Daniel.

Michael si stringe nelle spalle, la faccia contratta nello sforzo di ricordare. «Anna? Il nome non mi dice nulla, temo. Quanto alla domestica, be’…» Gonfia le gote, soffiando fuori un lungo respiro. «Abito nero, grembiule bianco. Oh, maledizione, Coleridge, sii ragionevole. Ce ne sono decine! Come fa un povero diavolo a ricordarsi che faccia hanno?»

Lancia a ciascuno di noi un’occhiata impotente, che Daniel accoglie scuotendo la testa con fare disgustato.

«Non preoccuparti, vecchio mio, verremo a capo di questa faccenda» mi dice poi, stringendomi una spalla. «E ho già un’idea su come fare».

Si avvicina a una planimetria della proprietà, incorniciata e appesa alla parete. È il disegno di un architetto, chiazzato di pioggia e ingiallito ai bordi, ma molto bello nella sua raffigurazione dell’edificio e delle terre che lo circondano. A quanto pare, Blackheath è una tenuta enorme, con tanto di cimitero di famiglia a ovest e scuderie a est, attraversata da un sentiero che conduce a un lago sulle cui rive si trova una rimessa per le barche. A parte il viale d’accesso, in realtà una strada che va dritta al villaggio, tutto il resto è ammantato dai boschi. Come suggerisce il panorama dalle finestre del primo piano, siamo completamente isolati tra gli alberi.

Un sudore freddo mi fa pizzicare la pelle.

Ero destinato a scomparire in quella vasta distesa, com’è successo ad Anna questa mattina. Sono in cerca della mia stessa tomba.

Avvertendo il mio turbamento, Daniel mi sbircia di sottecchi.

«Un posto alquanto solitario, eh?» mormora, picchiettando una scatola d’argento per farne uscire una sigaretta, che poi gli penzola dal labbro inferiore mentre lui si fruga le tasche in cerca di un accendino.

«Mio padre ci ha portati qui quando la sua carriera politica è finita male» dice Michael, accendendo la sigaretta a Daniel e prendendone una per sé. «Al mio vecchio piaceva immaginarsi nei panni del gentiluomo di campagna. Ma naturalmente le cose non sono andate proprio come sperava».

Inarco un sopracciglio con aria interrogativa.

«Mio fratello fu assassinato da un certo Charlie Carver, uno dei nostri guardiani» dice Michael in tono tranquillo, come se ci stesse riferendo i risultati delle corse.

Allibito per aver potuto dimenticare un delitto così orribile, balbetto una frase di scusa.

«Mi… mi dispiace, dev’essere stato…»

«È successo molto tempo fa» m’interrompe Michael con un’ombra d’impazienza nella voce. «Diciannove anni, per l’esattezza. Io ne avevo solo cinque, all’epoca, e a essere sinceri me ne ricordo a malapena».

«Contrariamente a quanto sostenuto da buona parte della stampa scandalistica» aggiunge Daniel. «Carver e un suo compare si ubriacarono fino a perdere la testa e agguantarono Thomas in riva al lago. Lo fecero quasi affogare, e poi completarono l’opera con un coltello. Thomas aveva circa sette anni. Ted Stanwin accorse sul posto e li mise in fuga con una doppietta, ma ormai Thomas era morto».

«Stanwin?» ripeto, sforzandomi di controllare il mio tono sbalordito. «Quel becero che era in salotto all’ora di pranzo?»

«Oh, non parlerei in questi termini a voce troppo alta» dice Daniel.

«È molto stimato dai miei genitori, il vecchio Stanwin» spiega Michael. «Era un umile guardacaccia quando cercò di salvare Thomas, ma papà gli ha regalato una delle nostre piantagioni africane in segno di gratitudine, e quella canaglia ha messo insieme un bel gruzzolo».

«Che ne è stato degli assassini?» domando.

«Carver finì sulla forca» risponde Daniel, battendo il dito sulla sigaretta per far cadere la cenere sul tappeto. «La polizia trovò il coltello che aveva usato sotto il pavimento del suo cottage, insieme a una dozzina di bottiglie di brandy rubate. Il suo complice non venne mai arrestato. Stanwin sostiene di averlo colpito con la doppietta, ma nessuno si presentò all’ospedale della zona a farsi curare una ferita, e Carver si rifiutò di denunciare il proprio compagno. Lord e Lady Hardcastle stavano dando un ricevimento quel fine settimana, perciò poteva trattarsi di uno degli ospiti, anche se la famiglia dichiarò recisamente che nessuno degli invitati conosceva Carver».

«Una strana vicenda sotto ogni punto di vista» commenta Michael con voce piatta e un’espressione tetra quanto le nubi che si affollano al di là delle finestre.

«Perciò il complice è ancora in libertà?» chiedo, con la paura che mi striscia lungo la schiena. Un assassinio diciannove anni fa e un secondo assassinio questa mattina. Non può certo essere una coincidenza.

«Viene da chiedersi a cosa serva la polizia, no?» dice Daniel; poi si zittisce.

I miei occhi cercano Michael, che fissa l’interno del salotto. La stanza si sta svuotando man mano che gli ospiti si dirigono nell’atrio, portando con sé le loro conversazioni. Persino da qui riesco a sentire la crepitante raffica di ingiurie pungenti che si abbatte su tutto quanto, dal degrado della casa all’ubriachezza di Lord Hardcastle e al gelido contegno di Evelyn Hardcastle. Povero Michael, fatico a immaginare cosa si provi nel vedere la propria famiglia ridicolizzata così apertamente, e nella sua stessa casa, per di più.

«Senti, non siamo venuti qui per annoiarti con le storie di un lontano passato» dichiara Daniel rompendo il silenzio. «Ho chiesto informazioni sul conto di Anna. Non ho buone notizie, temo».

«Non la conosce nessuno?»

«Non ci sono persone con quel nome, né tra gli ospiti, né tra i domestici» interviene Michael. «E, fatto ancora più significativo, da Blackheath non manca nessuno».

Apro la bocca per protestare, ma Michael solleva una mano per tacitarmi. «Non mi lasci mai finire, Belly. Non mi è possibile organizzare una squadra di ricerca, ma tra dieci minuti coi ragazzi usciremo per una partita di caccia. Se mi dai una vaga idea della zona dove ti sei svegliato stamattina, mi accerterò che ci dirigiamo da quella parte e che tutti tengano gli occhi aperti. Siamo in quindici a partecipare, perciò ci sono buone probabilità che troviamo qualcosa».

La riconoscenza mi riempie il petto.

«Grazie, Michael».

Lui mi sorride attraverso una nuvola di fumo di sigaretta. «Non sei mai stato tipo da esagerare le cose, Belly, e non credo che tu stia cominciando adesso».

Scruto la mappa, impaziente di fare la mia parte, ma non ho idea di quale sia il punto in cui ho visto Anna. L’assassino mi ha indirizzato a est, e la foresta mi ha rigurgitato di fronte alla facciata di Blackheath: ciononostante, posso solo ipotizzare quanto a lungo ho camminato, o da dove sono partito. Inspiro affidandomi alla provvidenza e batto un dito sul vetro mentre Daniel e Michael aspettano alle mie spalle.

Michael annuisce, massaggiandosi il mento.

«Lo dirò ai ragazzi». Mi squadra da capo a piedi. «Farai meglio a cambiarti. Partiamo tra poco».

«Io non vengo» dico, la voce strozzata dalla vergogna. «Devo… È solo che non…»

Michael cambia posizione, a disagio. «Come sarebbe?»

«Usa il cervello, Michael» interviene Daniel, battendomi una mano sulla spalla. «Non dimenticare quello che gli hanno fatto. Il povero Bell è riuscito a stento a uscire dalla foresta, perché mai dovrebbe essere disposto a tornarci?»

Il tono di Michael si addolcisce.

«Non preoccuparti, Belly, troveremo la ragazza e l’uomo che l’ha uccisa. Ci pensiamo noi, adesso. Tu tieniti il più lontano possibile da questo pasticcio».