8.

Le tenebre premono contro la finestra della mia stanza, e il loro alito freddo copre i vetri di brina. Il fuoco sibila in risposta: le sue fiamme ondeggianti sono la mia unica luce. Passi frettolosi echeggiano lungo il corridoio al di là della porta chiusa, un guazzabuglio di voci dirette al ballo. Da qualche parte, in lontananza, sento il tremolio di un violino che inizia a suonare.

Allungando i piedi verso il camino, aspetto che cali il silenzio. Evelyn mi ha chiesto di partecipare alla cena e alla festa, ma io non posso unirmi a quella gente sapendo chi sono e cosa vogliono da me in realtà. Sono stanco di questa casa e dei giochi di chi la abita. Alle dieci e venti andrò all’appuntamento con Anna al cimitero, e poi chiederò a uno stalliere di condurci al villaggio, lontano da questa follia.

Riporto lo sguardo sul pezzo degli scacchi che ho trovato nel baule. Lo avvicino alla luce nella speranza di sbloccare qualche altro ricordo. Finora questo piccolo oggetto non mi ha detto nulla, e nella sua minuscola figura non ho trovato molti stimoli capaci di rischiararmi la memoria. È un alfiere, intagliato a mano e spruzzato di vernice bianca, ben diverso dai lussuosi pezzi d’avorio che ho visto in giro per la casa, eppure… significa qualcosa per me. A prescindere da ciò che potrebbe rammentarmi, evoca un’atmosfera, quasi un senso di conforto. Tenerlo in mano mi dà coraggio.

Qualcuno sta bussando alla porta, e le mie dita si stringono intorno all’alfiere mentre scatto in piedi. Più si avvicina l’ora dell’appuntamento, più monta in me la tensione: sobbalzo di paura a ogni schiocco della legna nel focolare.

«Belly, sei qui dentro?» domanda Michael Hardcastle.

Bussa di nuovo. Con insistenza. Un piccolo ariete beneducato.

Appoggio l’alfiere sulla mensola del camino e apro la porta. Il corridoio è inondato da persone in costume: Michael indossa un completo arancione vivo e tormenta le fettucce di una gigantesca maschera a forma di sole.

«Eccoti qua» mi dice, guardandomi con aria di disapprovazione. «Perché non sei ancora vestito?»

«Io non vengo» replico. «È stata…»

Mi indico la testa con un cenno, ma il mio linguaggio gestuale è troppo vago per lui.

«Ti senti debole?» mi chiede. «Vuoi che chiami il dottor Dickie? L’ho appena visto…»

Devo afferrare Michael per un braccio per impedirgli di correre via in cerca del medico.

«Mi manca semplicemente l’energia per affrontare la serata» gli dico.

«Ne sei sicuro? Ci saranno i fuochi d’artificio e sono certo che i miei genitori abbiano dedicato l’intera giornata a preparare una sorpresa. È un peccato che…»

«Preferisco restare qui, davvero».

«Se ne sei proprio convinto» si rassegna lui con riluttanza, la voce mortificata quanto la faccia. «Mi dispiace che tu abbia avuto una giornata così brutta, Belly. Spero che domani vada meglio, e che non ci siano tanti malintesi, per lo meno».

«Malintesi?» ripeto.

«La ragazza assassinata?» Sorride sconcertato. «Daniel mi ha avvertito che è stato tutto un grosso equivoco. Mi sono sentito dannatamente stupido quando ho dovuto far interrompere le ricerche a metà. Nulla d’irrimediabile, comunque».

Daniel? Come diamine faceva a sapere che Anna era viva?

«È stato un errore, vero?» mi domanda, notando la mia confusione.

«Certo» rispondo in tono vivace. «Sì… un terribile errore. Sono dispiaciuto di averti importunato con questa faccenda».

«Non preoccuparti» dice con aria un po’ dubbiosa. «Non pensarci più».

Le sue parole si assottigliano come elastici troppo tesi. Percepisco le sue perplessità, non solo sulla vicenda, ma anche sull’uomo che ha di fronte. Alla fin fine non sono più la persona che conosceva, e credo cominci a capire che non desidero tornare a esserlo. Questa mattina avrei fatto qualunque cosa, o quasi, pur di colmare la frattura che ci divideva, ma Sebastian Bell era uno spacciatore di droga e un vigliacco, complice di un nido di vipere. Michael era amico di quell’individuo, perciò come potrebbe stabilire un legame d’amicizia con me?

«Be’, sarà meglio che vada» soggiunge lui schiarendosi la voce. «Vedi di rimetterti in sesto, vecchio mio».

Batte le nocche sullo stipite della porta e poi si gira per seguire gli altri ospiti diretti alla festa.

Lo guardo allontanarsi, cercando di assimilare le informazioni che mi ha riferito. Mi ero pressoché dimenticato della fuga mattutina di Anna in mezzo ai boschi grazie alla prospettiva del nostro incontro imminente al cimitero, che ha risucchiato via buona parte dell’orrore di quel mio primo ricordo. Eppure è chiaro che è accaduto qualcosa di grave, anche se Daniel è andato in giro a dire il contrario. Sono certo della scena alla quale ho assistito, del colpo di pistola e della paura. Anna era inseguita da una figura in nero, che adesso devo supporre fosse il lacchè. In un modo o nell’altro è riuscita a salvarsi, come io sono sopravvissuto all’aggressione subita nella notte. È di questo che intende parlarmi? Del nostro nemico comune, e del motivo per cui ci vuole morti? Forse vuole appropriarsi della droga? È evidente che vale una bella cifra. Può darsi che Anna collabori con me, e che sia stata lei a toglierla dal baule per impedirgli di impadronirsene. Questa ipotesi spiegherebbe quanto meno la presenza del pezzo degli scacchi. Che sia una sorta di biglietto da visita?

Dopo aver preso il cappotto dall’armadio, mi avvolgo una lunga sciarpa intorno al collo, m’infilo un paio di guanti spessi e mentre esco dalla stanza mi faccio scivolare in tasca il tagliacarte e l’alfiere. Fuori mi accoglie una serata fredda e frizzante. Mentre gli occhi si abituano all’oscurità, inspiro l’aria fresca, ancora umida per il temporale, e seguo il sentiero inghiaiato che gira intorno alla casa puntando verso il cimitero.

Ho le spalle contratte, lo stomaco in subbuglio.

La foresta m’intimorisce, ma ho ancora più paura dell’incontro che mi aspetta.

Quando mi sono svegliato, non desideravo altro che ritrovare me stesso, eppure adesso l’incidente della notte scorsa mi sembra una fortuna. Il colpo alla testa mi ha dato l’opportunità di ricominciare, ma cosa succederà se nel rivedere Anna tutti i miei ricordi torneranno a inondarmi la memoria? La personalità abborracciata che ho messo insieme alla meglio nel corso della giornata riuscirà a resistere a un simile diluvio o verrà spazzata via completamente?

Sarò spazzato via anch’io?

È una prospettiva preoccupante quasi al punto da indurmi a girare sui tacchi, ma non posso fare i conti con l’uomo che ero fuggendo dalla vita che si è costruito. Meglio affrontare la situazione qui, fiducioso nella persona che voglio diventare.

Stringendo i denti, percorro il sentiero tra gli alberi e arrivo a una casetta per il giardiniere dalle finestre buie. Evelyn è appoggiata alla parete a fumare una sigaretta: ai suoi piedi splende una lanterna accesa. Si è messa un lungo cappotto beige e stivali di gomma, una mise in netto contrasto con il vestito da sera azzurro che indossa sotto il soprabito e con il diadema di diamanti che le brilla sui capelli. È davvero molto bella, anche se porta la sua avvenenza con un certo disagio.

Si accorge che ho notato la sua tenuta bizzarra.

«Non ho avuto il tempo di cambiarmi, dopo cena» dice sulla difensiva, gettando via il mozzicone.

«Cosa ci fai qui, Evie?» le domando. «Dovresti essere al ballo».

«Me la sono svignata. Non avrai creduto che intendessi perdermi il divertimento?» ribatte, schiacciando la sigaretta sotto il piede.

«È pericoloso».

«In tal caso sarebbe stupido da parte tua andarci da solo; e poi mi sono procurata dei rinforzi».

Tira fuori dalla borsetta una rivoltella nera.

«Dove diamine l’hai trovata?» le chiedo, in preda allo shock e a un lieve senso di colpa. Il fatto che i miei problemi abbiano indotto Evelyn a impugnare una pistola mi sembra una specie di tradimento. A quest’ora dovrebbe essere al caldo e al sicuro a Blackheath, e non qua fuori, in pericolo.

«Appartiene a mia madre, perciò la domanda giusta sarebbe dove l’ha trovata lei».

«Evie, non puoi…»

«Sebastian, tu sei il mio unico amico in questo posto orribile, e non ti lascerò entrare in quel cimitero da solo senza sapere cosa ti aspetta. Hanno già tentato di ucciderti una volta. Non ho alcuna intenzione di permettere che accada di nuovo».

Un groppo di gratitudine mi serra la gola.

«Grazie».

«Non essere sciocco, la scelta è tra stare qui o dentro quella casa, con gli occhi di tutti puntati su di me» obietta, sollevando in aria la lanterna. «Dovrei essere io a ringraziarti. Andiamo, adesso? Succederà un putiferio se non rientro in tempo per i discorsi».

Le tenebre gravano pesantemente sul camposanto: la cancellata di ferro è sbilenca, gli alberi incombono bassi sopra le tombe storte. Mucchi di foglie marcescenti soffocano il terreno, le lapidi crepate e sgretolate vanno in rovina, portando con sé i nomi dei defunti. «Ho parlato con Madeline del biglietto che hai ricevuto ieri sera» dice Evelyn, spingendo il cancello cigolante per aprirlo e precedendomi all’interno. «Spero che non ti dispiaccia».

«Certo che no» rispondo, guardandomi intorno innervosito. «La cosa mi era sfuggita di mente, a dire il vero. Cos’hai scoperto?»

«Solo che a darglielo è stata la signora Drudge, la cuoca. L’ho presa da parte per saperne di più, e lei mi ha riferito di averlo trovato in cucina, ma non aveva idea di chi l’avesse lasciato là. C’era troppa gente che andava e veniva».

«E Madeline l’ha letto?» le domando.

«Ovviamente» dice Evelyn in tono ironico. «Non è nemmeno arrossita quando l’ha ammesso. Era un messaggio molto breve, con la richiesta di andare subito nel solito posto».

«Tutto qui? Niente firma?»

«Temo di no. Mi dispiace, Sebastian, speravo di poterti dare notizie migliori».

Siamo arrivati al mausoleo in fondo al cimitero, un grande parallelepipedo di marmo sorvegliato da due angeli spezzati. Da una delle loro braccia protese penzola una lanterna, e per quanto la sua fiammella guizzi nel buio, non c’è nulla di significativo da illuminare. Il cimitero è deserto.

«Forse Anna è in ritardo» osserva Evelyn.

«E allora chi è stato a lasciare qui quella lanterna accesa?» ribatto.

Ho il batticuore, e l’umidità mi penetra nei pantaloni mentre avanzo nello strato di foglie che mi arriva alle caviglie. L’orologio di Evelyn ci conferma che siamo arrivati al momento giusto, ma Anna non si vede da nessuna parte. C’è soltanto quella maledetta lanterna, che cigola ondeggiando nella brezza, e noi aspettiamo irrigiditi sotto di essa per un quarto d’ora abbondante, con la sua luce che ci ammanta le spalle, frugando le tenebre con gli occhi in cerca di Anna e illudendoci di vederla dappertutto: tra le ombre mutevoli e le foglie irrequiete, dietro i rami bassi agitati dalle folate. Di continuo uno batte un dito sulla spalla dell’altro per attirarne l’attenzione su un rumore improvviso o sullo scatto di un animale spaventato che sfreccia via nel sottobosco.

Col passare del tempo, è impossibile impedire ai pensieri di avventurarsi in fantasie più angosciose. Il dottor Dickie credeva che le mie ferite al braccio rivelassero un gesto di difesa, il tentativo di proteggermi dall’assalto di un coltello. E se Anna non fosse un’alleata, ma una nemica? Forse per questo mi era rimasto in mente il suo nome. A quanto ne so, potrebbe essere lei l’autrice del biglietto che ho ricevuto a cena, e magari adesso mi ha attirato qua fuori per finire il lavoro iniziato ieri notte.

Questi timori si allargano come crepe, incrinando il mio coraggio già fragile e riempiendo di paura il vuoto sottostante. È solo la presenza di Evelyn a sorreggermi: il suo sangue freddo mi tiene ancorato al mio posto.

«Non credo che verrà» mi dice.

«No, penso che non si farà vedere» convengo in tono sommesso per mascherare il sollievo. «Forse dovremmo rientrare».

«Temo di sì» concorda lei. «Mi dispiace tanto, amico mio».

Con mano malferma, sfilo la lanterna dal braccio dell’angelo e mi accodo a Evelyn che si avvia verso il cancello. Abbiamo fatto appena un paio di passi quando lei mi afferra il braccio, abbassando la lampada per illuminare il terreno. La luce inonda le foglie, rivelando le tracce di sangue che ne imbrattano la superficie. Mi inginocchio e strofino il liquido viscoso tra pollice e indice.

«Da questa parte» sussurra Evelyn.

Ha seguito le gocce fino a una lapide poco lontana, dove qualcosa balugina sotto le foglie. Scostandole, trovo la bussola che questa mattina mi ha guidato fuori dalla foresta. È fracassata e chiazzata di sangue, eppure persiste risolutamente nella sua devozione al nord.

«È quella che ti ha dato l’assassino?» mi domanda Evelyn con voce smorzata.

«Sì» rispondo, soppesandola sul palmo. «Dopo di che se l’è tenuta Daniel Coleridge».

«E poi, a quanto pare, qualcun altro gliel’ha portata via».

Quale che fosse il pericolo contro cui voleva mettermi in guardia Anna, sembra che abbia colpito lei per prima, e in qualche modo Daniel Coleridge è implicato nella faccenda.

Evelyn mi posa una mano sulla spalla mentre scruta circospetta le tenebre al di là del bagliore della lanterna.

«Credo che faresti meglio ad andartene da Blackheath» mi dice. «Vai in camera tua; manderò una carrozza a prenderti».

«Devo trovare Daniel» protesto debolmente. «E Anna».

«Stanno accadendo cose terribili, qui» sibila lei. «Le tue ferite al braccio, la droga, Anna e ora questa bussola. Sono i pezzi di un rompicapo che nessuno di noi sa come ricomporre. Devi andar via, Sebastian, fallo per me. Lascia che sia la polizia a sbrogliare questo pasticcio».

Annuisco. Mi manca la volontà di combattere. Era Anna l’unico motivo per cui avevo deciso di restare, convinto dai rimasugli del mio coraggio che fosse onorevole assecondare una richiesta presentata in modo tanto criptico. Liberato da tale obbligo, i vincoli che mi legavano a questo posto sono ormai troncati.

Torniamo a Blackheath in silenzio. È Evelyn a farmi strada, puntando il revolver nell’oscurità. Io la tallono senza far rumore, poco più di un cane alle sue calcagna, e prima ancora di rendermene conto sto salutando la mia amica e aprendo la porta di camera mia.

Non la trovo come l’ho lasciata.

C’è una scatola appoggiata sul letto, avvolta da un nastro rosso il cui nodo si scioglie tirando una sola volta uno dei capi. Faccio scivolare via il coperchio: mi si rivolta lo stomaco e la bile m’inonda la gola. All’interno c’è un coniglio morto, con un coltello da scalco piantato nella carne. Il sangue si è coagulato sul fondo, macchiando la pelliccia dell’animale e rendendo quasi del tutto illeggibile il messaggio appuntato a un orecchio della bestiola.

Da parte del tuo amico,

il lacchè.

Una tenebra nera sale in me e mi colma gli occhi.

Un attimo dopo perdo i sensi.