L’acqua del bagno si è raffreddata da un pezzo, lasciandomi qui a rabbrividire, con la pelle cianotica. Per quanto sia un pensiero dettato dalla vanità, non sopporto l’idea che il domestico di Ravencourt mi tiri fuori da questa vasca come un sacco di patate fradice.
Dei colpetti educati alla porta mi liberano dell’onere della decisione.
«Lord Ravencourt, tutto bene?» mi domanda il mio cameriere entrando nella stanza.
«Benissimo» dichiaro, con le mani intorpidite.
Lui sporge la testa dal paravento e osserva la scena con uno sguardo esperto. Dopo aver esaminato la situazione per un attimo, si avvicina senza invito e si rimbocca le maniche per tirarmi fuori dalla vasca con una forza che contrasta con la sua struttura esile.
Questa volta non protesto. Mi è rimasto troppo poco orgoglio da salvare.
Mentre mi aiuta a uscire dall’acqua, vedo l’estremità di un tatuaggio che gli spunta dalla manica della camicia. È sbavato di verde, i particolari ormai illeggibili. Notando la mia occhiata, si affretta ad abbassarsi la manica.
«Follie di gioventù, milord» commenta.
Per dieci minuti resto in piedi in silenzio, umiliato, lasciando che lui mi asciughi con la salvietta e mi infili il vestito con gesti materni: una gamba e poi l’altra, un braccio e poi l’altro. È un abito di seta, splendidamente tagliato, ma mi pizzica e mi stringe come un gruppo di vecchie zie. È di una taglia in meno, più adatto ad assecondare la vanità di Ravencourt che la stazza del suo corpo. Conclusa l’operazione, il cameriere mi pettina i capelli e mi massaggia la faccia carnosa con l’olio di cocco prima di porgermi uno specchio perché possa verificare meglio i risultati dei suoi sforzi. L’immagine riflessa mi mostra un uomo vicino ai sessant’anni, con i capelli di un nero sospetto e occhi castani del colore del tè annacquato. Li scruto in cerca di qualche traccia di me stesso, della persona nascosta che manovra i fili di Ravencourt, ma la mia presenza è invisibile. Per la prima volta mi chiedo chi fossi prima di arrivare qui, e quale sia stata la catena di avvenimenti che mi ha condotto in questa trappola.
Domande affascinanti, ma per ora senza risposta.
Come con Bell, mi si accappona la pelle quando vedo Ravencourt nello specchio. Una parte di me ricorda le mie vere fattezze ed è turbata dallo sconosciuto che mi restituisce lo sguardo.
Riconsegno lo specchio al cameriere.
«Dobbiamo andare in biblioteca» dico.
«So dove si trova, milord» replica lui. «Vuole che le porti un libro?»
«Vengo con te».
Il cameriere rimane un attimo in silenzio, accigliandosi. Poi parla in tono esitante, esplorando in punta di piedi il terreno in cui le sue parole si stanno avventurando.
«È un tragitto di una certa lunghezza, milord. Temo che lei possa trovarlo… stancante».
«Me la caverò, e poi ho bisogno di fare un po’ di esercizio».
Superando le obiezioni che gli si affollano sulla lingua, prende il mio bastone e una valigetta portadocumenti e mi conduce in un corridoio buio dove le lampade a petrolio riversano la loro luce calda sulle pareti.
Camminiamo adagio: il cameriere mi riferisce una serie di notizie, ma i miei pensieri si concentrano sulla pesantezza di questo corpo che sto trascinando avanti. È come se qualche spirito maligno avesse ricostruito la casa nottetempo, allargandone le stanze e ispessendone l’aria. Dopo aver arrancato nell’improvvisa luminosità dell’atrio d’ingresso, mi stupisco di quanto mi sembri ripida la scala. Stamattina i gradini che ho sceso di volata nei panni di Donald Davies richiederebbero di essere affrontati con un’attrezzatura da alpinisti. Non c’è da meravigliarsi che Lord e Lady Hardcastle abbiano assegnato a Ravencourt una stanza al pianterreno. Per issarmi in quella di Bell ci vorrebbero un argano e due robusti operai pagati per un’intera giornata di lavoro.
Se non altro, il fatto di aver bisogno di frequenti pause di riposo mi permette di osservare gli altri ospiti che si aggirano per la casa, e appare subito chiaro che questa non è una riunione allegra. Battibecchi sussurrati trapelano da tutti gli angoli, lungo la scala si odono voci adirate, ridotte al silenzio solo dalle porte chiuse di scatto. Mariti e mogli si punzecchiano a vicenda stringendo i bicchieri con troppa forza, i volti arrossati da una collera trattenuta a stento. La tensione rende acuminato ogni dialogo, e aleggia nell’aria un’atmosfera pungente e pericolosa. Forse è un effetto del nervosismo, o dell’inutile saggezza della preveggenza, ma Blackheath sembra essere un terreno fertile per la tragedia.
All’arrivo in biblioteca ho le gambe che mi tremano e la schiena indolenzita dallo sforzo di tenermi in piedi. Per mia sfortuna, la stanza non offre un compenso adeguato a tanta sofferenza. Scaffali polverosi e sovraccarichi rivestono le pareti, il pavimento è soffocato da un ammuffito tappeto rosso. I resti di un vecchio fuoco ormai estinto languiscono nel camino, di fronte al quale ci sono un tavolino da lettura e una scomoda sedia di legno.
Il mio compagno riassume il proprio giudizio in un unico mormorio contrariato.
«Un momento, milord, le porto una poltrona più confortevole dal salotto» dice poi.
Ne ho bisogno. Ho una vescica sul palmo sinistro nel punto in cui la pelle sfregava contro l’impugnatura del bastone e le gambe minacciano di cedere sotto il mio peso. Il sudore mi ha inzuppato la camicia, e adesso mi prude tutto il corpo. Mi è bastato attraversare la casa per ridurmi a un relitto, e se stanotte voglio arrivare al lago prima dei miei rivali, mi serve una nuova incarnazione, preferibilmente in grado di affrontare una scala.
Il cameriere di Ravencourt torna con una poltrona con il poggiatesta e me la piazza davanti. Sorreggendomi il braccio, mi cala sui cuscini verdi.
«Posso domandarle qual è il nostro scopo qui, milord?»
«Se saremo molto fortunati, troveremo degli amici» rispondo, asciugandomi la faccia con un fazzoletto. «Hai un pezzo di carta a portata di mano?»
«Certamente».
Tira fuori dalla valigetta un foglio rigato e una penna stilografica e si prepara a scrivere sotto dettatura. Apro la bocca per esentarlo dal compito, ma un’occhiata alla mia mano sudata e indolenzita dalla vescica mi dissuade. In questa situazione l’orgoglio non è certo un buon alleato della leggibilità.
Dopo aver riflettuto un attimo per scegliere le parole, comincio a dettarle a voce alta.
«È logico presumere che molti di voi si trovino qui da più tempo di me e possiedano informazioni su questa casa, sul nostro scopo in questo luogo e sul nostro carceriere, il Medico della peste, informazioni di cui io non dispongo».
M’interrompo, ascoltando lo scricchiolio della penna.
«Non mi avete cercato, e devo supporre che non l’abbiate fatto per una buona ragione, ma adesso vi chiedo di incontrarmi in biblioteca all’ora di pranzo e di aiutarmi a catturare il nostro carceriere. Se la cosa non vi è possibile, vi prego di condividere quanto avete appreso scrivendolo su questo foglio. Tutto ciò che sapete, a prescindere dalla sua apparente banalità, potrebbe rivelarsi utile per accelerare la nostra fuga. Si dice che due teste siano meglio di una, ma in questo caso ritengo che una sola testa, con la combinazione dei nostri pensieri, sia sufficiente».
Aspetto che il cameriere abbia finito di scrivere, poi alzo gli occhi per guardarlo in faccia. Ha un’aria perplessa, ma anche vagamente divertita. È un tipo curioso, costui, molto diverso dal bacchettone che sembrava all’inizio.
«Devo spedire questo messaggio, milord?» mi domanda.
«Non ce n’è bisogno» gli dico, indicando lo scaffale. «Infilalo tra le pagine del primo volume dell’Enciclopedia Britannica, i destinatari sapranno dove trovarlo».
Lui mi guarda e poi guarda il testo prima di eseguire le mie istruzioni: il foglio scivola nel libro con facilità. Si direbbe un luogo adatto ad accoglierlo.
«E quando dovremmo aspettarci una risposta, milord?»
«Questione di minuti o di ore, non ne sono certo. Sarà necessario continuare a controllare».
«E fino ad allora?» mi chiede lui, togliendosi la polvere dalle mani con un fazzoletto da taschino.
«Parla con la servitù, ho bisogno di sapere se qualcuno degli ospiti ha nel suo guardaroba un costume da medico delle pestilenze medievali».
«Milord?»
«Maschera di porcellana, mantello nero, roba del genere» spiego. «Nel frattempo io farò un sonnellino».
«Qui, milord?»
«Esatto».
Mi scruta con la fronte aggrottata, cercando di mettere insieme i brandelli di informazioni in suo possesso.
«Vuole che le accenda il fuoco?»
«No, starò perfettamente comodo così».
«Molto bene» dice senza muoversi.
Non sono sicuro di cosa stia aspettando, ma non succede niente, e con un’ultima occhiata il mio cameriere si decide a lasciare la stanza, portandosi dietro la sua confusione.
Appoggiandomi le mani sul ventre, chiudo gli occhi. Ogni volta che mi sono addormentato, mi sono svegliato in un corpo diverso, e per quanto sia rischioso sacrificare un’incarnazione in questo modo, non vedo cos’altro potrei ottenere nei panni di Ravencourt. Con un po’ di fortuna, al mio risveglio gli altri me stesso si saranno messi in contatto attraverso l’enciclopedia e io sarò tra loro.