Obbedendo ai miei ordini, Cunningham mi sta aspettando in biblioteca. È seduto sul bordo di una sedia, con la lettera che gli ho consegnato aperta e stretta nella mano scossa da un lieve tremito. Quando entro si alza in piedi; io però, spinto dal desiderio di lasciarmi il solario alle spalle, ho camminato troppo in fretta. Sento il rumore dei miei respiri, scoppi sibilanti e disperati dei miei polmoni sovraccarichi.
Cunningham non si azzarda ad aiutarmi.
«Come faceva a sapere cosa sarebbe successo in salotto?» mi domanda.
Cerco di rispondergli, ma non ho abbastanza spazio in gola per l’aria e le parole. Scelgo la prima, ingurgitandola con la stessa avidità che Ravencourt riserva a ogni esperienza della vita, e nel frattempo scruto lo studio. Speravo di intercettare il Medico della peste durante il colloquio con Bell, ma il futile tentativo di avvertire Evelyn si è trascinato più a lungo di quanto mi aspettassi.
Forse non dovrei stupirmene.
Come ho avuto modo di verificare lungo la strada verso il villaggio, il Medico della peste sembra sapere dove sono e quando, e senza dubbio programma le sue apparizioni in modo da impedirmi di coglierlo di sorpresa.
«È accaduto esattamente ciò che lei aveva previsto» continua Cunningham, fissando il foglio con aria incredula. «Ted Stanwin ha maltrattato la cameriera e Daniel Coleridge è intervenuto. Hanno persino pronunciato le stesse frasi che lei ha scritto qui. Parola per parola».
Potrei spiegargli la situazione, ma lui non è ancora arrivato al punto che lo turba di più. Arranco invece verso la poltrona e mi calo sul cuscino con grande sforzo. Un fremito di penosa gratitudine mi percorre le gambe.
«C’è un trucco?» mi chiede Cunningham.
«Nessun trucco».
«E l’ultima riga? Quella in cui sostiene…»
«Sì?»
«… di non essere Lord Ravencourt».
«Infatti non sono Ravencourt» confermo.
«No?»
«No. Prenditi da bere, ti vedo un po’ pallido».
Segue il mio consiglio: a quanto pare, l’obbedienza è l’unico aspetto di lui a non aver ancora ceduto le armi. Torna con un bicchiere pieno di qualche liquore e si siede a sorseggiarlo, senza mai distogliere gli occhi dai miei, le gambe unite, le spalle curve.
Gli racconto tutto, dall’assassinio nella foresta e dal mio primo giorno nel corpo di Bell fino alla strada infinita e al mio recente colloquio con Daniel. Il dubbio gli balena in viso, ma ogni volta che sembra prendere piede, Cunningham sbircia la lettera. Mi fa quasi compassione.
«Hai bisogno di un altro drink?» gli chiedo, indicando con un cenno il bicchiere semivuoto.
«Se lei non è Lord Ravencourt, lui dov’è?»
«Non lo so».
«È vivo?»
Riesce a malapena a incrociare il mio sguardo.
«Preferiresti che non lo fosse?»
«Lord Ravencourt è stato buono con me» dice, con un lampo di rabbia a illuminargli la faccia.
Questa non è una risposta alla domanda.
Torno a osservare Cunningham. Occhi bassi e mani sporche, un tatuaggio sbiadito a testimonianza di un passato difficile. Con un guizzo di intuizione, mi rendo conto che ha paura, ma non di ciò che gli ho riferito. Ha paura di quello che potrebbe sapere chi ha già vissuto questa giornata. Ha qualcosa da nascondere, ne sono certo.
«Mi occorre il tuo aiuto, Cunningham» dico. «Ho molto da fare, e finché sono impastoiato nel corpo di Ravencourt mi manca il fisico adatto».
Svuotato il bicchiere, Cunningham si alza in piedi. L’alcol gli ha dipinto due chiazze di colore sulle guance, e quando parla, dalla sua voce gronda il coraggio della bottiglia.
«Intendo lasciare il mio posto in questo momento e riprendere servizio domattina, non appena Lord Ravencourt sarà…» S’interrompe, riflettendo sulla scelta della parola. «… tornato».
Mi rivolge un rigido inchino prima di avviarsi verso la porta.
«Credi che ti terrà con sé dopo aver scoperto il tuo segreto?» sbotto di colpo, mentre un’idea mi piove in testa come una pietra in uno stagno. Se ci ho azzeccato e Cunningham ha davvero qualcosa da nascondere, potrebbe essere alquanto vergognoso sfruttare la situazione per ricattarlo.
Cunningham si ferma di colpo accanto alla mia poltrona, i pugni chiusi con forza.
«Cosa intende dire?» esclama, gli occhi fissi di fronte a sé.
«Controlla sotto il cuscino della tua sedia» lo esorto, sforzandomi di eliminare la tensione dal mio tono. Il mio tentativo segue una solida logica, ma questo non significa che funzionerà.
Lui guarda la sedia, poi torna a guardare me. Senza una parola, fa quello che gli ho detto e trova una piccola busta bianca. Un sorriso di trionfo m’incurva le labbra mentre la strappa per aprirla, con le spalle ingobbite.
«Come faceva a saperlo?» mi domanda, la voce incrinata.
«Non so niente, ma quando mi sveglierò nella mia prossima incarnazione, mi dedicherò al compito di scoprire il tuo segreto. Poi tornerò in questa stanza e metterò l’informazione in quella busta perché tu possa trovarcela. Se il nostro dialogo non andrà come desidero, metterò la busta dove potranno trovarla anche gli altri ospiti».
Cunningham reagisce con uno sbuffo: il suo disprezzo è uno schiaffo in piena faccia.
«Forse lei non è Ravencourt, ma si comporta esattamente come lui».
È un’idea così sbalorditiva che per un attimo mi riduce al silenzio. Finora supponevo che la mia personalità – quale che sia – si trasferisse nelle mie incarnazioni, colmandole come le monetine riempiono una tasca: ma se invece mi fossi sbagliato?
Nessuno degli uomini di cui ho assunto l’aspetto in precedenza avrebbe pensato di ricattare Cunningham, né, tanto meno, avrebbe avuto il coraggio di passare dalle minacce all’azione. In effetti, riconsiderando Sebastian Bell, Roger Collins, Donald Davies e ora Ravencourt, trovo ben poco nella loro condotta che suggerisca la presenza di una stessa mente all’opera. Possibile che sia io a piegarmi alla loro volontà, anziché il contrario? Se le cose stanno così, devo essere cauto. Un conto è ritrovarsi prigionieri nel corpo di queste persone, ma abbandonarsi completamente ai loro desideri è tutt’altra faccenda.
Le mie riflessioni vengono interrotte da Cunningham, impegnato ad appiccare il fuoco a un angolo della lettera con l’accendino che ha tirato fuori dalla tasca.
«Cosa vuole da me?» dice in tono duro e inespressivo, lasciando cadere il foglio in fiamme nel camino.
«Quattro cose, tanto per cominciare» rispondo contandole sulle dita tozze. «Prima di tutto ho bisogno che tu trovi un vecchio pozzo nei pressi della strada che conduce al villaggio. In una fessura tra una pietra e l’altra c’è un biglietto. Leggine il testo, rimettilo al suo posto e torna da me con il messaggio. Fai presto, il biglietto scomparirà in meno di un’ora. Poi devi cercare il costume da medico della peste di cui ti ho già parlato. In terzo luogo voglio che tu sparga il nome di Anna in giro per Blackheath come una manciata di coriandoli. Bisogna diffondere la voce che Lord Ravencourt la sta cercando. Infine, vai a presentarti a Sebastian Bell».
«Il dottor Bell?»
«Proprio lui».
«Per quale motivo?»
«Perché ricordo di essere stato Sebastian Bell, ma non di averti conosciuto» spiego. «Se posso cambiare questo, dimostrerò a me stesso che è possibile cambiare altri avvenimenti di oggi».
«La morte di Evelyn Hardcastle?»
«Esatto».
Espirando a lungo, Cunningham si gira per mettersi di fronte a me. Sembra svigorito, come se il nostro colloquio fosse un deserto che ha impiegato una settimana ad attraversare.
«Se seguo le sue indicazioni, posso aspettarmi che il contenuto della lettera rimanga tra noi?» mi domanda, con un’espressione che manifesta speranza più che fiducia.
«Stanne certo, hai la mia parola».
Protendo una mano sudata.
«Allora a quanto pare non ho scelta» conclude lui stringendomela energicamente e mostrando in volto solo un lievissimo fremito di disgusto.
Si allontana in fretta, timoroso di vedersi accollare nuovi compiti se dovesse indugiare. In sua assenza, l’aria umida sembra depositarsi su di me, penetrarmi attraverso i vestiti e nelle ossa. Considero la biblioteca un luogo troppo squallido per fermarmi ancora, perciò mi sollevo a fatica dalla poltrona, usando il bastone per rimettermi in piedi.
Oltrepasso lo studio e mi dirigo nel salottino di Ravencourt, dove intendo sistemarmi in anticipo per l’incontro con Helena Hardcastle. Se complotta di uccidere Evelyn questa sera, per Dio, sono ben deciso a farglielo confessare.
La casa è immersa nella tranquillità: gli uomini sono fuori a caccia e le donne bevono liquori nel solario. Persino i domestici sono scomparsi, sparpagliandosi nel seminterrato alle prese con i preparativi per il ballo. Sulla loro scia è calata una profonda quiete, e solo la pioggia mi tiene compagnia, battendo sui vetri con la pretesa di essere lasciata entrare. Bell sentiva la mancanza dei rumori, ma Ravencourt, sensibile alla malignità altrui, trova questo silenzio tonificante. È come arieggiare una stanza che sapeva di chiuso.
Passi pesanti turbano le mie fantasticherie: lenti e precisi, sembrano determinati ad attirare la mia attenzione. Sono arrivato in sala da pranzo, dove un lungo tavolo di quercia è sovrastato dalle teste impagliate di animali trucidati molto tempo fa, il pelo ormai offuscato e velato dalla polvere. La stanza è vuota, eppure il calpestio echeggia da ogni parte, scimmiottando la mia andatura zoppicante.
M’irrigidisco e mi fermo, la fronte imperlata di sudore.
Cessa anche il rumore dei passi.
Asciugandomi il volto, mi guardo nervosamente intorno, rimpiangendo di non avere a portata di mano il tagliacarte di Bell. Sepolto nel corpo indolente di Ravencourt, ho l’impressione di trascinarmi dietro un’ancora. Non sono in grado di fuggire né di lottare, e anche se potessi reagire, colpirei unicamente l’aria. Sono solo, qua dentro.
Dopo una breve esitazione, riprendo a camminare, con i fantomatici passi che mi tallonano. Mi blocco di colpo, e il rumore si arresta insieme a me, mentre dalle pareti risuona un ghigno sinistro. Con il batticuore e i peli ritti sulle braccia, pungolato dalla paura, barcollo verso la salvezza dell’atrio, visibile al di là della porta della sala da pranzo. Ormai i passi non si prendono più il disturbo di imitarmi, mi danzano intorno, e la risata maligna sembra provenire da ogni direzione.
Ho il respiro affannoso quando raggiungo la porta, il sudore mi acceca e avanzo con tale rapidità da correre il rischio di inciampare nel mio stesso bastone. Al mio ingresso nell’atrio, il ghigno s’interrompe improvvisamente ed è un bisbiglio a incalzarmi.
«Ci vedremo presto, coniglietto».