28.

Quinto giorno (seguito)

La vita mi pulsa sulle palpebre.

Batto le ciglia, una, due volte, ma è doloroso tenere gli occhi aperti. Mi sembra di avere un uovo rotto al posto della testa. Mi sfugge un gemito dalla gola. È un suono a metà strada tra un lamento e un singulto, il basso gorgoglio animale di una creatura presa in trappola. Cerco di alzarmi, ma il dolore è un oceano che mi lambisce il cranio. Non ho la forza di sollevarlo.

Passa il tempo; non saprei dire quanto. Non è un tempo misurabile. Guardo il mio ventre che sale e scende, e quando mi sento fiducioso che il mio corpo riesca a farcela senza aiuti da parte mia, arranco fino a mettermi in posizione seduta e mi appoggio al muro fatiscente. Con mio grande disappunto, sono tornato nei panni di Jonathan Derby, sul pavimento della camera dei bambini. I cocci di un vaso rotto sono sparsi dovunque, a cominciare dal mio cuoio capelluto. Qualcuno deve avermi aggredito alle spalle mentre uscivo dalla stanza di Stanwin, per poi trascinarmi qui, dove nessuno poteva vedermi.

La lettera, razza di idiota.

La mia mano scatta verso la tasca, in cerca della lettera di Felicity e del registro rubato a Stanwin, ma sono spariti insieme alla chiave del baule di Bell. Mi restano solo le due pillole per il mal di testa che mi ha dato Anna, ancora avvolte nel fazzoletto azzurro.

Quella donna la tradirà.

Che l’aggressione sia stata opera sua? L’avvertimento del Medico della peste non poteva essere più chiaro, eppure una nemica non susciterebbe di sicuro certe sensazioni di calore o di affinità. Forse è vero che Anna ricorda più di quanto ammetta sul nostro ultimo ciclo, ma se quelle informazioni fossero tali da innescare la nostra ostilità reciproca, perché porterei il suo nome con me da una vita all’altra sapendo che sono destinato a inseguirlo come un cane che corre dietro a un tizzone acceso? No, se c’è un tradimento in corso, è la conseguenza delle mie vuote promesse, e questo si può rettificare. Devo trovare il modo di dire la verità ad Anna.

Mando giù le pastiglie senz’acqua, artiglio la parete per mettermi in piedi e barcollo in camera di Stanwin.

La sua guardia del corpo giace ancora priva di sensi sul letto; al di là della finestra la luce si sta attenuando. Controllo l’orologio e scopro che sono le sei, il che significa che probabilmente i cacciatori, Stanwin compreso, saranno ormai sulla via del ritorno. Per quello che ne so io, potrebbero essere già sul prato davanti alla casa o su per le scale.

Devo andarmene di qui prima che rientri il ricattatore.

Nonostante le pastiglie ho le vertigini, e il mondo mi scivola sotto i piedi mentre corro a precipizio lungo l’ala est prima di scostare la tenda per raggiungere il pianerottolo sopra l’atrio. Ogni passo è una lotta, finché non crollo oltre la porta del dottor Dickie, evitando a stento di vomitare per terra. La sua stanza è identica a tutte le altre affacciate su questo corridoio: contiene un letto a baldacchino addossato alla parete, oltre alla vasca e al lavabo dietro il paravento sistemato sul lato opposto. A differenza di Bell, Dickie ha ricreato un’atmosfera domestica in camera sua. Sparse qua e là si vedono le fotografie dei suoi nipoti, e c’è un crocifisso appeso a una parete. Ha persino sistemato un tappetino sul pavimento, con ogni probabilità per evitare di mettere i piedi sulle fredde assi dell’impiantito al mattino.

Questo senso di intimità è miracoloso per me, e mi ritrovo a guardare a bocca aperta gli oggetti personali di Dickie, dimenticando per un attimo le mie ferite. Prendo in mano il ritratto dei suoi nipotini e mi chiedo per la prima volta se anch’io ho una famiglia che mi aspetta lontano da Blackheath: genitori, figli, amici che sentono la mia mancanza.

Allarmato dai passi che risuonano dal corridoio, lascio cadere la fotografia sul comodino, incrinando accidentalmente il vetro. Il calpestio supera la porta senza crearmi problemi, ma io, reso consapevole del pericolo, mi affretto a entrare in azione.

La borsa da medico di Dickie è infilata sotto il letto: la rovescio, spargendo boccette, forbici, siringhe e bende sulle coperte. L’ultimo oggetto a cadere è una Bibbia di re Giacomo, che rimbalza sul pavimento dove si ferma aperta. Esattamente come in quella che ho visto nella stanza di Sebastian Bell, le sue pagine mostrano parole e paragrafi sottolineati con l’inchiostro rosso.

È un codice.

Sul volto di Derby si allarga un sorriso lupesco, innescato dal riconoscimento di un altro truffatore. Se dovessi azzardare un’ipotesi, direi che Dickie è un complice occulto nell’attività di spaccio di Bell. Non c’è da meravigliarsi della sua sollecitudine per il benessere del collega. Lo preoccupava ciò che avrebbe potuto rivelare.

Sbuffo. L’ennesimo segreto in una casa che ne è piena, e non è quello che sto cercando di scoprire oggi.

Raccatto bende e tintura di iodio dal mucchio sul letto, le porto accanto al lavabo e comincio a medicarmi.

Non vado tanto per il sottile.

Ogni volta che estraggo una scheggia, il sangue mi zampilla tra le dita, mi cola sulla faccia e sgocciola giù dal mento finendo nel lavabo. Lacrime di dolore mi appannano la vista, e per quasi trenta minuti il mondo si trasforma in una nebbia bruciante mentre io smantello la mia corona di porcellana. L’unica consolazione è il pensiero che questo debba far soffrire Derby tanto quanto me.

Quando sono certo di aver rimosso tutti i frammenti, passo alla fasciatura, quindi fisso la garza con una spilla di sicurezza e controllo il risultato dei miei sforzi nello specchio.

Il bendaggio ha un bell’aspetto, io invece mi vedo orribile. Sono pallido, con gli occhi infossati. Il sangue mi ha macchiato la camicia, il che mi costringe a togliermela per restare in canottiera. Sono un uomo distrutto, sul punto di cadere a pezzi. Ho la sensazione di crollare.

«Cosa diavolo…?» grida il dottor Dickie dalla soglia.

Appena rientrato dalla caccia, è grondante di pioggia e in preda ai brividi, grigio come la cenere nel focolare. Persino i baffi si sono afflosciati.

Seguo il suo sguardo incredulo che abbraccia la stanza e vedo la devastazione attraverso i suoi occhi. La fotografia dei nipoti ha il vetro incrinato e macchiato di sangue, la Bibbia è finita a terra, la borsa da medico giace aperta sul pavimento, il contenuto è sparpagliato sul letto. Il lavabo è pieno d’acqua insanguinata, nella vasca c’è la mia camicia. La sua sala operatoria non deve trovarsi in uno stato molto peggiore dopo un’amputazione.

Si accorge che sono in canottiera, con una striscia di garza che mi penzola dalla fronte, e lo shock sul suo volto si trasforma in collera.

«Cos’hai combinato, Jonathan?» mi domanda in tono perentorio, la voce gonfia di rabbia.

«Mi dispiace, non sapevo dove altro andare» rispondo, preso dal panico. «Dopo che lei si è allontanato, sono entrato a frugare in camera di Stanwin alla ricerca di qualcosa che potesse aiutare la mamma e ho trovato un registro».

«Un registro?» ripete lui in tono strozzato. «Gliel’hai rubato? Devi rimetterlo a posto. Subito, Jonathan!» urla nel percepire la mia esitazione.

«Non posso, mi hanno aggredito. Qualcuno mi ha spaccato un vaso sulla testa e si è preso il registro. Perdevo sangue, e la guardia del corpo di Stanwin stava per svegliarsi, perciò sono venuto qui».

Un silenzio spaventoso inghiotte la conclusione del mio racconto mentre il dottor Dickie raddrizza la fotografia dei nipoti, rimette lentamente ogni cosa nella borsa da medico e la infila di nuovo sotto il letto.

Si muove come se avesse i ceppi, trascinandosi dietro il peso del mio segreto.

«È colpa mia» mormora. «Lo sapevo che non dovevo fidarmi di te, ma l’affetto che provo per tua madre…»

Scuote la testa, spingendomi di lato per recuperare la mia camicia dalla vasca. Nei suoi gesti c’è una rassegnazione che mi spaventa.

«Io non intendevo…» comincio.

«Mi hai usato per derubare Ted Stanwin» dice il medico con voce sommessa, stringendo le mani intorno al bordo di un mobile. «Un uomo cui basterebbe schioccare le dita per distruggermi».

«Mi dispiace» dico per la seconda volta.

Lui si gira di colpo con uno scatto d’ira.

«Le tue parole di scusa non valgono più nulla, Jonathan! Ti sei scusato quando abbiamo messo a tacere quella faccenda a Enderleigh House, e poi ancora a Little Hampton. Te lo ricordi? E adesso vorresti farmi mandar giù anche questa vuota dichiarazione di pentimento».

Rosso in faccia, mi preme sul petto la camicia che ha raccolto. Ha gli occhi bagnati di lacrime. «Quante donne hai preso con la forza? Ne hai una vaga idea? Quante volte hai pianto sul petto di tua madre, implorandola di sistemare le cose, promettendo di non farlo più e sapendo benissimo che ci saresti ricascato? E adesso eccoti di nuovo qui a recitare la stessa scena con me, quel dannato idiota del dottor Dickie. Be’, io ho chiuso, non sono più disposto a tollerarlo. Sei stato una maledizione per questo mondo fin dal giorno in cui ti ci ho fatto nascere».

Muovo un passo verso di lui per implorarlo, ma Acker tira fuori dalla tasca una pistola d’argento e la tiene nella mano abbandonata lungo il fianco. Non mi guarda nemmeno.

«Vattene fuori di qui, Jonathan, o giuro su Dio che ti sparo».

Senza perdere d’occhio la pistola, indietreggio per uscire dalla stanza e chiudo la porta non appena metto piede in corridoio.

Ho il cuore che mi batte all’impazzata.

La pistola è la stessa di cui si servirà Evelyn stasera per togliersi la vita. Il dottor Dickie stringe in pugno l’arma del delitto.