29.

Per quanto tempo resto a fissare l’immagine di Jonathan Derby riflessa nello specchio della mia stanza? Impossibile dirlo. Cerco l’uomo nascosto dietro quelle fattezze, mi sforzo di cogliere un indizio della mia vera faccia.

Voglio che Derby veda il suo carnefice.

Il whisky mi scalda la gola: la bottiglia che ho trafugato dal salotto è già mezzo vuota. Ho bisogno dell’alcol per fermare il tremito alle mani mentre tento di annodarmi il cravattino. La testimonianza del dottor Dickie ha confermato quello che già sapevo. Derby è un mostro i cui crimini vengono spazzati via dal denaro di sua madre. Non c’è giustizia ad attendere quest’uomo, niente processi né punizioni. Per obbligarlo a espiare le sue colpe sarò costretto a condurlo al patibolo io stesso, ed è proprio ciò che intendo fare.

Prima però salveremo la vita a Evelyn Hardcastle.

Mi cade lo sguardo sulla pistola d’argento del dottor Dickie, che giace inoffensiva su una poltrona come una mosca abbattuta in volo. Rubarla è stato semplice, facile come mandare un domestico ad attirare il medico fuori dalla sua stanza con la scusa di un’emergenza inesistente mentre io m’intrufolavo all’interno e la prendevo dal comodino. Ho permesso a questa giornata di impormi le sue condizioni anche troppo a lungo, ma adesso basta. Se qualcuno progetta di uccidere Evelyn con quest’arma, dovrà prima affrontare me. Al diavolo gli enigmi del Medico della peste! Non mi fido di lui, e non resterò qui senza muovere un dito a guardare gli orrori che accadono sotto i miei occhi. È ora che Jonathan Derby faccia qualcosa di buono su questa terra, finalmente.

Mi infilo la pistola nella tasca della giacca, bevo un ultimo sorso di whisky ed esco nel corridoio, dove seguo gli altri ospiti diretti verso le scale per scendere a cena. Non avranno modi irreprensibili, ma il loro gusto è impeccabile. Gli abiti da sera espongono schiene nude e pallide carnagioni adorne di gioielli scintillanti. L’apatia della giornata è svanita, e i convitati esibiscono un fascino appariscente. L’appello della sera li ha infine rianimati.

Come sempre, tengo gli occhi bene aperti per cogliere qualche segno della presenza del lacchè in mezzo a tutte queste facce. Avrebbe dovuto farsi vivo già da un bel pezzo, e con l’avanzare della giornata, cresce in me la certezza che mi stia per succedere qualcosa di spaventoso. Per lo meno sarà uno scontro ad armi pari. Derby ha pochissime qualità, ma la rabbia lo trasforma in un vero demonio. Sono riuscito a stento a controllarlo, e fatico a immaginare come ci si possa sentire nel vederselo balzare addosso grondante d’odio.

Michael Hardcastle è in piedi nell’ingresso con un sorriso di circostanza stampato in volto, impegnato a salutare i commensali in arrivo con l’aria di essere davvero felice di vedere tutti questi squallidi individui. Progettavo di interrogarlo sul conto della misteriosa Felicity Maddox e sul biglietto lasciato al pozzo, ma dovrò rimandare le mie domande a più tardi. Tra noi c’è un muro impenetrabile di taffetà e cravatte a farfalla.

Note di pianoforte mi inducono a farmi strada tra la folla verso la lunga galleria, dove gli ospiti socializzano, bicchieri alla mano, mentre i domestici preparano la sala da pranzo al di là delle due porte che ci separano da quella stanza. Prendo un whisky da uno dei vassoi di passaggio e mi guardo intorno in cerca di Millicent. Contavo di offrire a Derby l’opportunità di dirle addio, ma non la vedo da nessuna parte. In effetti l’unica persona che riconosco è Sebastian Bell: sta attraversando l’atrio per raggiungere la sua camera.

Fermo una cameriera e le chiedo notizie di Helena Hardcastle, sperando che la padrona di casa sia nelle vicinanze: invece non è ancora arrivata. Questo significa che è rimasta irreperibile per l’intera giornata. La sua assenza è diventata ufficialmente una scomparsa. Il fatto che Lady Hardcastle sia introvabile proprio il giorno della morte di sua figlia non può essere una coincidenza, anche se non so bene se la cosa faccia di lei un’indiziata o una vittima. Qualunque sia l’ipotesi giusta, scoprirò la verità.

Ho il bicchiere vuoto e la mente annebbiata. Sono circondato da risate e conversazioni, da amici e amanti. L’allegria suscita il rancore di Derby. Percepisco il suo disgusto, la sua ripugnanza. Odia questa gente, questo mondo. Odia se stesso.

I domestici mi passano accanto armati di vassoi d’argento: l’ultimo pasto di Evelyn arriva in processione.

Perché non ha paura?

La sento ridere. Intrattiene gli ospiti con la spensieratezza di chi ha tutta la vita davanti, eppure quando stamattina Ravencourt ha accennato al pericolo, era chiaro che sapeva qualcosa.

Posato il bicchiere, attraverso l’atrio e imbocco il corridoio in direzione della stanza di Evelyn. Se esistono delle risposte, forse è là che le troverò.

Le luci sono state abbassate, ridotte a fioche fiammelle. C’è un’atmosfera smorzata e opprimente, quella di un angolo di mondo dimenticato. Sono arrivato a metà strada quando scorgo una chiazza rossa che emerge dalle tenebre.

La livrea di un lacchè.

Mi blocca il passaggio.

M’immobilizzo. Lanciando uno sguardo alle mie spalle, cerco di capire se ho il tempo di raggiungere l’atrio prima che mi arrivi addosso. Le probabilità a mio favore sono scarse. Non sono neppure certo che le gambe mi obbediranno quando ordinerò loro di muoversi.

«Mi perdoni, signore» dice una vocetta stridula mentre il lacchè avanza di un passo, rivelandosi un ragazzino piccolo e magro, di non più di tredici anni, con i foruncoli e un sorriso nervoso sulla faccia. «Permette?» aggiunge dopo un attimo, e io mi rendo conto che gli sto intralciando il passo. Borbottando qualche parola di scusa, mi faccio da parte e tiro un impetuoso sospiro di sollievo.

Il lacchè mi spaventa al punto che il solo sospetto della sua presenza riesce a paralizzare persino Derby, un uomo capace di prendere a pugni il sole perché l’ha scottato. È forse questo il suo scopo? Il motivo per cui si è limitato a tormentare Bell e Ravencourt invece di ucciderli? Se continua così, riuscirà a eliminare le mie incarnazioni senza dover affrontare neppure un briciolo di resistenza.

Mi sto davvero guadagnando il nomignolo di coniglietto che mi ha affibbiato.

Avanzando con cautela, proseguo verso la stanza di Evelyn e la trovo chiusa a chiave. Busso senza ottenere risposta e, riluttante ad andarmene a mani vuote, indietreggio con l’intenzione di forzarla con una spallata. In quel momento noto che la porta della camera di Helena è posizionata sulla parete esattamente come quella che dà accesso al salottino di Ravencourt. Affacciandomi al di là di entrambe le soglie, vedo che i due vani hanno dimensioni identiche. Questo lascia supporre che la stanza di Helena fosse un tempo un salottino. In tal caso, avrà una porta di comunicazione con la camera di Evelyn, cosa che potrebbe risultarmi utile, visto che la serratura di quella di Helena è rotta da stamattina.

La mia ipotesi si dimostra corretta: la porta di comunicazione è nascosta dietro un elaborato arazzo appeso al muro. Grazie al cielo non è chiusa a chiave, e io riesco a raggiungere la mia meta.

Dato il difficile rapporto di Evelyn con i genitori, mi ero quasi aspettato che l’avessero sistemata in uno sgabuzzino: invece la sua stanza è piuttosto confortevole, per quanto modesta. Contiene un letto a baldacchino al centro e una vasca e un lavabo dietro una tenda appesa a un bastone. È chiaro che alla cameriera non è stato permesso di entrarci da qualche tempo, perché la vasca è piena d’acqua fredda e sudicia, gli asciugamani usati formano un mucchio umido sul pavimento e una collana giace sbadatamente abbandonata sul tavolino da toeletta accanto a una pila di fazzoletti di carta appallottolati e sporchi di trucco. Le tende della finestra sono chiuse, il camino acceso è pieno di ceppi. Ai quattro angoli della camera brillano altrettante lampade a petrolio, assediando la semioscurità tra la loro luce guizzante e quella del fuoco.

Rabbrividisco di piacere, e l’euforia di Derby per questa intrusione mi scatena un’ondata di calore nelle membra. Sento il mio spirito che si sforza di fuggire dal corpo che lo ospita: non riesco a fare di meglio per ritirarmi in me stesso mentre frugo tra gli oggetti personali di Evelyn alla ricerca di qualche indizio dei motivi che più tardi la indurranno a recarsi allo specchio d’acqua con una pistola in pugno. È un tipo caotico: abiti smessi sono infilati dovunque ci sia spazio, la bigiotteria si accumula nei cassetti, aggrovigliata insieme a vecchie sciarpe e scialli. Non c’è traccia di sistematicità né di ordine, e nessun segno lascia presumere che Evelyn permetta a una cameriera di avvicinarsi alle sue cose. Quali che siano i suoi segreti, non li nasconde solo a me.

Mi sorprendo ad accarezzare una camicetta di seta: scruto con disapprovazione la mia stessa mano prima di capire che non sono io a volere questo contatto, è lui.

È Derby.

Con un grido, allontano il braccio di scatto e chiudo violentemente l’armadio.

Percepisco la sua bramosia. Vorrebbe mettermi in ginocchio a palpare gli indumenti di Evelyn, a inalare il suo profumo. È un animale, e per un attimo ha assunto il controllo.

Asciugandomi la fronte imperlata di desiderio, inspiro a fondo per ritrovare la padronanza di me prima di riprendere la ricerca.

Concentro l’attenzione al massimo, tengo sotto stretto controllo i pensieri, eliminando ogni spiraglio che potrebbe consentire a Derby di insinuarvisi. Ma le mie indagini non danno alcun frutto. L’unico reperto di qualche interesse è un vecchio album di ricordi della vita di Evelyn: lettere scambiate con Michael, foto d’infanzia, citazioni poetiche e riflessioni risalenti all’adolescenza, da cui emerge il ritratto di una donna molto sola che ha amato disperatamente il fratello e adesso ne sente tantissimo la mancanza.

Chiudo l’album e lo infilo sotto il letto dove l’ho trovato, poi esco dalla camera con la stessa cautela con la quale ci sono entrato, trascinandomi dietro un Derby recalcitrante.