Sono seduto in un angolo buio dell’ingresso, con la poltrona orientata in modo da vedere con chiarezza la porta della stanza di Evelyn. La cena è in corso, ma Evelyn fra tre ore sarà morta, e io sono ben deciso a seguire ogni suo passo fino allo specchio d’acqua.
Normalmente una simile pazienza sarebbe impensabile per la mia incarnazione, ma ho scoperto che gli piace fumare: è un espediente utile, perché il tabacco mi dà un lieve capogiro e tiene a bada le ingerenze di Derby nei miei pensieri. Un vantaggio piacevole e inatteso di questa abitudine ereditata.
«Sono pronti quando vuoi!» esclama Cunningham, spuntando dalla nebbia del fumo per accovacciarsi accanto a me. Ha in volto un sorriso compiaciuto di cui non capisco assolutamente il senso.
«Chi è pronto?» gli domando fissandolo.
Il sorriso svanisce, sostituito dall’imbarazzo mentre Cunningham si rimette in piedi barcollando.
«Mi scusi, signor Derby, l’avevo scambiata per qualcun altro» si affretta a soggiungere.
«Io sono qualcun altro, Cunningham: sono io, Aiden. Però continuo a non avere la più pallida idea di ciò che stai dicendo».
«Mi hai chiesto di radunare alcune persone» spiega.
«No, non ti ho chiesto nulla».
Le nostre confusioni si rispecchiano a vicenda, perché la smorfia sul volto di Cunningham esprime lo stesso groviglio di sconcerto che mi annoda il cervello.
«Scusami, lui ha detto che avresti capito» insiste.
«Lui chi?»
Un rumore attira la mia attenzione verso il centro dell’atrio, e nel girarmi vedo Evelyn che attraversa di corsa il pavimento di marmo, piangendo, con il volto tra le mani.
«Prendi questo, io devo andare» fa Cunningham, piazzandomi in mano un pezzo di carta con la scritta: «Tutti quanti».
«Aspetta! Non so cosa significhi questa frase!» gli grido dietro. Troppo tardi: è già sparito.
Lo seguirei, ma Michael sta rincorrendo Evelyn nell’atrio, ed è per sorvegliare lei che mi trovo qui. Sono questi gli attimi mancanti destinati a trasformare la donna gentile e coraggiosa conosciuta da Bell nell’ereditiera suicida pronta a togliersi la vita sulle sponde dello specchio d’acqua.
«Evie, Evie, non scappare via così, dimmi cosa posso fare per te!» esclama Michael afferrando il braccio della sorella all’altezza del gomito.
Lei scuote il capo, e le lacrime luccicano nel bagliore delle candele, replicando lo scintillio dei diamanti che le adornano i capelli.
«È solo che…» Le manca la voce. «Ho bisogno di…»
Sempre scuotendo la testa, si libera dalla presa del fratello e mi supera a tutta velocità diretta nella sua stanza. Annaspa per inserire la chiave nella serratura, s’infila all’interno e si chiude la porta alle spalle con violenza. Michael la guarda sparire con aria abbattuta, poi prende un bicchiere di porto dal vassoio che Madeline sta portando in sala da pranzo.
Ingolla il liquore in un solo sorso e gli s’imporporano le guance.
Togliendole il vassoio dalle mani, indirizza la cameriera con un cenno verso la camera di Evelyn.
«Non preoccuparti di questo, vai ad assistere la tua padrona» le ordina.
È un gesto grandioso, un po’ sminuito dalla confusione che lo invade quando cerca di capire cosa farsene dei trenta bicchieri di sherry, porto e brandy che ha ereditato.
Dalla mia poltrona, vedo Madeline bussare alla porta di Evelyn: la povera ragazza è sempre più agitata a ogni suo tentativo ignorato. Alla fine si rassegna a tornare nell’atrio, dove Michael si sta ancora guardando intorno in cerca di un posto dove posare il vassoio.
«Temo che mademoiselle sia…» Madeline conclude la frase con un gesto di disperazione.
«Va bene, Madeline» dice Michael in tono stanco. «È stata una giornata difficile. Lasciala in pace per adesso. Sono sicuro che ti chiamerà quando avrà bisogno di te».
Madeline indugia con aria incerta, girandosi verso la stanza della padrona, ma dopo una lieve esitazione obbedisce e imbocca la scala della servitù per tornare in cucina.
Nel voltarsi a destra e a sinistra alla ricerca di una soluzione per il problema del vassoio, Michael mi vede intento a fissarlo.
«Devo sembrare un dannato idiota» osserva arrossendo.
«Più che altro un cameriere incompetente» ribatto senza mezzi termini. «Presumo che la cena non sia andata secondo le aspettative».
«È questa faccenda di Ravencourt» replica lui, sistemando il vassoio in precario equilibrio sui braccioli imbottiti di una sedia vicina. «Ti avanza una sigaretta?»
Esco dalla nebbia per offrirgliene una e gliela accendo mentre lui la stringe tra le dita. «Deve veramente sposarlo?» gli domando.
«Siamo quasi rovinati, amico mio» sospira Michael, inalando una lunga boccata di fumo. «Mio padre sta comprando tutte le miniere esaurite e tutte le piantagioni malandate dell’impero. Gli do al massimo un anno o due, e poi saremo completamente al verde».
«Ma io credevo che Evelyn non andasse d’accordo con i vostri genitori. Perché dovrebbe acconsentire al matrimonio?»
«Lo fa per me» dice Michael tentennando il capo. «I miei hanno minacciato di escludermi dal testamento se lei non li asseconda. Ne sarei lusingato, se non mi sentissi così dannatamente colpevole di tutto».
«Ci sarà pure un’altra soluzione».
«Mio padre ha già spremuto gli ultimi spiccioli che è riuscito a ottenere dalle poche banche ancora colpite dal suo titolo. Senza il denaro di Ravencourt, be’… a essere sinceri, non so cosa succederà, ma ci ritroveremo poveri, e sono abbastanza sicuro che ce la caveremo malissimo».
«È così per quasi tutti» osservo.
«Almeno gli altri ci sono abituati» ribatte lui, buttando la cenere sul pavimento di marmo. «Come mai hai la testa bendata?»
Mi tocco la fasciatura con un gesto impacciato: non ricordavo più di averla.
«Ho preso Stanwin per il verso sbagliato» spiego. «L’ho sentito discutere con Evelyn di una certa Felicity Maddox e ho cercato di intervenire».
«Felicity?» ripete lui, mostrando con la sua espressione che il nome non gli è nuovo.
«La conosci?»
Lui resta in silenzio per un momento, inalando a fondo il fumo della sigaretta per poi soffiarlo fuori lentamente.
«È una vecchia amica di mia sorella» dice infine. «Non riesco a immaginare perché stessero parlando di lei. Evelyn non la vede da anni».
«Felicity è qui a Blackheath» lo informo. «Ha lasciato al pozzo un biglietto per Evelyn».
«Ne sei certo?» mi chiede Michael in tono scettico. «Non era nell’elenco degli invitati, ed Evelyn non mi ha detto nulla in proposito».
Un rumore nei pressi della porta ci interrompe: è il dottor Dickie, che si affretta a raggiungermi. Mi appoggia una mano sulla spalla e si china a bisbigliarmi una frase all’orecchio.
«Si tratta di tua madre» mi sussurra. «Devi venire con me».
Qualunque cosa sia accaduta, è abbastanza grave da fargli dimenticare la sua antipatia nei miei confronti.
Scusandomi con Michael, mi affretto a seguire il medico, oppresso da un timore crescente, finché Dickie non mi conduce in camera di Millicent.
La finestra è aperta, e una folata d’aria fredda ghermisce e piega le fiammelle delle candele che illuminano la stanza. Mi occorre qualche secondo per abituare lo sguardo alla semioscurità, ma alla fine la vedo: Millicent giace sul letto, coricata di fianco, gli occhi chiusi e il petto immobile, come se si fosse infilata sotto le coperte per un breve sonnellino. Aveva cominciato a vestirsi per la cena, e si era pettinata i capelli grigi, di solito arruffati, lisciandoli e tirandoli all’indietro, lontano dalla faccia.
«Mi dispiace, Jonathan, so quanto eravate legati» dice il dottor Dickie.
Il dolore mi stringe nella sua morsa. Benché mi ripeta che questa donna non è mia madre, non riesco a liberarmi della sofferenza.
Le lacrime arrivano all’improvviso e in silenzio. Tremando, mi siedo sulla seggiola di legno accanto al letto e prendo tra le mie la mano ancora calda della defunta.
«È stato un infarto» spiega il dottor Dickie con voce afflitta. «Una cosa molto rapida».
È in piedi dall’altra parte del letto, l’emozione sul suo volto non meno sincera che sul mio. Asciugandosi una lacrima, chiude la finestra, interrompendo il flusso d’aria fredda. Le fiamme delle candele si raddrizzano, la luce nella stanza si solidifica in un caldo bagliore dorato.
«Posso avvertirla?» chiedo al medico, pensando ai mali cui potrei porre rimedio domani.
Per un attimo Acker assume un’aria perplessa, ma poi attribuisce la formulazione della domanda agli effetti del dolore, e mi risponde con gentilezza.
«No» dice, scuotendo il capo. «Non avresti potuto avvertirla».
«E se…?»
«Era semplicemente arrivata la sua ora, Jonathan» dice in tono sommesso.
Annuisco; non riesco ad aggiungere altro. Il dottor Dickie si ferma con me ancora un poco, avviluppandomi in una rete di parole che non sento né capisco. La mia angoscia è un pozzo senza fine. Posso solo lasciarmi cadere e sperare di toccare il fondo. Eppure, più precipito, più mi rendo conto che non soffro solo per Millicent Derby. C’è qualcos’altro laggiù, qualcosa di più straziante del cordoglio di questa mia incarnazione, un sentimento che appartiene ad Aiden Bishop. È aspro e disperato, e pulsa nel più profondo di me stesso. Il dolore di Derby l’ha fatto riaffiorare, ma per quanto mi sforzi, non riesco a liberarlo dalle tenebre e a riportarlo alla luce.
Lascia che resti sepolto.
«Che cos’è?»
Una parte di te, non pensarci adesso.
Dei colpi alla porta mi distraggono, e controllando l’orologio scopro che è passata più di un’ora. Nessun segno del medico. Dev’essersene andato senza che me ne accorgessi.
Evelyn si affaccia all’interno della stanza. È pallida, con le gote arrossate dal freddo. Indossa ancora l’abito da sera azzurro, un po’ più spiegazzato dall’ultima volta che l’ho vista. Il diadema spunta dalla tasca del lungo cappotto beige, gli stivali di gomma lasciano sul pavimento tracce di fango e di foglie. Dev’essere rientrata soltanto ora dalla spedizione al cimitero insieme a Bell.
«Evelyn…»
Vorrei dire di più, ma la mia angoscia mi soffoca.
Lei ricostruisce la situazione mettendo insieme le schegge di questo momento, poi entra nella stanza con un mormorio contrariato e punta dritto verso la bottiglia di whisky posata sul buffet. Il bicchiere mi ha appena sfiorato le labbra quando lei lo inclina di colpo, costringendomi a ingollarne il contenuto in un solo sorso.
Tossendo, me lo allontano dalla bocca, con il liquore che mi cola lungo il mento.
«Perché diamine…?»
«Be’, non puoi certo aiutarmi nello stato in cui sei».
«Aiutarti?»
Mi osserva, valutandomi mentalmente.
Mi porge un fazzoletto.
«Asciugati il mento, hai un aspetto orribile» dice. «Temo che la sofferenza non doni affatto a quella tua faccia arrogante».
«Come…?»
«È una lunga storia» m’interrompe Evelyn. «E ho paura che non ci resti molto tempo».
Frastornato, rimango qui seduto a cercare di capire, rimpiangendo la lucidità mentale di Ravencourt. Sono successe tante cose, molte delle quali sfuggono ai miei tentativi di collegarle tra loro. Già mi sentivo come se stessi guardando i vari indizi attraverso una lente appannata, e adesso ecco che Evelyn si presenta qui e copre il viso di Millicent con un lenzuolo, tranquilla come una giornata d’estate. Per quanto mi sforzi, non riesco a tenere il passo.
È chiaro che la sua reazione all’annuncio del fidanzamento durante la cena è stata una messa in scena, perché in lei non c’è più alcuna traccia di quella tristezza paralizzante. Ha lo sguardo limpido, parla con voce meditabonda.
«Dunque non sono l’unica a morire stasera» dice, carezzando i capelli della vecchia signora. «Che cosa triste».
Sconvolto, mi lascio sfuggire di mano il bicchiere.
«Tu sai…»
«Dello specchio d’acqua, sì. Bizzarra faccenda, vero?»
Parla in tono sognante, come se stesse raccontando una storia sentita molto tempo fa, di cui conserva solo un vago ricordo. Sospetterei che le sue facoltà mentali abbiano ceduto in qualche modo, se non fosse per la perentorietà delle sue parole.
«A quanto pare hai preso la notizia piuttosto bene» osservo con cautela.
«Avresti dovuto vedermi stamattina. Ero così furiosa che avrei potuto sfondare le pareti a calci».
Evelyn segue con le dita i contorni del tavolino da toeletta, apre il cofanetto dei gioielli di Millicent, tocca la spazzola dal manico di madreperla. I suoi gesti sono insieme avidi e reverenti.
«Chi ti vuole morta, Evelyn?» le domando, innervosito da questa strana esibizione.
«Non lo so» risponde. «C’era una lettera infilata sotto la porta quando mi sono svegliata. Conteneva istruzioni molto precise».
«Ma tu non sai chi te l’ha scritta?»
«L’agente Rashton ha una teoria, che però finora si è tenuto per sé».
«Rashton?»
«Il tuo amico. Mi ha detto che lo stai aiutando nelle indagini». Ogni parola gronda dubbio e disgusto, ma sono troppo incuriosito per offendermi. Che questo Rashton sia una futura incarnazione? Forse è addirittura lo stesso uomo che ha chiesto a Cunningham di consegnarmi il biglietto con il messaggio «Tutti quanti» e di radunare alcune persone. In ogni caso, sembra avermi coinvolto nel suo piano. Che possa fidarmi di lui o meno è un’altra faccenda.
«E Rashton dove ha preso contatto con te?» le chiedo.
«Jonathan Derby» replica lei con fermezza. «Niente mi piacerebbe di più che sedermi qui e rispondere a tutte le tue domande, ma non abbiamo tempo. Devo essere di fronte allo specchio d’acqua tra dieci minuti e non posso arrivare tardi. In realtà è per questo che sono qui: mi occorre la pistola d’argento che hai rubato al dottor Dickie».
«Non puoi avere davvero l’intenzione di andare avanti con questa faccenda!» esclamo in tono allarmato, balzando in piedi.
«A quanto ho capito, i tuoi amici sono vicini a smascherare il mio aspirante assassino. Hanno solo bisogno di un po’ più di tempo. Se non vado là fuori, l’omicida capirà che qualcosa non quadra, e io non posso correre questo rischio».
In due passi le sono accanto, con il cuore che mi batte a precipizio.
«Vuoi dire che sanno chi c’è dietro questo intrigo?» dico in tono eccitato. «Ti hanno rivelato qualche indizio in proposito?»
Evelyn regge controluce uno dei cammei di Millicent, un volto d’avorio montato su un pizzo azzurro. Le trema la mano. È il primo segno di paura che abbia notato in lei.
«No, ma spero che arrivino in fretta alla soluzione. Confido che mi salvino prima che mi veda costretta a un gesto… irreparabile».
«Irreparabile?» ripeto.
«Il messaggio è molto preciso: o mi tolgo la vita sulla sponda dello specchio d’acqua alle undici, oppure una persona a me molto cara morirà al mio posto».
«Felicity?» chiedo. «So che ti ha lasciato un messaggio al pozzo e che le hai chiesto di aiutarti con tua madre. Mi ha detto Michael che è una tua vecchia amica. È in pericolo? Qualcuno la trattiene contro la sua volontà?»
Questo spiegherebbe perché non sono riuscito a trovarla.
Il cofanetto dei gioielli si chiude con uno scatto. Evelyn si gira per mettersi di fronte a me, le mani appoggiate di piatto sul tavolino da toeletta.
«Non vorrei sembrare impaziente, ma tu non dovresti essere da un’altra parte?» mi domanda. «Ho ricevuto l’incarico di rammentarti una certa pietra da sorvegliare. Questo significa qualcosa per te?»
Annuisco, ricordando il favore che mi ha chiesto Anna nel pomeriggio. Quando Evelyn si ucciderà, devo stare accanto alla pietra che lei ha piazzato sull’erba. Senza muovermi di lì. Nemmeno di un centimetro, ha precisato lei.
«In tal caso il mio lavoro qui è finito ed è ora che me ne vada» dice Evelyn. «Dov’è la pistola d’argento?»
Persino tra le sue dita minuscole l’arma sembra un oggetto trascurabile, più decorativo che pericoloso: un mezzo imbarazzante per togliersi la vita. Mi domando se non sia proprio questo lo scopo della scelta, se quello strumento e il modo di darsi la morte non contengano un sottile rimprovero. Evelyn non si limita a essere assassinata, viene umiliata e soggiogata.
L’hanno privata di ogni scelta.
«Che maniera graziosa di morire» osserva lei, fissando la pistola. «Ti prego, sii puntuale, Jonathan Derby, sospetto che la mia vita dipenda da questo».
Con un ultimo sguardo al cofanetto dei gioielli, Evelyn esce di scena.