40.

Sesto giorno (seguito)

Gli anni di Dance mi piombano addosso come migliaia di minuscoli pesi.

Alle mie spalle, Michael e Stanwin conversano; Sutcliffe e Pettigrew ridono fragorosamente, con un drink in mano.

Rebecca si china su di me reggendo un vassoio d’argento sul quale è rimasto un ultimo bicchiere di brandy.

«Rebecca» la chiamo affettuosamente, e sto quasi per allungare la mano verso la gota di mia moglie.

«No, signore, sono Lucy, Lucy Harper» dice la domestica in tono preoccupato. «Mi spiace di averla svegliata, ma temevo che potesse cadere dal muro».

Batto le palpebre per scacciare il ricordo della defunta consorte di Dance, imprecando contro me stesso per essere stato così stupido. Che ridicolo errore ho commesso. Grazie al cielo il pensiero della bontà di Lucy nei confronti del maggiordomo mitiga l’irritazione di essermi lasciato cogliere in un momento di tale svenevolezza.

«Desidera bere qualcosa, signore?» mi domanda Lucy. «Un liquore per riscaldarsi?»

Dietro di lei vedo la cameriera personale di Evelyn, Madeline Aubert, impegnata a sistemare in un canestro bicchieri sporchi e bottiglie di brandy semivuote. Lei e Lucy devono aver portato qui questi rinfreschi da Blackheath mentre dormivo. Si direbbe che io abbia sonnecchiato più a lungo di quanto immaginassi, dato che si stanno preparando ad andarsene.

«Credo di essere già abbastanza malfermo sulle gambe» rispondo a Lucy.

Il suo sguardo mi oltrepassa con un guizzo per soffermarsi su Ted Stanwin, che tiene una mano stretta intorno alla spalla di Michael Hardcastle. L’incertezza le affiora in volto a chiare lettere, e non c’è da meravigliarsi considerando il modo in cui Stanwin l’ha trattata all’ora di pranzo.

«Non preoccuparti, Lucy, glielo porto io» dico alzandomi e prendendo l’ultimo brandy dal vassoio. «Ho comunque bisogno di parlargli».

«Grazie, signore» replica lei con un largo sorriso, quindi si allontana prima che io possa cambiare idea.

Tra Stanwin e Michael regna il silenzio quando li raggiungo, ma mi sembra quasi di udire le cose non dette e il disagio che le ha rimpiazzate.

«Michael, posso scambiare una parola in privato con il signor Stanwin?» domando.

«Certo» risponde lui, e mi lascia il posto con un cenno del capo.

Consegno il liquore a Stanwin, ignorando l’aria sospettosa con la quale scruta il bicchiere.

«È raro che lei si abbassi a parlare con me, Dance» comincia, squadrandomi come un pugile che prenda le misure all’avversario salito sul ring.

«Pensavo che potremmo aiutarci a vicenda» dico.

«Sono sempre disposto a fare nuove amicizie».

«Devo sapere quello che ha visto la mattina dell’omicidio di Thomas Hardcastle».

«Storia vecchia» commenta lui, passando la punta del dito sul bordo del bicchiere.

«Ma vale sicuramente la pena di sentirla raccontare da uno dei protagonisti» ribatto.

Stanwin guarda dietro di me, concentrato su Madeline e Lucy che se ne stanno andando con il canestro. Ho la sensazione che cerchi un diversivo. Qualcosa in Dance lo innervosisce.

«Nulla di male in questo, immagino» riprende con un sospiro, riportando l’attenzione su di me. «All’epoca ero guardacaccia qui a Blackheath. Stavo facendo il giro intorno al lago come ogni mattina, quando vidi Carver e un altro demonio girato di spalle che accoltellavano il bambino. Sparai al complice, ma quello scappò nella foresta mentre io lottavo con Carver».

«Ed è per questo che Lord e Lady Hardcastle le assegnarono una piantagione?» gli domando.

«È così. Non che io avessi chiesto niente» risponde tirando su col naso.

«Alf Miller, il capo stalliere, sostiene che Helena Hardcastle era con Carver quella mattina, pochi minuti prima dell’aggressione. Lei che ne dice?»

«Dico che è un ubriacone e un dannato bugiardo» replica Stanwin senza scomporsi.

Lo osservo, sforzandomi di cogliere un tremito, un accenno di disagio, ma l’uomo che ho di fronte è un esperto di inganni, e adesso che sa cosa voglio ha accantonato ogni traccia di nervosismo. La bilancia pende a favore di Stanwin e sento aumentare la sua sicurezza.

Ho giudicato male la situazione.

Credevo di riuscire a intimidire il mio interlocutore come ho fatto con il capo stalliere e con Dickie; tuttavia la tensione di Stanwin non era un segnale di paura, ma l’imbarazzo di chi scopre una domanda nel proprio mucchio di risposte.

«Mi dica una cosa, signor Dance» riprende Stanwin, chinandosi per avvicinarsi a sufficienza da bisbigliarmi le parole all’orecchio. «Chi è la madre di suo figlio? Lo so che non è la sua amata Rebecca, ormai passata a miglior vita. Non mi fraintenda. Ho qualche idea in proposito, ma se lei mi rispondesse direttamente, mi risparmierebbe la fatica di verificare. In seguito potrei persino farle uno sconto sulla quota mensile, per i servizi resi».

Mi si gela il sangue. Questo segreto è sepolto nel nucleo più profondo di Dance. È il suo più grave motivo di vergogna, la sua unica debolezza, e Stanwin ci ha appena messo le mani sopra.

Non riuscirei a rispondere neppure se volessi.

Scostandosi da me, Stanwin getta nei cespugli con uno scatto del polso il contenuto intatto del suo bicchiere di brandy.

«La prossima volta che verrà a negoziare, si accerti di avere qualcosa…»

Alle mie spalle esplode un colpo di fucile.

Uno spruzzo mi schizza la faccia, e il corpo di Stanwin sobbalza all’indietro prima di accasciarsi a terra in un ammasso straziato. Mi fischiano le orecchie, e toccandomi la guancia, mi ritrovo le dita sporche di sangue.

Sangue di Stanwin.

Qualcuno grida, altri restano senza fiato o prorompono in urla soffocate.

Nessuno si muove, poi tutti scattano in azione.

Michael e Clifford Herrington si precipitano verso il ferito, esclamando a gran voce di chiamare il dottor Dickie, ma è chiaro che il ricattatore è morto. Ha il petto squarciato, e la perfidia che lo animava si è dileguata. Punta un occhio nella mia direzione con uno sguardo di accusa. Vorrei dire a Stanwin che non è colpa mia, che non sono io il responsabile. A un tratto questa mi sembra la cosa più importante al mondo.

È lo shock.

Un fruscio di rami e Daniel esce dal folto stringendo la doppietta dalle canne fumanti. Contempla il cadavere con una tale assenza di emozioni che potrei quasi crederlo innocente del delitto.

«Cos’hai fatto, Coleridge?» grida Michael, controllando il polso di Stanwin.

«Esattamente quello che avevo promesso a tuo padre» risponde lui in tono inespressivo. «Mi sono assicurato che Stanwin non ricatti mai più nessuno di voi».

«L’hai ucciso!»

«Sì» dice Daniel, incrociando lo sguardo sconvolto di Michael.

S’infila una mano in tasca e mi offre un fazzoletto di seta.

«Ripulisciti, vecchio mio» mi esorta.

Prendo il fazzoletto senza pensarci, addirittura ringraziando. Sono sbalordito, frastornato. Nulla di tutto questo mi sembra reale. Asciugo il sangue di Stanwin che mi bagna la faccia e fisso la chiazza cremisi rimasta sul tessuto come se potesse spiegarmi in qualche modo ciò che è successo. Stavo parlando con Stanwin, e poi lui è morto, e io non riesco a capacitarmene. Non avrebbe dovuto esserci qualcos’altro? Un inseguimento, paura, un preavviso di qualche genere. Non bisognerebbe semplicemente morire in questo modo. Così la morte sembra una truffa. Un prezzo troppo alto da esigere e da pagare.

«Siamo rovinati» geme Sutcliffe, accasciandosi contro un albero. «Stanwin diceva sempre che se gli fosse accaduto qualcosa, i nostri segreti sarebbero diventati di dominio pubblico».

«È questo a preoccuparti?» gli urla Herrington, girandosi di scatto dalla sua parte. «Coleridge ha appena assassinato un uomo sotto i nostri occhi!»

«Un uomo che tutti odiavamo» controbatte Sutcliffe. «E non fingere di non pensarla così anche tu. Nessuno di noi deve fingere il contrario. Stanwin ci ha dissanguati da vivo e ci distruggerà da morto».

«Non lo farà» interviene Daniel, appoggiandosi la doppietta sulla spalla.

È l’unico a conservare la calma, l’unico a non mostrarsi stravolto. Tutto ciò non significa nulla per lui.

«Quello che sapeva di noi…» comincia Pettigrew.

«È scritto su un taccuino che ora è in mio possesso» lo interrompe Daniel, recuperando una sigaretta dalla scatola d’argento che le contiene.

Non gli trema neppure la mano. La mia mano. Che razza di effetto infernale ha Blackheath su di me?

«Ho incaricato una persona di rubarlo per conto mio» continua Daniel con disinvoltura, accendendosi la sigaretta. «I vostri segreti sono in mano mia, e non vedranno mai la luce del giorno. E ora credo che ciascuno di voi mi debba un favore. Ecco quello che vi chiedo: per il resto della giornata, non parlate a nessuno di quanto è successo. Siamo d’accordo? Nel caso qualcuno faccia domande, Stanwin è rimasto indietro quando noi ce ne siamo andati. Non ha spiegato perché, e quella è stata l’ultima volta che l’abbiamo visto».

Facce vacue si cercano a vicenda: siamo tutti troppo inebetiti per parlare. Non capisco se i miei compagni siano sbigottiti dalla scena a cui hanno appena assistito o semplicemente sopraffatti dalla loro fortuna.

Dal canto mio, sento che lo shock si sta attenuando e comincio a digerire l’orrore del gesto di Daniel. Solo mezz’ora fa l’avevo apprezzato per quel poco di gentilezza che dimostrava a Michael. Adesso, coperto dal sangue di un altro uomo, mi rendo conto di aver grossolanamente sottovalutato la sua disperazione.

La mia disperazione. È il mio futuro quello che sto guardando, e mi disgusta.

«Ho bisogno della vostra parola, signori» dice Daniel, soffiando fuori il fumo dall’angolo della bocca. «Confermatemi di aver capito ciò che è successo qui».

C’è un coro confuso di consensi, espressi in tono sommesso ma sincero. Solo Michael sembra turbato.

«E non dimenticate che conosco tutti i vostri segreti». Lascia che quest’idea venga assimilata. «E ora credo che dovremmo andarcene di qui prima che ci vengano a cercare».

La proposta è accolta con un mormorio di approvazione, e tutti scompaiono nella foresta. Daniel mi invita con un cenno a trattenermi e aspetta che gli altri siano fuori portata d’orecchio prima di rivolgermi la parola.

«Aiutami a frugargli le tasche» mi esorta rimboccandosi le maniche. «Tra non molto il resto del gruppo passerà di qui sulla via del ritorno, e non voglio che qualcuno ci sorprenda accanto al cadavere».

«Cos’hai fatto, Daniel?» sibilo.

«Domani sarà di nuovo vivo» ribatte lui agitando una mano con aria di noncuranza. «Ho buttato giù uno spaventapasseri».

«Dovremmo risolvere il mistero di un omicidio, non commetterne un altro».

«Regala un trenino elettrico a un bambino, e lui cercherà subito di farlo deragliare» osserva. «Il gesto non è indicativo della sua natura, né comporta la nostra condanna».

«Credi che questo sia un gioco?» sbotto, indicando il cadavere di Stanwin.

«È un puzzle con alcuni pezzi in eccedenza. Completiamolo e potremo tornarcene a casa». Mi guarda aggrottando le sopracciglia, come se fossi uno sconosciuto che gli ha chiesto informazioni su un luogo inesistente. «Non vedo il tuo problema».

«Se risolviamo l’enigma della morte di Evelyn nel modo che suggerisci, non ci meritiamo di tornare a casa! Non te ne accorgi? Queste maschere che portiamo ci tradiscono. Rivelano chi siamo in realtà».

«Stai vaneggiando» ribatte, mentre rovista nelle tasche di Stanwin.

«È quando crediamo di non essere visti che siamo più che mai noi stessi, non te ne rendi conto? Non importa se domani Stanwin sarà di nuovo vivo: oggi tu l’hai ammazzato. Hai ucciso un uomo a sangue freddo, e questa macchia ti marchierà l’anima per il resto della vita. Io non so perché siamo qui, Daniel, né per quale ragione ci sta accadendo tutto questo, ma dovremmo dimostrare che è un’ingiustizia, e non renderci meritevoli della pena che ci viene inflitta».

«Ti sbagli» replica lui con disprezzo. «Non possiamo nuocere a queste persone più di quanto potremmo danneggiare le ombre che proiettano sui muri. Non capisco proprio cosa pretendi da me».

«Che ci atteniamo a parametri più elevati» rispondo alzando la voce. «Che siamo uomini migliori di quelli che ci ospitano! Uccidere Stanwin era la soluzione di Daniel Coleridge, ma non dovrebbe essere la tua. Tu sei un brav’uomo, e non puoi rinunciare a questa consapevolezza».

«Un brav’uomo» ripete Daniel in tono di scherno. «Evitare azioni spiacevoli non basta a renderti un brav’uomo. Guarda dove siamo, quello che ci tocca subire. Per andarcene da qui dobbiamo fare ciò che è necessario, anche se la nostra natura ci porta in una direzione opposta. Lo so che questo ti scandalizza, che non hai il fegato di affrontare la situazione. Anch’io ero uguale a te, ma adesso non ho più il tempo di girare intorno ai miei principi etici. Posso mettere fine a questa faccenda oggi stesso, e sono ben deciso a provarci, perciò non giudicarmi dal rigore con cui mi attengo alla mia morale, giudicami da quello che sono disposto a sacrificare perché tu non debba ripudiare la tua. Se fallisco, puoi sempre tentare in un altro modo».

«E come riuscirai a convivere con te stesso dopo?» gli domando.

«Guarderò i volti dei miei familiari e capirò che quanto ho perduto in questo posto non era minimamente paragonabile a ciò che ho guadagnato lasciandolo».

«Non è possibile che tu ne sia davvero convinto».

«Lo sono, e lo sarai anche tu dopo qualche altro giorno a Blackheath» ribadisce Daniel. «E adesso, per favore, aiutami a perquisire Stanwin prima che arrivino gli altri cacciatori. Non ho nessuna intenzione di sprecare la serata rispondendo alle domande della polizia».

Discutere con lui non servirebbe a nulla, i suoi occhi hanno assunto un’espressione dura e chiusa.

Sospiro e mi avvicino al cadavere.

«Cosa devo cercare?»

«Risposte, come sempre» dice Daniel sbottonando la giacca insanguinata del ricattatore. «Stanwin prendeva nota di tutte le menzogne di Blackheath, compresa quella che costituisce l’ultima tessera del nostro rompicapo, il movente dell’assassinio di Evelyn. Ciò che sapeva è contenuto in un taccuino scritto in codice: per leggerlo occorre il cifrario. Io ho il taccuino, e Stanwin portava il cifrario con sé dovunque andasse».

Il taccuino è quello che Derby ha rubato in camera di Stanwin.

«Sei stato tu a portarlo via a Derby?» chiedo. «Mi sono beccato una randellata in testa subito dopo essermene impadronito».

«Certo che no» replica Daniel. «Coleridge aveva già incaricato qualcuno di recuperarlo prima che io prendessi il controllo della sua mente. Finché non mi è stato consegnato, non sapevo nemmeno che gli interessassero i ricatti di Stanwin. Se la cosa ti può consolare, avevo pensato di avvertirti».

«E allora perché non l’hai fatto?»

Si stringe nelle spalle. «Derby è un cane rabbioso, mi è parso meglio per tutti lasciarlo dormire per qualche ora. E adesso diamoci da fare, il tempo stringe».

Rabbrividendo, m’inginocchio accanto al corpo esanime. Nessun uomo dovrebbe morire in questo modo, nemmeno un individuo come Stanwin. Ha il torace maciullato e il sangue gli ha inzuppato i vestiti. Mi cola tra le dita quando infilo le mani nelle tasche dei pantaloni.

Lavoro adagio, evitando il più possibile di guardare.

Daniel non si fa certi scrupoli: palpeggia la camicia e la giacca di Stanwin e sembra indifferente alle carni martoriate che rivelano. Alla fine della perquisizione abbiamo racimolato un portasigarette, un coltellino da tasca e un accendino, ma niente cifrario.

Ci fissiamo a vicenda.

«Dobbiamo metterlo bocconi» dice Daniel, dando voce ai miei pensieri.

Stanwin era un tipo robusto, e voltarlo sul ventre richiede uno sforzo notevole. Però ne vale la pena. Mi riesce assai più facile frugare un cadavere che non mi guarda in faccia.

Mentre Daniel passa le mani sui pantaloni di Stanwin, io sollevo la giacca del morto e individuo una protuberanza nella fodera, circondata da una cucitura approssimativa.

Con mia vergogna provo un fremito di eccitazione. Giustificare i metodi di Daniel è l’ultima cosa che desidero, ma essere vicino a una scoperta mi rende euforico.

Usando il coltellino di Stanwin, disfo la cucitura e il cifrario mi scivola sul palmo. Appena lo tiro fuori, mi accorgo che nella tasca segreta c’è qualcos’altro. Infilo la mano all’interno ed estraggo un piccolo medaglione d’argento privo di catenella. Contiene un ritratto vecchio e screpolato, che raffigura una bambina dai capelli rossi, di sette o otto anni.

Lo porgo a Daniel, ma lui è troppo indaffarato a sfogliare il cifrario per prestarmi attenzione.

«Ci siamo!» esclama in tono elettrizzato. «Ecco la nostra via d’uscita».

«Spero proprio che tu abbia ragione» osservo. «Abbiamo pagato un prezzo molto alto per ottenerla».

Quando Daniel alza gli occhi dal taccuino, sembra un uomo diverso da quello che aveva cominciato a leggerlo. Non è la persona incontrata da Bell e poi da Ravencourt. Non è neppure più lo stesso di pochi minuti fa, mentre teorizzava la necessità delle proprie azioni. Quello di adesso è un uomo vittorioso, già con un piede fuori dalla porta di questa prigione.

«Non sono fiero di ciò che ho fatto» dice. «Ma non avremmo potuto ottenere il nostro scopo in nessun altro modo, credi a me».

Forse non ne va fiero, ma nemmeno se ne vergogna, è chiaro, e io ripenso all’avvertimento del Medico della peste.

L’Aiden Bishop arrivato qui all’inizio… le cose che voleva e il suo modo di ottenerle erano… inflessibili. Quell’uomo non sarebbe mai riuscito ad andarsene da Blackheath.

Nella sua disperazione, Daniel sta ripetendo gli errori che io ho sempre commesso, confermando esattamente le previsioni del Medico della peste.

Qualunque cosa succeda, non devo diventare così.

«Sei pronto ad andartene?» mi domanda.

«Conosci la giusta direzione?» gli chiedo a mia volta, scrutando la foresta e rendendomi conto che non ho idea di come siamo arrivati qui.

«Dobbiamo puntare a est» mi risponde.

«E da che parte è l’est?»

Infilandosi una mano in tasca, Daniel tira fuori la bussola di Bell.

«L’ho presa in prestito da lui stamattina» dice, posandosela di piatto sul palmo della mano. «È buffo come le cose si ripetano, eh?»