Mantenendomi tra gli alberi, mi avvicino a Blackheath senza farmi vedere, la camicia umida di nebbia, le scarpe incrostate di fango. Sono a pochi passi dal solario: chinandomi tra i cespugli grondanti, scruto all’interno in cerca di qualche segno di vita. È ancora presto, ma non so quando si sveglierà Daniel, né se sia già stato reclutato da Lacrima d’argento. Per prudenza, devo presumere che lui e le sue spie siano sempre una minaccia, perciò mi conviene agire in segreto finché Daniel non galleggerà a faccia in giù nel lago e tutti i suoi complotti non saranno annegati insieme al loro ideatore.
Dopo la sortita all’alba, il sole ci ha abbandonati alla tetraggine: il cielo è un caos di grigi. Frugo le aiuole con lo sguardo, sperando di trovarvi chiazze di rosso, tracce di viola, di rosa o di bianco. Cerco un mondo più luminoso nascosto dietro questo, e immagino Blackheath incendiata, coronata di fiamme e ammantata di fuoco. Vedo bruciare il cielo plumbeo, vedo cenere nera cadere a terra come neve. Immagino una realtà ricreata, sia pure solo per un istante.
Mi blocco, di colpo incerto sul mio scopo. Mi guardo intorno e non riconosco nulla. Mi chiedo perché sono uscito senza prendere tavolozza e pennelli. Certamente sono venuto a dipingere, ma non amo la luce del mattino in questo posto. È troppo cupa, troppo fioca: una garza stesa sul paesaggio.
«Non so per quale motivo sono qui» dico a me stesso, guardandomi la camicia macchiata di carboncino.
Anna. Sei qui per Anna.
Il suo nome mi libera dalla confusione di Gold, e i ricordi tornano ad affluire a precipizio in me.
I miei problemi stanno peggiorando.
Inspiro a fondo l’aria fredda e stringo tra le dita il pezzo degli scacchi che ho preso dalla mensola del camino; costruisco un muro tra me e Gold usando ogni immagine di Anna registrata nella memoria. Trasformo in mattoni la sua risata, il tocco delle sue mani, la sua gentilezza e il suo calore, e solo quando mi convinco di avere eretto una barriera abbastanza alta, ricomincio a osservare il solario, e scivolo nella stanza appena mi sono persuaso che la casa è ancora immersa nel sonno.
L’amico ubriacone di Dance, Philip Sutcliffe, dorme su uno dei divani, la faccia coperta dalla giacca. Si sveglia per un attimo, schioccando le labbra e sbirciandomi con gli occhi annebbiati. Borbotta qualcosa, cambia posizione e ricade nel suo torpore.
Aspetto, in ascolto. La pioggia sgocciola dai rami. Sutcliffe ha il respiro pesante.
Nient’altro si muove.
La nonna di Evelyn mi guarda dal ritratto appeso sopra il camino. Storce la bocca: l’artista l’ha colta nel preciso istante del rimprovero.
Mi formicola il collo.
Mi ritrovo a scrutare il quadro con aria accigliata, contrariato dalla delicatezza con cui è stato reso il soggetto. Lo ridipingo con la fantasia, a linee dure come cicatrici, accumulando il colore a olio in strati spessi quanto montagne. Il ritratto si trasforma in uno stato d’animo spalmato sulla tela. Uno stato d’animo per nulla benevolo. Sono sicuro che la vecchia arpia avrebbe preferito la schiettezza della mia versione.
Dalla porta aperta echeggia un acuto scoppio di risa che sembra un pugnale conficcato nella storia di qualcuno. Gli ospiti devono aver cominciato a scendere per colazione.
Sono a corto di tempo.
Chiudo gli occhi e mi sforzo di rievocare gli argomenti affrontati da Millicent nel suo colloquio con il figlio, tentando di capire cosa l’abbia indotta ad allontanarsi in tutta fretta per venire qui, ma nella mia testa c’è solo caos. Troppi giorni, troppe conversazioni.
Lungo il corridoio prende vita un grammofono, aggredendo il silenzio con una serie casuale di note. C’è uno schianto, la musica s’interrompe stridendo, si sentono voci sommesse che battibeccano e accusano.
Eravamo all’esterno, davanti alla sala da ballo: è là che è cominciato. Millicent sembrava triste, perduta nei ricordi. Parlavamo del passato, delle sue visite a Blackheath da bambina e poi di quando ci portava i figli, ormai cresciuti a sufficienza. Aveva criticato i loro compagni di gioco, e poi si era arrabbiata con me. Mi aveva sorpreso a guardare Evelyn e le domestiche al lavoro nella sala da ballo, scambiando il mio interesse per concupiscenza.
«Sono sempre le più deboli ad attirarti, eh?» aveva commentato. «Sempre le…»
Poi aveva visto qualcosa che le aveva fatto perdere il filo dei suoi pensieri.
Chiudo gli occhi con forza, cercando di ricordare cosa fosse.
Chi altro c’era nella sala da ballo insieme a Evelyn?
Di lì a un secondo, scatto a tutta velocità verso la galleria.
Appesa alla parete brilla una sola lampada a petrolio, la cui fiamma languente sembra incoraggiare le tenebre anziché metterle in fuga. La stacco dal gancio e la avvicino ai ritratti di famiglia per osservarli uno alla volta.
Blackheath si contrae intorno a me come un ragno toccato dal fuoco.
Tra poche ore, Millicent vedrà qualcosa che la sbigottirà al punto da indurla a piantare in asso il figlio sul sentiero e a precipitarsi nella galleria. Avvolta nelle sciarpe e armata dei suoi sospetti, noterà i nuovi dipinti di Gold accanto ai vecchi. In qualsiasi altra circostanza, non ci avrebbe fatto caso. Forse nei cicli precedenti c’era già passata davanti centinaia di volte senza badarci. Ma non in questa occasione. Oggi il passato le prenderà la mano e gliela stringerà.
A condannare a morte Millicent sarà la sua memoria.