Sono le sette e dodici del mattino, e l’atrio d’ingresso è nello scompiglio. Brocche ridotte in frantumi costellano il pavimento di marmo, i quadri penzolano sbilenchi, e tracce di rossetto lasciate dai baci imbrattano le bocche di uomini morti da lungo tempo. Cravattini ciondolano dal lampadario come pipistrelli addormentati, e al centro di tutto questo c’è Anna, a piedi nudi, con una camicia da notte di cotone bianco: si fissa le mani quasi fossero un enigma di cui non riesce a venire a capo.
Non si è accorta di me, e io resto a guardarla per qualche secondo, cercando di conciliare l’immagine della mia Anna con le storie di Annabelle Caulker che mi ha raccontato il Medico della peste. Mi domando se in questo momento Anna stia ascoltando la voce di Annabelle come io ho udito quella di Aiden Bishop la prima mattina. Una presenza arida e lontana, familiare ed estranea al contempo, impossibile da ignorare.
Con mia vergogna, sento vacillare in me la fiducia. Dopo tanti sforzi per convincere il Medico della peste che Anna è innocente, ora sono io a scrutarla in tralice, chiedendomi se nella mia amica non sia sopravvissuta qualche traccia del mostro che ha assassinato mia sorella, pronta a riaffiorare in superficie.
Annabelle Caulker è morta. Aiuta Anna, adesso.
«Anna» la chiamo sottovoce, di colpo consapevole del mio aspetto. Gold ha trascorso quasi tutta la serata al chiuso, nel torpore del laudano, e la mia unica concessione all’igiene è stata una spruzzatina d’acqua sulla faccia prima di uscire a precipizio dal cottage. Dio solo sa in che condizioni sono, e qual è il mio odore.
Anna alza gli occhi e mi guarda sbigottita.
«La conosco?» mi domanda.
«Capirai presto chi sono» replico. «Questo ti potrà aiutare».
Le lancio il pezzo degli scacchi che ho preso nel cottage, e lei lo afferra con una mano sola. Schiude le dita e lo osserva: un lampo di memoria le illumina il volto.
Senza preavviso, mi getta le braccia al collo; le sue lacrime mi bagnano la camicia.
«Aiden!» esclama, la bocca contro il mio petto. Sa di sapone al latte e di candeggina; i suoi capelli si impigliano nelle mie basette. «Mi ricordo di te, mi ricordo…»
La sento irrigidirsi; la sua stretta si allenta.
Si stacca da me e mi spinge via, poi raccoglie da terra una scheggia di vetro da usare come arma. Le trema nella mano.
«Tu mi hai uccisa!» prorompe con rabbia, stringendo la scheggia tanto forte da ferirsi.
«Sì, è vero» dico, e la consapevolezza di quello che ha fatto a mia sorella mi incita a risponderle a tono.
Annabelle Caulker è morta.
«E ne sono dispiaciuto» continuo, infilandomi le mani nelle tasche. «Ti garantisco che non succederà di nuovo».
Per un attimo lei si limita a battere le palpebre.
«Non sono più l’uomo che hai conosciuto» aggiungo. «Quello appartiene a un’altra vita, a una diversa serie di scelte. Sono molti gli errori che mi sono sforzato di evitare, e ci sono riuscito, per merito tuo, credo».
«Non…» comincia Anna, vibrando la scheggia contro di me appena avanzo di un passo. «Non posso… ho dei ricordi, ci sono delle cose che so».
«Esistono delle regole» le spiego. «Qualcuno cercherà di uccidere Evelyn Hardcastle e noi la salveremo insieme. Ho un piano che permetterà a entrambi di tornare in libertà».
«Non possiamo andarcene di qui tutti e due, non è permesso» obietta lei. «È una delle regole, no?»
«Che sia permesso o no, ce ne andremo ugualmente» insisto. «Devi fidarti di me».
«Impossibile» dichiara Anna con irruenza, usando il pollice per asciugarsi una lacrima isolata sulla gota. «Tu mi hai uccisa. Me lo ricordo. Sento ancora il fragore dello sparo. Ero così felice di vederti, Aiden. Pensavo che finalmente avremmo lasciato Blackheath. Io e te».
«Lo faremo».
«Mi hai uccisa!»
«E non è stata la prima volta» dico, la voce rotta dal rimpianto. «Ci siamo entrambi feriti a vicenda, Anna, e abbiamo pagato entrambi per questo. Non ti tradirò mai più, te lo assicuro. Puoi fidarti di me. Hai già avuto fiducia in me, solo che non te lo ricordi».
Alzando le mani in un gesto di resa, mi avvicino lentamente alle scale. Tolgo da uno dei gradini un paio di occhiali rotti e un po’ di coriandoli e mi siedo sulla passatoia rossa. Tutte le mie incarnazioni mi gravano addosso, le loro immagini di questa stanza si affollano ai confini della mia mente e il loro peso è quasi insopportabile. Con la stessa chiarezza della mattina in cui è avvenuto…
È questa la mattina in cui è avvenuto.
… mi si riaffaccia alla memoria il dialogo tra Bell e il maggiordomo sulla soglia, la sensazione di paura che provavano entrambi. Mi sembra che mi pulsi ancora la mano per il dolore provocato dal pomolo del bastone mentre Ravencourt arrancava verso la biblioteca, poco prima che Jim Rashton sollevasse un sacco pieno di droga rubata per portarlo fuori dalla porta. Sento i passi leggeri di Donald Davies sul marmo quando è fuggito da Blackheath dopo il suo primo incontro con il Medico della peste, e le risate degli amici di Edward Dance in contrasto con il suo silenzio.
Quanti ricordi e segreti, quanti fardelli. Ogni esistenza è talmente greve. Non ho idea di come sia possibile reggere il peso anche di una sola vita.
«Che ti succede?» mi chiede Anna avvicinandosi e allentando un poco la stretta delle dita intorno alla scheggia di vetro. «Non hai un bell’aspetto».
«Ci sono otto persone diverse che si agitano qui dentro» rispondo, battendomi un dito sulla tempia.
«Otto?»
«Già, e anche otto versioni di questa giornata» continuo. «Ogni volta che mi sveglio, mi ritrovo in un corpo diverso. Quello di oggi è l’ultimo. O riesco a risolvere il mistero, oppure domani dovrò ricominciare tutto da capo».
«Non è… le regole non prevedono niente del genere. Abbiamo solo un giorno per scoprire l’assassino, e non possiamo diventare qualcun altro. Questo non è… non è giusto».
«Io non sono soggetto alle vostre stesse regole».
«Perché?»
«Perché sono venuto qui per mia libera scelta» spiego, massaggiandomi gli occhi stanchi. «Sono venuto qui per te».
«Stai cercando di salvarmi?» esclama Anna in tono incredulo, con la mano che le penzola lungo il fianco, la scheggia di vetro ormai dimenticata.
«Qualcosa del genere».
«Però mi hai uccisa».
«Non ho mai detto di essere bravo in ciò che faccio».
Forse è il tono della mia voce, o il modo in cui me ne sto accasciato sul gradino: in ogni caso Anna lascia cadere a terra la scheggia di vetro e si siede accanto a me. Sento il suo calore, la sua solidità. È l’unica presenza reale in un mondo di echi.
«E ci stai ancora provando?» mi domanda, scrutandomi con i grandi occhi castani, la pelle pallida e gonfia, le guance striate di lacrime. «A salvarmi, intendo».
«Sto provando a salvare sia me che te, ma non ci riuscirò senza il tuo aiuto» puntualizzo. «Devi credermi, Anna, non sono più l’uomo che ti ha fatto del male».
«Vorrei crederti…» Esita, scuotendo la testa. «Come posso fidarmi di te?»
«Devi solo cominciare» replico, stringendomi nelle spalle. «Non abbiamo tempo per nient’altro».
Annuisce, assimilando la mia risposta. «E cosa ti occorre da me, nell’eventualità che riesca a cominciare?»
«Parecchi piccoli piaceri e due grossi favori» spiego.
«Quali sono quelli grossi?»
«Mi dovrai salvare la vita. Due volte. Questo mi aiuterà molto».
Tiro fuori l’album da disegno, un taccuino vecchio e logoro pieno di fogli spiegazzati tenuti insieme da una copertina di cuoio legata con lo spago. L’ho trovato nella giacca di Gold quando sono uscito dal cottage. Dopo aver gettato via gli schizzi alquanto anarchici dell’artista, ho annotato sulle sue pagine tutto ciò che rammentavo della giornata di ciascuna delle mie incarnazioni, aggiungendo note e istruzioni dovunque.
«Che cos’è?» mi chiede Anna, prendendo l’album.
«È un libro su di me» dico. «Ed è l’unico vantaggio di cui disponiamo».