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Il programma, in Aula Giulio Cesare

26 giugno 2001

Trascorre un mese quasi esatto dal giorno dell’elezione e in Aula Giulio Cesare è convocata la prima seduta del nuovo consiglio comunale. In quell’aula, su quei banchi, ci sono stato esattamente venticinque anni fa, poco più che ventenne. E ora mi ritrovo a sedere al posto del sindaco, con il compito di illustrare il programma di governo della città per i prossimi cinque anni.

Non si tratta di prendere la parola per una generica dichiarazione di intenti, ma di un discorso e di un documento vincolanti, che rimarranno agli atti. È un passaggio importante, quindi, in qualche modo «solenne». Lo si percepisce anche dall’atmosfera che si respira, dall’impaccio di qualche neoconsigliere, dall’attesa dei giornalisti, pronti a sottolineare come un fatto piuttosto eccezionale sia costituito dalla presenza sullo scranno più alto dell’aula di un altro leader politico nazionale. A presiedere la seduta come consigliere «anziano», vale a dire eletto con più voti, è infatti Gianfranco Fini, che in quel momento è anche vicepresidente del Consiglio nel governo nato da non molto e guidato da Silvio Berlusconi.

Il mio rapporto con Fini è sempre stato corretto. Con lui e con Pier Ferdinando Casini, due anni prima, abbiamo condiviso un obiettivo in cui credevamo molto. E abbiamo lavorato insieme per raggiungerlo: l’elezione di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica. Ovviamente siamo avversari politici, ma si può esserlo rispettandosi. Quando arriva a Palazzo Senatorio, prima che cominci la seduta, viene a trovarmi in stanza e tra una cosa e l’altra mi racconta un episodio legato alle elezioni amministrative del 1993, quando si era candidato, perdendo, contro Rutelli. Ricorda che qualche giorno dopo il voto decisivo, mentre si trovava in un taxi imbottigliato nel traffico, la gente attorno a lui non faceva altro che prendersela con il sindaco, incolpandolo della situazione. Insomma, il vincitore era già bersaglio delle critiche, mentre per lui, lo sconfitto, la vita, rispetto alle ultime settimane, era decisamente migliorata.

Ascoltando il racconto penso che è inevitabile sia così. Questo è un mestiere bellissimo e duro, dove non ci sono filtri e intercapedini, dove le parole e le promesse non bastano: il rapporto con i cittadini è diretto, si ha l’occasione di fare cose concrete e di vedere i risultati delle proprie azioni, ma allo stesso tempo gli errori o l’inerzia sono sotto gli occhi di tutti, come è giusto che accada. Per quanto mi riguarda non so dire se sono già protagonista, mio malgrado, di situazioni analoghe a quella descritta da Fini. So che per ora l’accoglienza che ricevo dovunque vada o semplicemente girando per strada è ottima, di sostegno o comunque di rispetto. E so anche che questo mese è stato molto intenso, se guardo il lavoro che abbiamo avviato e tutto quel che è successo.

Basta pensare alle «prime volte» che hanno preceduto questa del consiglio comunale. Il giorno dopo il ballottaggio c’è stata la prima uscita pubblica, anche se non da sindaco, non ero ancora in carica: appuntamento in piazza del Popolo, per quella che era in fondo la prosecuzione, più in grande, della festa del centrosinistra della sera precedente. È un pomeriggio da incorniciare. La piazza è piena, migliaia di persone sono lì per condividere un inizio e una speranza. Sul palco, tra gli altri, c’è una persona alla quale voglio molto bene e che per me è un punto di riferimento. È Vittorio Foa, che emoziona tutti dicendo che con il risultato raggiunto abbiamo difeso non solo la memoria del passato, ma le opportunità del futuro; un futuro che lui non vedrà, ma che è nelle nostre mani e che noi – di questo ne è certo – sapremo costruire. Io da parte mia prendo la parola per dire innanzitutto della convinzione che dobbiamo avere e dell’orgoglio che dobbiamo provare. La convinzione che quando siamo uniti, quando siamo noi stessi senza imitare gli altri, possiamo vincere, e che è dentro la società che dobbiamo preoccuparci di stare, non nei talk show televisivi; come abbiamo fatto in questi mesi, mettendo al primo posto i problemi delle persone, il disagio sociale, le periferie. E poi l’orgoglio. Quello di guidare una città unica, che come fece la Firenze di La Pira, simbolo di pace nel tempo della Guerra fredda, potrà essere la capitale della lotta contro la nuova «bomba atomica» del millennio appena iniziato: la povertà, la fame, il baratro che separa il Nord e il Sud del mondo.

Alla fine, tra i tanti altri, ad abbracciarmi sul palco sale Aurelia Petroselli, la moglie di Luigi. So già quello che proverò il mattino dopo, quando in Campidoglio ci sarà l’insediamento come sindaco ed entrerò nella stanza dove ho visto per l’ultima volta suo marito, seduto dietro la scrivania, con l’immancabile sigaretta in bocca. E in effetti quella seguente è una giornata speciale e piena di emozioni, non posso definirla se non così. Arrivo in Campidoglio verso le dieci e mezza e il primo atto ufficiale è nella Sala delle Bandiere, quella dove si riunirà la giunta e dove adesso c’è il passaggio delle consegne con il commissario Enzo Mosino, alla presenza del segretario generale Vincenzo Gagliani Caputo, in mezzo a una marea di giornalisti e fotografi e con tutti i dipendenti comunali e gli uscieri del piano a fare da cornice. È uno di loro, Franco – che da quel giorno e per sette anni avrà per me le premure quasi di un padre –, ad accompagnarmi in stanza e ad aprirmi la porta finestra del balconcino che affaccia sui Fori. È uno spettacolo magnifico, unico. Si potrà forse discutere se Roma sia o no la città più bella del mondo – come la penso io è facile intuirlo –, ma di certo non esiste sulla faccia della Terra un ufficio con una vista meravigliosa e suggestiva come questa.

Non ho molto tempo di godermela, a dire il vero, perché mi attende il primo impegno ufficiale. E che impegno: il presidente Ciampi sarà al Vittoriano per la riapertura del Museo del Risorgimento, chiuso al pubblico da oltre vent’anni. Sono appena arrivato e non è merito mio, ovviamente. Però lo prendo come un buon segno. E poi con il presidente c’è amicizia, c’è una consuetudine che è iniziata a Palazzo Chigi al tempo del governo dell’Ulivo e della battaglia per l’ingresso dell’Italia in Europa e si è rafforzata con il passare degli anni. Sono contento, quindi, che il cammino cominci proprio con lui.

Scendo in anticipo, il che mi permette di arrivare puntuale, perché sulla scalinata del Campidoglio mi fermo a salutare e a scattare foto con i bambini di una scuola del Prenestino che mi fanno gli auguri e applaudono anche. Sono divertiti dal fatto di aver incontrato il sindaco, per di più con la fascia tricolore indossata per la prima volta. È proprio su questa che scherza il presidente appena mi vede: mi chiede ridendo se è nuova. Gli rispondo di sì, che l’ho appena comprata.

Nel pomeriggio, poi, decido di far visita al reparto Maternità del Fatebenefratelli, sull’Isola Tiberina. Per i romani è il luogo che per antonomasia significa nascita, quindi mi sembra che andare lì sia un segno di speranza e al tempo stesso di impegno, di volontà di costruire una città attenta alle esigenze di tutti, a cominciare dai bambini.

Anche il giorno successivo c’è una «prima volta», perché in Campidoglio, dove ho appena ricevuto le associazioni dei disabili, come in campagna elettorale mi ero impegnato a fare, sale il primo ospite straniero. Non è un capo di Stato, ma un grande attore che ha fatto la storia del cinema. È Sean Connery, il mitico James Bond. Fedele al ruolo che ha ricoperto e che porterà per sempre con sé, mi dice che in fondo anche io, come il suo personaggio, ho una «missione» da portare a termine, perché immagina che governare una città come Roma, ammirata in tutto il mondo per il suo patrimonio artistico e culturale, richieda notevoli capacità ed energie. Sorrido, gli rispondo che molto probabilmente ha ragione, ma che spero di non rischiare la vita e che comunque ho la fortuna, rispetto a un agente segreto, di poter contare su una squadra di persone che lavoreranno insieme a me. Di lì a qualche giorno, infatti, annuncerò gli assessori che formeranno la giunta.

È la più «rosa» d’Italia. Sei su sedici, infatti, sono donne. La prima riunione è il 5 giugno. I provvedimenti approvati quel giorno hanno anche un sapore simbolico, perché riguardano le politiche sociali, la sicurezza e la cultura. Si tratta dell’assunzione di un centinaio di persone tra operai addetti alla manutenzione urbana e assistenti sociali, della dotazione di strumenti di «radiolocalizzazione» per i vigili urbani e di un finanziamento per il restauro e il consolidamento delle Mura Aureliane. Soprattutto, chiedo a ognuno degli assessori – incontreremo i loro nomi nelle pagine che verranno – di seguire sempre, in ogni momento, alcuni irrinunciabili principi: concretezza, onestà, lealtà, efficacia e coordinamento. A tutti viene consegnato un promemoria con le maggiori emergenze da affrontare e i punti del programma su cui concentrarsi. Li avverto: per noi non esisterà né sabato né domenica, voglio poche chiacchiere e tanto lavoro.

Intanto in città c’è un’atmosfera particolare, elettrica. La Roma è a un passo dalla conquista del suo terzo scudetto. Io, come è noto, sono juventino e tale rimango. Ma sarei uno strano sindaco davvero se non fossi contento del fatto che tantissimi miei concittadini stanno vivendo un’emozione così forte, che presto potrebbe trasformarsi in gioia assoluta. Arrivo anche a capire meglio Petroselli, che era tifosissimo di Gianni Rivera – a proposito, è appena diventato il mio delegato allo Sport, mentre Tullio De Mauro lo è per l’Università – e del Milan, ma che stando in quella stanza aveva finito per appassionarsi sempre di più alle sorti della Roma. Tanto da togliermi per qualche giorno il saluto dopo il famoso gol annullato a Turone nella partita contro la Juve che di fatto decise il campionato 1980-81.

A ogni modo, la prima preoccupazione, in quei giorni, è gestire le cose senza che avvengano incidenti. Potrebbe essere già decisiva la trasferta a Napoli, e per questo stabiliamo di allestire tre maxischermi in piazza San Giovanni. Il pareggio rimanda tutto all’ultima partita, col Parma, all’Olimpico. L’attesa è frenetica, la pressione notevole, bisogna considerare l’afflusso di decine di migliaia di persone nella zona dello stadio e poi il loro riversarsi nelle vie della città, si spera per un gigantesco festeggiamento collettivo. Io ho anche un problema in più: sono in ospedale, perché sono stato appena sottoposto a un intervento urgente di appendicite. Mi sono sentito male una mattina in ufficio, ho provato a far finta di niente andando lo stesso, nel pomeriggio, a visitare la scuola sulla Tuscolana dove mi aspettavano, ma alla fine ho dovuto cedere. Seguo comunque la situazione dalla mia stanza al Gemelli, e quando tra le tante telefonate di auguri di pronta guarigione mi arriva quella del presidente Franco Sensi, decidiamo in gran segreto che se tutto andrà come deve andare organizzeremo una grande festa al Circo Massimo.

Il giorno della partita chiedo ai medici il permesso di andare anche io a vederla. È un bel rischio. Non per la salute, ma perché in caso di sconfitta – me lo fanno notare in molti – sarei accusato di aver portato sfortuna, poco ma sicuro. Alla fine della partita alcuni tifosi, conoscendo la mia fede calcistica, mi mettono scherzosamente al collo una sciarpa giallorossa. Accettare questo gioco, in questo momento, è la cosa più naturale del mondo, proprio per quel che dicevo a proposito della sintonia che un sindaco non può non avere con il sentimento di tanti suoi concittadini. E a ogni buon conto, il tre a uno finale significa scampato pericolo per me, scudetto per la Roma e appuntamento per festeggiare la domenica successiva.

Ancora non posso sapere che quello sarà solo il primo dei grandi eventi con centinaia di migliaia di partecipanti che riusciremo a organizzare. E comunque, se è una prova, è pienamente superata, con un solo momento di paura quando alcune decine di ragazzi si arrampicano sui tetti della basilica di Santa Anastasia e di altre costruzioni storiche sul Palatino, rischiando di far crollare tutto e di farsi molto male. Una volta fatti scendere e risolto il problema, la città è libera di vivere una notte magica. Il Circo Massimo è pieno all’inverosimile, di bandiere giallorosse e di tifosi venuti ad applaudire la squadra, capitan Totti in testa, insieme ad Antonello Venditti, a Carlo Verdone e Corrado Guzzanti, a Nicola Piovani e a Sabrina Ferilli che si esibisce in un casto spogliarello, promesso a suo tempo in caso di vittoria dello scudetto.

Il risveglio, la mattina dopo, è sereno. Roma ha dato una prova di civiltà. La prima seduta del consiglio comunale può prendere il via, il pomeriggio del giorno seguente, nel miglior clima possibile.

Dopo il giuramento di fedeltà alla Costituzione, inizio il vero e proprio intervento per esporre le linee fondamentali del programma. Con una premessa di fondo, legata non alla presenza di fronte a me del mio avversario alle elezioni e del vicepresidente del Consiglio alle mie spalle, ma a una convinzione sincera: il destino di Roma, la piena affermazione del suo ruolo di Capitale, la sua crescita economica e la sua coesione sociale devono essere un impegno comune, che si sia maggioranza o opposizione, a livello locale e nazionale. Nella distinzione dei ruoli e delle responsabilità, certo, ma facendo in modo che il naturale confronto politico non finisca mai per andare a scapito dell’interesse della città e di chi ci abita.

Il programma? Chi ha seguito la campagna elettorale sa quali sono le nostre priorità, che discendono tutte dalla convinzione che bisogna partire dalla vita concreta delle persone e che non esistono problemi piccoli, troppo piccoli perché il sindaco o un assessore non debbano trovare il tempo di occuparsene; dalla consapevolezza che una città cresce davvero solo se cresce tutta insieme, senza separazione tra centro e periferie, diffondendo qualità e sviluppo su tutto il territorio; dall’idea che la cosa più preziosa è essere una comunità unita, e non la somma di singole persone sole, perché questo significherebbe lasciar fuori o ai margini chi vive nel disagio, chi soffre o è più sfortunato. E dunque ecco gli obiettivi fondamentali del nuovo Piano regolatore generale e di un Piano regolatore anche per le politiche sociali, ecco la necessità di accelerare la costruzione della linea C della metropolitana e il potenziamento delle linee A e B, ecco la lotta alla burocrazia e la semplificazione della macchina amministrativa, la riqualificazione urbana e la tutela del diritto alla sicurezza, la sistemazione dei parchi e quella dei mercati, l’illuminazione delle strade e la battaglia per smantellare i cartelloni pubblicitari abusivi, l’impegno per moltiplicare gli asili nido e quello per sbloccare le grandi opere che potranno contribuire a fare di Roma la capitale anche dello sviluppo produttivo del Paese. E alla fine la proposta di far incontrare in Campidoglio, per affrontare i nodi della globalizzazione, per discutere dei suoi squilibri e delle sue opportunità, i sindaci di quindici delle città più grandi del mondo: una sorta di «C15» che comprenda anche realtà di Africa e Sud America, e che si occupi di questioni che troppo spesso nell’agenda del G8 nemmeno entrano.

Non sono solo buoni propositi, tutti questi, perché il lavoro è già cominciato. Una scelta innovativa, per esempio, è stata quella di stabilire, nei giorni scorsi, che tutti i nuovi edifici comunali dovranno essere alimentati a energia solare. Ma c’è molto altro in cantiere. L’appuntamento è per dopo l’estate, quando faremo il punto sui risultati raggiunti nei primi cento giorni dell’amministrazione.

La stampa è convocata per il 10 settembre. Non possiamo sapere, quel giorno, che ventiquattro ore dopo entreremo nel modo più terribile e inimmaginabile, insieme a tutto il resto del mondo, in una nuova epoca.